
Come appunto scrivo nella mia presentazione al testo, i parce que per cui riproporre qui il mito antigoneo sono, in effetti, i più diversi. Antigone parla un linguaggio universale, quello della tragedia, che è sì una sorta di linguaggio pre-filosofico – manca, infatti, di quelle caratteristiche che sono proprie del sapere filosofico – tuttavia mantiene conservato un preciso scopo etico.
La tragedia greca è, del resto, una riflessione sulla ‘condizione umana’, non è, dunque, semplicemente una forma d’arte fine a se stessa, bensì il tentativo di rappresentare la vicenda umana attraverso uno straordinario rito collettivo: quello della politica e dello sforzo degli uomini di organizzarsi in una democrazia.
Vero è che ai versi di Sofocle, alla somma, non si può assegnare altro valore che quello della poesia. Eppure è evidente come la tale eroina – che mette allo scoperto i nervi della politica – non perda mai né di ‘senso’ morale, al punto che, anche fuori dalle cronologie, encore nella modernità filosoficamente instilla dubbi, confonde, cerca il vero, ci costringe ad interrogarci sul senso del fare politica e di agire, tra gli altri e con gli altri.
Antigone rivendica il ‘diritto di piangere’ e di portare il lutto pubblicamente, per denunciare l’ingiustizia subita: in cosa consiste la sua colpa?
Sofocle ha l’intuizione straordinaria di portare ‘in scena’ il lutto femminile. Al centro della sua tragedia c’è, infatti, una femmina che sproloquia e che reclama – per sé e per tutti – il ‘diritto di piangere’. Il che non era scontato per quei tempi, dal momento che le leggi suntuarie avevano proibito le manifestazioni del lutto, nei panni come negli atteggiamenti.
Antigone, invece, esige che le sia riconosciuto il suo ‘diritto alle lacrime’: lacrime da versare proprio in pubblico, davanti a tutti. Sicché questa eroina, dovette apparire assai disturbante per gli spettatori di allora. Mettere nel mezzo della scena, come protagonista, una femmina che si batte i pugni sul petto e piange scomposta, dovette essere giudicato alquanto sconveniente.
Qui, in effetti, il pianto rivendicato diventa un gesto politico, epifania di quel diritto antico dell’uomo che, pure nell’Atene democratica, era diventato oggetto di divieto. La polis pretendeva, oramai, forte dei suoi editti, di amministrare persino la mestizia e il cordoglio: solo i cittadini perbene, osservanti delle leggi e ligi, avrebbero avuto il diritto di essere compianti dalla città.
La colpa di Antigone è, allora, quella di mostrarsi fragile, straordinariamente umana, incurante del giudizio degli altri. Come a dire che ciascuno di noi ha diritto di ‘restare umano’ e, dunque, vulnerabile: di presentarsi agli altri per quello che è! Senza per questo essere giudicato per quella forma di resistenza che è il portarsi addosso le emozioni e, magari, di esibirle in pubblico, per puro senso di giustizia.
Quali possono essere i rovinosi effetti di una ragione di Stato dispoticamente applicata?
Antigone è, su questo fronte, una sorta di ‘eroina didattica’: quando la ragion di Stato si pone a scavalco dei diritti umani, della persona umana e persino delle leggi degli dèi, occorre fare atto di ‘parresia’; bisogna, cioè, farsi testimoni di verità e, se necessario, ‘dire di no’ ad una legge ingiusta.
Da qui l’insegnamento dell’Antigone sofoclea: la democrazia richiede che si resti vigili e che – da cittadini – ci si interroghi continuamente sul proprio e sull’altrui comportamento ed inevitabilmente sull’essenza stessa dei comandi dell’Autorità. Del resto, persino Tommaso d’Aquino è giunto a teorizzare una sorta di ‘diritto alla resistenza’, allorquando il potere diventa, per dir così, ‘nuda forza’.
I processi di Norimberga, o il processo di Gerusalemme a Eichmann, per esempio, sono stati la riprova che la ‘catena di comando’ può essere spezzata scuotendo la testa, mettendosi di sghimbescio al potere se marcio.
D’altro canto, per dirla come Hannah Arendt, quando la violenza inaudita soffia come una ‘tempesta di sabbia’ sul mondo ‘nessuno ha il diritto di obbedire’. Una divisa, un ruolo amministrativo, una scrivania, il quieto vivere, non possono farci sentire assolti di fronte ad una legge palesemente ingiusta.
