
Tale categoria emerge nel diritto internazionale con la Convenzione di Ginevra del 1951, che definisce “rifugiato” chi abbia un fondato timore di essere perseguitato nel proprio paese per 5 motivi specifici (“razza”, religione, cittadinanza, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale) e chieda per questo protezione in un altro paese. Abbiamo qui una prima distinzione delle forme di mobilità, tra migranti (chi lascia il proprio paese per cercare lavoro, opportunità o una vita migliore altrove), e rifugiati (chi fugge dal proprio paese perché costretto dal rischio di subire persecuzione o violazioni dei propri diritti). Da quel momento in poi la definizione giuridica di rifugiato consente di tutelare in modo specifico potenziali o attuali vittime di violenza di tipo politico, da non confondersi quindi con chi si sposta dal proprio paese per scelta. Si tratta di una necessaria forma di tutela per una specifica “tipologia” di mobilità.
Dal punto di vista della gestione politica dei flussi migratori, però, tale distinzione ha senso solo quando è parallelamente garantita la possibilità di migrare in modo regolare anche per altri motivi: fino all’incirca agli anni ’80 del Novecento erano infatti previste politiche di regolarizzazione rivolte a chi si spostava per cercare lavoro o promozione sociale, e politiche dell’asilo volte a tutelare chi fuggiva da forme diverse di violenza. A partire dagli anni ’90 del Novecento, invece, abbiamo assistito a progressive e sempre più massicce forme di chiusura dei confini dei paesi ricchi nel Nord del mondo, con un controllo sempre più serrato sui motivi individuali della migrazione, nel tentativo di impedire l’ingresso per motivi di lavoro e lasciando, come unica possibilità di mobilità regolarizzabile, la via della richiesta di asilo.
Sul piano simbolico (che ha riguardato anche il modo politico e mediatico di percepire e rappresentare le migrazioni) questo si è tradotto in una radicalizzazione della distinzione tra migranti “economici/volontari” e migranti “politici/forzati”, con la conseguente produzione di un clima di forte sfiducia e sospetto. Dietro ogni richiedente protezione internazionale si potrebbe nascondere un “falso” rifugiato: un migrante economico che avrebbe scelto di partire per accedere con l’inganno a migliori condizioni di vita. Con il sostegno di numerose etnografie recenti, il libro mostra come il riconoscimento della protezione internazionale finisca così per essere utilizzato per scovare tali “falsi” rifugiati, destinati a essere rinchiusi in centri di detenzione amministrativa in attesa di essere deportati. La conseguenza è uno svilimento dello stesso istituto dell’asilo.
Come si diventa rifugiati o, al contrario, “clandestini”?
La procedura di riconoscimento dello status di rifugiato (o di “protezione sussidiaria”, il secondo tipo di protezione internazionale) è particolarmente complessa e sta divenendo inoltre sempre più lunga, misurandosi oramai in diversi anni. Rifugiati si diventa solo seguendo un iter burocratico dall’esito incerto, che inizia su richiesta della persona ed è abbastanza simile nei diversi paesi, quantomeno sulla carta. In Italia si può fare richiesta di asilo in questura, alla frontiera oppure negli hotspot sorti nel 2015 in Italia e in Grecia per presidiare i confini meridionali d’Europa. Avanzando richiesta si diviene “richiedente asilo” e occorre poi attendere, oramai oltre un anno solitamente in un centro di prima accoglienza, di essere chiamati in audizione presso una delle Commissioni Territoriali che verificano se esistano gli estremi per riconoscere una forma di protezione. Dopo ancora svariati mesi si riceverà la risposta: se questa è positiva si avrà diritto a risiedere regolarmente nel paese; se invece si riceve un diniego si può fare ricorso in Tribunale. Se anche questo passaggio ha esito negativo – e dopo circa 4 anni di residenza nel paese – la persona “diviene” irregolare e deve immediatamente lasciare il paese con i propri mezzi. Qualora non lo faccia, se intercettata dalle forze dell’ordine sarà rinchiusa in un centro di detenzione amministrativa in attesa di essere rimpatriata.
