
Nel nostro libro abbiamo cercato di mostrare come queste problematiche sono interconnesse fra di loro, tale che non è possibile postulare una separazione assoluta fra un livello macro, appartenente alla sfera pubblica – organizzazione di welfare, servizi sanitari e piani previdenziali – e un livello micro, relativo alla sfera privata –rapporti famigliari e sfera domestica. Il nostro tentativo è stato anche quello di rifiutare, allo stesso tempo, sia un’immagine idealizzata della longevità contemporanea, sia la metafora del “peso della cura”, adottata frequentemente da molti esperti per descrivere le conseguenze negative dell’invecchiamento demografico globale. Muovendosi all’interno di questa tensione analitica, le ricerche che abbiamo tradotto in questa collettanea mostrano come le società devono adattare modelli tradizionali relativi alla parentela, al genere, all’età e ai rapporti generazionali che si dimostrano insostenibili di fronte ai cambiamenti demografici. Ciò può anche portare alcuni gruppi sociali a trovare soluzioni creative che rompono con alcune idee dominanti. Siamo abituati a pensare che le idee culturali e le norme sociali siano fisse e statiche, qualcosa che è immutabile per definizione. Eppure, esse sono da sempre soggette al cambiamento, soprattutto in relazione a periodi storici di intensa trasformazione. Le idee sull’età, il genere e i doveri famigliari di cura non fanno certo eccezione. Nei saggi contenuti in questo volume, le lettrici e i lettori potranno leggere diversi casi che lo dimostrano.
Per esempio, si potranno conoscere quali sono le varie soluzioni che al giorno d’oggi i figli adottano per i propri genitori anziani nel Ghana orientale. In quel contesto, le case di riposo sono state a lungo percepite come qualcosa di straniero, di derivazione “occidentale”, frutto cioè di un contesto dove gli anziani non sono rispettati e tenuti in considerazione. Nello scenario contemporaneo di invecchiamento demografico, questa opzione comincia ad essere accettata sia dai genitori che dalle figlie e i figli come una scelta obbligata. Anche istituzioni già presenti da lungo tempo nella società ghanese vengono riscoperte e riadattate, come la pratica di affido di giovani ragazzi ad anziani che vivono nelle città, e che supportano i giovani agli studi in cambio di assistenza. Come sostiene l’autrice di questo saggio, queste pratiche possono essere anche contrarie alle idee “ortodosse” promosse dal governo e dalle istituzioni di cura locali; eppure, diverse persone e gruppi famigliari le adottano per far fronte alle proprie esigenze e aspettative. In altri casi, tradizioni culturali locali possono essere mobilitate per opporsi ad altri modelli culturali, di scala globale, che identificano nei cambiamenti corporei della vecchiaia un nemico da combattere e ritardare il più possibile. L’ultimo capitolo di questo volume ricostruisce i significati culturali della vecchiaia a Kyoto, Giappone. Questa nazione – che è una delle più longeve al mondo – è spesso rappresentata nell’immaginario occidentale come un’isola felice dove trascorrere gli ultimi anni di vita. In effetti, il Giappone sta affrontando la questione dell’isolamento sociale degli anziani e dell’aumento di tensioni intergenerazionali e famigliari, dovute a una combinazione fra aumento dell’aspettativa di vita, mutamenti all’interno dei gruppi residenziali e tagli al sistema di welfare pubblico. La soglia degli ottant’anni di età è marcata spesso dall’ansia di dover essere accuditi e/o di non voler diventare un peso per i propri cari. Ciò è dovuto anche al fatto che le istituzioni e i servizi sanitari pubblici insistono molto sull’idea che gli anziani debbano mantenersi autonomi e attivi. Le e gli ultraottantenni a Kyoto combattono la paura di ciò che avverrà attraverso la partecipazione a pratiche rituali che onorano gli spiriti degli antenati e dei cari defunti, e che hanno anche la funzione di mantenere una connessione fra passato, presente e futuro. L’accettazione della fragilità e della perdita di autonomia, prospettata dalla vecchiaia, avviene all’interno di un modello etico-religioso locale che considera il declino fisico e la morte parti della dimensione transitoria e trascendente dell’esistenza.
Come si traduce in chiave trans-culturale e globale la domanda di assistenza agli anziani?
Questo volume mostra come l’invecchiamento demografico sia un fenomeno condizionato dalle rappresentazioni culturali, dai ruoli sociali e dai sistemi economici e politici che gravitano intorno alla figura dell’anziano e alle reti che lo circondano.