La legge del ‘no’ è ciò che mette in salvo il meglio dell’uomo quando, tutto intorno, in un sistema democratico si incancrenisce.
La tebana di Sofocle, per questo, non cessa mai di essere, ‘reattiva’. Di fronte ad una legge che reputa ingiusta, la giovane tebana rivendica, per sé come per gli altri, il diritto di disobbedire al Legislatore e al suo editto ‘sbagliato’. Rivendica, per sé e per tutti, il ‘diritto di piangere’ e di portare il lutto pubblicamente, proprio per denunciare l’ingiustizia subita, come ‘donna’ e come ‘cittadina’, in una città diventata di colpo disumana che neanche più riconosce le leggi del cuore e in cui la ragion di Stato rischia, oramai, di sacrificare i diritti umani, gli Dei e l’uomo stesso.
Quali diverse letture hanno dato dell’Antigone María Zambrano, Jean Anouilh e Bertolt Brecht?
La storia di Antigone, come si vedrà, sul piano filosofico e letterario, ha poi stimolato molte riletture e interpretazioni, diventando quasi il paradigma del conflitto tra la legge morale e quella giuridica, ma con accenti spesso lontani dal suo significato storico.
Nel mio libro mi sono limitata ad alcune ‘riletture’ novecentesche: quelle di Zambrano, Anouilh e Brecht. Tre rivisitazioni che hanno, però, tutte la particolarità di renderla nelle vesti di una eroina politica sovra-storica.
Per Zambrano, l’Antigone sofoclea diventa il pretesto per scrivere di riscatto dalla guerra civile e dalla tirannia.
Per Anouihl, una sorta di approdo al tema moderno della perdita dell’identità del soggetto politico in un mondo che perde di senso e in cui persino la storia sembra essersi frantumata in semplici destini individuali, proprio perché si è smarrito il significato del vivere con gli altri.
Per Brecht, invece, diventa un modo per fare i conti con la Storia, con i ‘tempi bui’, ma anche per riappropriarsi dei materiali mitici: tanto nella Tebe sofoclea, quanto nella Berlino nazista, la guerra è il prodotto di un malgoverno e di uomini dissennati e l’evento bellico, con la sua rozzezza, è il medesimo modo – doloroso – con cui greci e tedeschi si sono accomiatati dalla democrazia e dalla buona politica.
In che modo l’obbligo morale del ‘restare umani’ ci interroga?
In fondo l’Antigone è una sorta di oracolo delfico, umido e lacrimoso, della modernità: dimmi che lettore sei e ti dirò anche quale immagine dell’uomo hai e di quale fatica riflessiva sei capace, o di quale serie di pensieri, come pure della capacità morale – se conservata o meno – di saper riconoscere il bene. In fondo, in questo senso, l’Antigone sofoclea è un po’ la ‘cartina di tornasole’ dei suoi lettori ‘storici’.
Rileggere la tragedia sofoclea, prenderla in consegna, ci offre l’occasione per vedere ‘cosa’ di umano, oggi, sia rimasto in noi.
Antigone, con il suo pugno di sabbia, induce insomma – encore – il lettore contemporaneo a interrogarsi sull’obbligo morale del ‘restare umani’, come pure lo costringe a esplorare il problema del ‘riconoscimento reciproco’ e della necessità di recuperare, in prima persona, la ‘perduta umanità’.
Formidabile attivista dei diritti umani, sorprendentemente l’Antigone di Sofocle la si può, dunque, di volta in volta, storicamente riposizionare in una qualsiasi notte della democrazia: nella Germania del Terzo Reich, come a Vichy; in una piazza delle Primavere arabe, come su una barca in fondo al mare del Mediterraneo.
L’umanità, del resto, in qualsiasi epoca storica, deve pur fare i conti, sulle dita della cattiva politica, con i propri morti e quelli degli altri.
Ai miei studenti ricordo sempre l’avvertimento di un poeta/filosofo, Charles Péguy: e cioè che ogni popolo – quando si lascia incantare dalle sirene dell’ideologia – ha poi sempre una lunga notte avanti a sé da attraversare e il corpo di un ‘fratello’ da seppellire.