Se le statistiche mondiali mostrano che divenire rifugiati è non solo lungo ma anche decisamente difficile e riservato a pochi, è al contrario facilissimo diventare “clandestini”. Il mancato rinnovo di un visto turistico o di studio, o di un contratto di lavoro regolare, la perdita del lavoro o l’essere costretti ad accettare lavori al nero trasformano automaticamente la persona in migrante “illegale”, a prescindere dalla volontà della stessa. Ma il regime di sospetto che circonda oggi la mobilità di alcuni fa pesare lo stigma dell’illegalità anche su quei richiedenti asilo che assumono comportamenti o compiono scelte non considerate consone a un “vero” rifugiato. Nel volume discuto molte ricerche che indicano come sia in atto, in vari paesi, un regime morale di valutazione dei migranti, in base al quale il “vero” rifugiato deve (di)mostrare alcuni comportamenti standardizzati: attende di buon grado nei centri di accoglienza accettandone vincoli e imposizioni, mostra gratitudine per quanto ricevuto, possibilmente senza avanzare richieste o esplicitare bisogni. Così, il richiedente asilo che esce dalle quote regionali previste, che non entra nei percorsi di accoglienza o ne esce prima del tempo, e che presenta richieste o bisogni non conformi a quanto atteso è suscettibile di essere sospettato come un “falso” rifugiato, che nel migliore dei casi non ha motivo di essere “qui”, nel peggiore appare pericoloso. Ripercorrendo anche in una prospettiva storica le trasformazioni delle politiche migratorie, e conseguentemente quelle del significato dello status di rifugiato, il volume mostra attraverso numerosi esempi empirici come la differenza tra migranti e rifugiati dipenda perciò dal lavoro delle istituzioni, che in base a precise valutazioni morali costruiscono alcuni soggetti come meritevoli di protezione mentre ne scartano altri, a prescindere dalle effettive esperienze di vita delle persone.
Cosa distingue i migranti di ieri dai rifugiati di oggi?
Quanto ho appena affermato non significa in alcun modo suggerire che non esistano persone che hanno lasciato dietro di sé esperienze di violenza estrema (specifica o diffusa, sofferta sulla propria pelle o testimoniata) sperimentate già nel paese di provenienza oppure in una delle tante tappe che oggi compongono e frammentano viaggi sempre più lunghi, costosi e pericolosi. Tutt’altro, visto che nessuno oggi può fingere di non sapere delle violenze, degli stupri e delle torture subite dai migranti per mano di soggetti differenti, anche istituzionali: verso l’Europa questo vale per le rotte balcanica e mediterranea, ma vale anche per il confine tra Messico e USA così come lungo il confine tra Iran, Pakistan e Afghanistan.
Significa piuttosto riconoscere proprio gli effetti concreti dei mutamenti nelle politiche migratorie internazionali intervenuti negli ultimi cinquant’anni. Come notava già Elizabeth Colson – un’antropologa che ha dedicato tutta la vita allo studio delle migrazioni forzate in Africa – fino agli anni ’80 non ci si interrogava così ossessivamente sulla “motivazione” del viaggio, limitandosi semmai ad aggiungere un prefisso (emigrazione o immigrazione), giusto per indicare la direzione dello spostamento dal punto di vista dello Stato. Una volta giunte in un paese altro, le persone erano infatti lasciate relativamente libere di ricostruire una nuova vita, e di cercare abitazione e lavoro con una certa autonomia. Da quando invece le politiche migratorie hanno iniziato a limitare e virtualmente bloccare le possibilità di spostamento regolare, il motivo del viaggio è divenuto centrale perché separa chi può restare da chi deve essere respinto. In sintesi, se provengo dal Sud del mondo e all’arrivo dichiaro di voler cercare lavoro o una vita migliore e sicura, oggi ricevo immediatamente un foglio di via, sono considerata “clandestina” e devo lasciare il paese al più presto; se invece faccio richiesta di asilo posso rimanere sul territorio in modo temporaneamente regolare solo per la durata della procedura.