Innanzitutto, è necessario smontare uno dei preconcetti che ha a lungo dominato la demografia e la gerontologia occidentale a partire dai primi del Novecento: l’idea che l’invecchiamento demografico riguardi solo le nazioni più ricche europee e nordamericane. In realtà le proiezioni demografiche ci restituiscono un’immagine diversa, ovvero che i Paesi del continente asiatico, sudamericano e africano sono quelli che invecchieranno di più nel prossimo futuro e con un trend molto rapido. Eppure, nell’immaginario popolare – e purtroppo anche in molti corsi universitari di antropologia, demografia ed epidemiologia – è ancora presente lo stereotipo che solo i paesi occidentali e ricchi affrontino il problema della domanda di cura per le malattie croniche e la vecchiaia. Non solo, in questo stereotipo è contenuta anche l’idea che i Paesi “Altri” siano quelli dove la popolazione è ancora fortemente legata a obblighi tradizionali di cura e rispetto per le persone anziane. Abbiamo scritto questo libro anche per limitare la diffusione di questi preconcetti. Adottare una prospettiva trans-culturale e globale permettere di acquistare maggiore consapevolezza delle categorie culturali attraverso cui leggiamo il tema della domanda di assistenza agli anziani e delle loro implicazioni politiche. Ciò è di interesse, non solo per antropologi e accademici in genere, ma anche per chi lavora nella programmazione di politiche e programmi sanitari e per i professionisti impiegati nei servizi sanitari e socio-assistenziali. Queste categorie riguardano in primo luogo la relazione fra “modernità e tradizione”, che è una questione tanto cara agli antropologi. Il tema delle dimensioni sociali e culturali della domanda di cura agli anziani è inquadrato attraverso una prospettiva comparativa che prende in esame ricerche antropologiche svolte in cinque nazioni diverse – India, Ghana, Stati Uniti, Italia e Giappone. L’idea che la modernità ci abbia permesso di vivere più a lungo ma a un caro prezzo, quello di aver svuotato di significato la vecchiaia e aver corroso rapporti tradizionali di cura e reciprocità nelle famiglie, è affrontata in ciascuno dei saggi. Vi è sicuramente una parte di verità in questo e, come ho detto in precedenza, una delle principali sfide che le società contemporanee devono affrontare è proprio quella di come soddisfare la domanda di cura e assistenza in popolazioni che invecchiano. Eppure, i richiami nostalgici alle famiglie tradizionali che si prendevano cura dei membri più anziani – che, come si vedrà nel libro, pongono diversi problemi dal punto di vista della veridicità storica di certe affermazioni – spesso sviano l’attenzione dalle gerarchie sociali e le diseguaglianze economiche contenute in certi modelli di parentela. Difatti, le rappresentazioni culturali si legano a interessi politici ed economici. Gli stessi obblighi di parentela – come quelli che prescrivono che i figli dovrebbero prendersi cura dei genitori anziani – spesso rappresentano dei modelli ideali che sono difficili da assolvere nella pratica.
Prendiamo il caso dell’Italia, dove spesso si è detto che le famiglie abbiano abbandonato la pratica tradizionale di prendersi cura degli anziani delegandola a persone provenienti da Paesi dove tale pratica è ancora radicata, le cosiddette badanti. Nella narrazione fornita da agenzie private e spesso legittimata a livello istituzionale, si è data grande enfasi a come le badanti possano sostituirsi ai famigliari nel fornire delle cure amorevoli, al pari di figlie e nuore. Ciò appare anche in linea con l’interesse di contenere la spesa pubblica evitando i ricoveri nelle strutture residenziali – opzione oltretutto di non facile accesso a causa degli alti costi e dei lunghi tempi di attesa. Come mostra uno dei saggi tradotti, i parenti, in particolare le figlie, che assumono una badante sono accusate di frequente di aver tradito i propri obblighi verso le persone anziane, nonostante l’assunzione di una badante rappresenti spesso una scelta obbligata per molte e molti. Abbiamo dunque bisogno di ripensare in modo radicale il sistema di assistenza, rendendolo più accessibile ed equo dal punto di vista sociale ed economico, piuttosto che limitarci a richiami sul valore della cura famigliare che oltretutto contengono diverse diseguaglianze di genere. Anche il saggio sull’India mostra come le cure famigliari risentano di giudizi morali ambigui a partire da un diverso contesto simbolico e religioso. Negli anni ‘80 in Europa e Nord America diagnosticare il morbo di Alzheimer distinguendolo da una naturale perdita di memoria legata alla senilità era diventata quasi un’ossessione per medici e geriatri, e indagare lo stato mentale delle persone anziane era diventato un fatto normale e scontato. Nell’India di quegli anni, invece, l’enfasi veniva posta a livello popolare non sulla perdita della memoria, bensì su come la voce e l’aspetto fisico delle persone anziane manifestino segni di rabbia o risentimento verso i propri famigliari. Il manifestarsi della senilità veniva interpretata localmente attraverso il modello normativo che l’autore chiama “cattiva famiglia,” secondo cui l’interruzione del seva – il tradizionale circuito di reciprocità fra genitori e figli – causerebbe l’emergere di comportamenti aberranti e antisociali nelle persone anziane.. La domanda di cura in età avanzata diventava localmente un veicolo per la diffusione di sentimenti nostalgici, risalenti all’epoca coloniale, che rispecchiavano le prescrizioni imposte dalla gerarchia sociale sui rapporti famigliari e di genere. Lo scherno verso le persone anziane affette da queste condizioni e la disapprovazione delle famiglie erano diretti in particolare verso gli strati più marginali della società indiana.
