
Sul versante della domanda politica, negli ultimi decenni i cittadini, per molti motivi, hanno sperimentato una generalizzata diminuzione della deferenza nei confronti dell’autorità politica e un aumento delle aspettative sulla capacità della democrazia e dei suoi rappresentanti eletti di rispondere ai bisogni di una società sempre più frammentata. Ciò ha fatto crescere la propensione alla critica da parte dei cittadini, che non riguarda solo la politica, ma che trova nella politica un facile e comodo bersaglio. Sul versante dell’offerta politica, c’è da registrare la crescente somiglianza sociologica degli appartenenti al ceto politico, l’assenza di partiti strutturati che facevano da guscio ideologico ai singoli politici di professione e, infine, il fenomeno del trasformismo, duro a morire e preso in particolare di mira dalla satira politica che genera una indiscriminata irrisione dell’intera classe politica. Anche le trasformazioni dei partiti concorrono ad alimentare l’antipolitica dei cittadini. Quelli che un tempo erano tra loro fieri avversari, portatori di idee diverse della società e del suo futuro, sono oggi organizzazioni di professionisti della politica, del tutto incapaci di promuovere una vera partecipazione e programmaticamente molto simili tra loro. La distanza sociale che li separa dai cittadini e questa loro sostanziale omogeneità politica sono alla base del sentimento di rifiuto e di condanna che alberga in una larga fetta dell’elettorato.
Esiste in realtà anche un uso politico dell’antipolitica: quali forme assume l’antipolitica dall’alto e chi ne sono i protagonisti?
Accanto all’antipolitica dei cittadini c’è anche l’antipolitica dei politici, quella che nel libro chiamo “antipolitica dall’alto”. Qui siamo davanti a un apparente paradosso, con politici di professione che denigrano il professionismo politico e partiti che fanno di tutto per dissimulare il loro natura partitica (chiamandosi “movimento”, “lega”, “margherita” ecc.). I motivi, anche qui, sono tanti. Il più ovvio, vecchio come il mondo, è che i politici (o aspiranti tali) usano l’antipolitica per fare le scarpe ad altri politici. Al riguardo, i casi più eloquenti sono il Bossi delle origini e il Movimento 5 stelle. Ma la lista potrebbe essere molto lunga. I politici ricorrono all’antipolitica anche per far passare alcuni provvedimenti politici sgraditi alla propria stessa maggioranza o per depistare gli elettori rispetto ad altri contenuti di questi provvedimenti. L’antipolitica, detto in altri termini, è un condimento (nel libro scrivo “un appetizzante”) che rende meno sgraditi questi provvedimenti. Un esempio è il taglio dei costi (o dei posti) della politica, spesso usato come argomento per giustificare alcune scelte molto divisive, come la riforma della Costituzione. L’antipolitica può inoltre servire ai politici per evitare di discutere di temi politicamente più impegnativi e controversi (come la povertà, l’ambiente, i diritti ecc.). È infatti politicamente ed elettoralmente più proficuo denunciare le storture della politica, i limiti dei politici, l’autoreferenzialità dei partiti, anziché intavolare una seria discussione su questi argomenti.
Anche le forme che può assumere l’antipolitica dall’alto sono diverse. In primo luogo, l’antipolitica dei politici si può esprimere attraverso le retoriche che questi adottano nei loro interventi pubblici, siano essi discorsi parlamentari, comizi di partito, interviste sulla stampa o interventi nei talk show. In maniera un po’ più implicita, la critica al professionismo politico, ai partiti e alle istituzioni politiche è espressa dai politici quando adottano pose da outsider della politica, anche quando hanno fatto solo quello fin dall’età della ragione. Da qui le felpe, il linguaggio popolare, l’esposizione della propria vita privata, l’autobus al posto dell’auto blu (ma solo se ci sono le telecamere). Infine, un’altra forma che può assumere l’antipolitica dall’alto riguarda la regolamentazione della vita interna del partito – prevedendo per esempio il limite dei due mandati o la riduzione dello stipendio degli eletti con le liste di quel partito – o del funzionamento delle istituzioni politiche. Il caso più evidente è, di nuovo, la riduzione del numero dei parlamentari rubricato come “taglio delle poltrone”.
Che ruolo gioca l’antipolitica nel presente e nel futuro della democrazia?