La chiusura dei confini ha dunque generato un’istituzionalizzazione radicale e pervasiva dei processi di controllo delle persone migranti, intercettate all’arrivo e virtualmente mai più perse di vista da varie istituzioni statali o enti e associazioni a cui lo Stato ne sub-appalta la gestione, l’accoglienza e il controllo, o la rimozione. E questa è la principale differenza tra le migrazioni che ho chiamato “classiche” (dove incontravamo alcuni che chiedevano protezione e molti altri partiti per i più diversi motivi, bisogni e sogni) e quelle “contemporanee”, nelle quali il filtro del controllo da parte di una vasta rete di soggetti istituzionali nazionali e sovra-nazionali inizia già nei paesi di partenza, prosegue durante i viaggi e nei posti di blocco creati dagli accordi internazionali e infine si materializza negli hotspot o nei diversi tipi di campi o centri. In questo modo, la distinzione tra migranti volontari o economici da un lato, e migranti forzati o politici dall’altro, assume una natura quasi ontologica, si può essere o l’uno o l’altro ma non entrambe le cose e, all’arrivo, occorre scegliere come dichiararsi.
Quale valore hanno le presunte tipologie di spostamento e quali effetti queste distinzioni esercitano sulla nostra comprensione della realtà e sull’impatto che hanno nella vita di chi migra?
Come accennavo, e come i lavori che ho analizzato nel volume mostrano chiaramente, le persone raramente lasciano il proprio paese per un unico motivo (economico o politico), quanto piuttosto per una serie di condizioni complesse; inoltre le lunghe, tortuose e pericolose traiettorie di viaggio cui le persone sono costrette aggiungono ulteriori motivi e condizioni che spingono il viaggio attraverso molteplici tappe. Dal punto di vista di chi si sposta infatti, motivi, condizioni, possibilità, vincoli e speranze di natura diversa si intrecciano tra loro, rendendo difficile – se non impossibile – dichiararsi migranti di un tipo piuttosto che di un altro. Quelle nitide e oppositive etichette politico-giuridiche che incasellano i “tipi” di migrazione non rendono conto della complessità delle vite e delle esperienze delle persone in viaggio, anzi nascondono quella complessità rendendo molte zone opache e inaccessibili allo sguardo, deformando la nostra comprensione di ciò che sta avvenendo.
Per esempio la pervasività dei controlli dei flussi migratori porta a naturalizzare l’idea in base alla quale una parte (del Sud) del mondo non ha diritto a spostarsi per costruirsi una vita diversa altrove: un diritto a cui nessun cittadino del Nord vorrebbe però rinunciare. Per lo stesso motivo, e poiché molti migranti vengono rimandati indietro o bloccati ancora prima dell’arrivo, a livello di percezione comune sembra di vivere in un’età in cui esistono (o possono esistere) solo rifugiati. Infine, sembra che i paesi ricchi accolgano generosamente chi necessita di rifugio, allo tesso tempo respingendo “ragionevolmente” tutti gli altri perché non si ha più bisogno di forza lavoro e di migranti “economici”. Quest’ultima è forse la principale distorsione rispetto a una comprensione accurata di quanto accade: come molti lavori che cito hanno ampiamente dimostrato, l’attuale “regime di frontiera” non blocca le mobilità, piuttosto le filtra ammettendo alcuni lungo i percorsi burocratici e potenzialmente regolarizzabili dell’asilo, e lasciando passare altri che, da posizioni di enorme vulnerabilità in quanto “irregolari”, sono resi immediatamente disponibili per lo sfruttamento lavorativo in ampi settori strategici della vita economica dei vari paesi, nella quale l’impiego “al nero” consente ampi margini di profitto (e possibilità di evasione fiscale) ai datori di lavoro e al mondo del caporalato.
Rispetto invece a chi riesce ad arrivare vivo o viva in un paese considerato sicuro, questa pervasività dei controlli e le maglie strettissime in cui si è confinati comporta, da un lato, la necessità di avanzare richiesta di asilo anche a prescindere dalla propria storia o volontà, pena il respingimento; dall’altro quello di essere pronte ad accettare – anche qualora si ottenga una forma di protezione – quei lavori precari, mal pagati, faticosi, pericolosi e spesso irregolari che i paesi ricchi riservano sempre più agli stranieri, nonostante l’assenza di politiche migratorie sostenga la retorica per la quale di lavoratori non ci sarebbe bisogno.
Barbara Sorgoni insegna Antropologia delle migrazioni all’Università di Torino. Si occupa di storia dell’antropologia e razzismo nelle colonie italiane, e di pratiche di accoglienza e procedure di asilo in Italia. Su questi temi ha scritto, tra l’altro: Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia Eritrea (Liguori, 1998) ed Etnografia dell’accoglienza. Rifugiati e richiedenti asilo a Ravenna (cisu, 2011).