Quale rilevanza assumono le pratiche di assistenza agli anziani per la formazione della persona e delle traiettorie di vita?
Siamo abituati a pensare alle pratiche di cure e assistenza come a qualcosa di passivo, che risente di organismi predefiniti come il complesso delle politiche internazionali e nazionali di welfare o l’articolazione dei rapporti di una famiglia o di una piccola comunità. Piccoli atti di cura, tuttavia – che è una dimensione che in ogni caso attraversa l’intero ciclo della vita – possono influenzare la ridefinizione dei rapporti che costituiscono i gruppi domestici e le comunità, e orientare le trasformazioni dei servizi sociosanitari e del welfare tout court. Questa relazione vale anche per le idee che abbiamo sul benessere, l’affetto e il ciclo della vita. Non necessariamente pratiche di cure e assistenza seguono queste ultime, sarebbe più corretto dire che succede anche il contrario, ovvero che è attraverso le prime che prendiamo consapevolezza e riflettiamo criticamente sull’esistenza delle seconde. Le ricerche tradotte in questo volume utilizzano le pratiche di assistenza agli anziani come punto di osservazione per indagare, in diversi contesti, i temi della dipendenza e del benessere, delle relazioni famigliari e generazionali, dell’intimità e dell’affetto, dell’appartenenza nazionale e comunitaria. Si prenda per esempio il saggio che tratta delle agenzie di assistenza domiciliare che operano a Chicago. Si tratta di un mercato composto largamente da una manodopera di donne povere e di colore, che si occupa di persone anziane rimaste spesso senza una rete sociale. Recentemente in Nord America è nato un dibattito molto acceso sulle agenzie di assistenza domiciliare, considerate come facenti parte di un sistema capitalistico inconciliabile con la natura intima e affettiva della cura. Lo studio mette in luce come i livelli di intimità raggiunti in alcuni casi tra lavoratori e clienti vengano visti come una minaccia da queste aziende. Questi livelli di intimità vengono raggiunti attraverso lo scambio reciproco di piccoli doni fra lavoratrici e assistiti. Le prime si offrono di lavorare gratis per qualche ora o di fare attività che non ricadono nei piani assistenziali definiti dalle agenzie, mentre i secondi contraccambiano mostrandosi collaborativi, elargendo permessi “extra” o, in rari casi, anche piccole offerte di denaro. Questi scambi sono dunque funzionali a limare la condizione di vulnerabilità economica e sociale che appartiene a entrambe le parti. Essi, inoltre creano un’intimità importantissima per un rapporto di assistenza che sia accettabile agli occhi dei clienti. Eppure, sono malvisti dalle leggi e dai codici formali che regolano i confini dei rapporti di lavoro di assistenza domiciliare. Ciò crea un conflitto di non facile soluzione. Infatti, se da un lato questi scambi vengono proibiti con l’intento di proteggere i lavoratori da meccanismi di sfruttamento e i clienti da raggiri o truffe, dall’altro essi permettono a entrambe le parti di mantenere un’immagine socialmente accettata di sé. Essi consentono, rispettivamente, alle lavoratrici di apparire come persone che credono nel proprio lavoro e che trattano gli assistiti con umanità e sentimento, e ai clienti di mostrarsi come soggetti ancora in grado di dare il proprio aiuto agli altri e non un “fardello” per la società. Vediamo appunto come è attraverso le pratiche di cura che possiamo osservare come circolino i modelli sociali relativi al benessere, l’intimità e al concetto stesso di persona, e che possiamo riflettere criticamente su di essi.
Francesco Diodati è dottorando in Antropologia Culturale e Sociale presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa” dell’università di Milano-Bicocca. Si occupa di antropologia dell’invecchiamento e della cura. Il suo progetto di ricerca di dottorato ha come obiettivo quello di indagare le implicazioni sociali e politiche del riconoscimento della figura di caregiver nei servizi socio-sanitari in Italia. Nel 2020 ha conseguito il premio internazionale Margaret Clark Award dell’Association for Anthropology & Gerontology (AAGE).