La minaccia che la diffusione dell’antipolitica porta alla democrazia non è l’involuzione democratica che sfocia nell’autoritarismo conclamato. I rischi connessi all’antipolitica hanno una natura più sottile e richiedono, dunque, un più alto livello di attenzione. L’antipolitica porta a una trasformazione della democrazia che la rende un simulacro. La democrazia formale continua a esistere – coi suoi partiti, le sue elezioni, i suoi attori politici – ma si svuota di contenuto e di significato. Cittadini e politici sono solo apparentemente avvicinati dalle trasformazioni della comunicazione, ma in realtà abitano mondi non comunicanti. L’acutizzarsi dell’antipolitica può inoltre preparare il terreno per l’avvento di altre logiche che prendono il posto della politica. Mi riferisco alla proliferazione di agenzie indipendenti, escluse dal circuito della rappresentanza politica, che conquistano sempre più spazio nella regolamentazione di aspetti rilevanti delle nostre vite. Mi riferisco anche al ruolo dei tecnici, sia quando sono dietro le quinte a suggerire ai politici sia quando entrano in scena dalla porta principale della politica, dando vita a governi tecnici. Sparare a zero contro la lentezza della politica, esecrare i compromessi facendoli passare come prove di incoerenza personale, prendere di mira i politici per le loro (comprensibili) debolezze è anche un modo per evocare e reclamare l’avvento dell’uomo solo al comando. In definitiva, questi effetti potenziali della diffusione dell’antipolitica non giocano un ruolo favorevole sul presente e sul futuro della democrazia.
Su quali presupposti è possibile formulare una difesa dei politici?
Il primo presupposto – piuttosto banale, ma che sembra espunto dalla riflessione sulla politica – è che i politici sono persone come noi. Non supereroi, ma persone che hanno le nostre stesse debolezze, passioni, capacità, incertezze, invidie ecc. Il secondo presupposto – anche questo piuttosto scontato, ma ugualmente sottaciuto – è che la politica è per molti un mestiere. Come tutti i mestieri, prevede lo svolgimento di alcune prestazioni in cambio di una retribuzione. Disconoscere queste due semplici verità è fonte di insidiosi fraintendimenti che generano sentimenti antipolitici tra i cittadini.
In un clima di antipolitica diffusa come quello che ci troviamo a vivere, una difesa dei politici può sembrare un esercizio ai limiti della provocazione. Tuttavia, se si considerano più da vicino alcuni aspetti del mestiere del politico, forse il giudizio che si dà sul loro operato (e sulle loro persone) potrebbe risultare meno critico. Al di là delle rappresentazioni superficiali e stereotipate, il lavoro quotidiano di un politico di professione (un parlamentare, il sindaco di una media o grande città, un consigliere regionale ecc.) è davvero faticoso e stressante. I politici devono far fronte ad aspettative elevate su quel che dovrebbero fare per la società, anche se il più delle volte possono contare su mezzi e risorse del tutto inadeguate per raggiungere i loro obiettivi. Anche se può apparire strano, il lavoro politico è altamente precario, instabile e incerto. Anche chi una professione diversa ce l’ha, non è detto che, una volta conclusa la sua esperienza politica, possa tornare a svolgerla senza alcun contraccolpo. C’è poi il risvolto privato e personale del mestiere del politico. Le poche ricerche sull’argomento mettono in luce che gli impegni politici sottraggono una grande quantità di tempo e di energie alla vita familiare, con ricadute negative sui rapporti di coppia e sul clima che si respira tra le mura domestiche. La condizione di impegno continuo è una fonte formidabile di stress che ha ripercussioni sullo stato di salute psicofisica di molti politici.
In conclusione, la morale è che se conoscessimo meglio la politica democratica, i suoi limiti e le sue contraddizioni, ci aspetteremmo meno da essa. Di conseguenza, anche la nostra frustrazione politica sarà probabilmente più contenuta. Allo stesso modo, se smettessimo di collocare i politici su un altro pianeta, e facessimo i contri con le loro imperfezioni e le loro fragilità, anche il nostro giudizio su di loro potrebbe essere meno severo.
Vittorio Mete è professore associato in Sociologia dei fenomeni politici al Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Firenze dove insegna Sociologia della leadership, Società e democrazia e Reti criminali. Tra le sue pubblicazioni, Antipolitica. Protagonisti e forme di un’ostilità diffusa (il Mulino, 2022) e Anti-politics in Contemporary Italy (Routledge, 2022).