“Antiglobalismo. Le radici politiche ed economiche” di Arlo Poletti

Prof. Arlo Poletti, Lei è autore del libro Antiglobalismo. Le radici politiche ed economiche, edito dal Mulino: che rilevanza ha assunto il fenomeno dell’antiglobalismo nella società contemporanea?
Antiglobalismo. Le radici politiche ed economiche, Arlo PolettiNel mio saggio sostengo che uno degli elementi più importanti della politica contemporanea sia l’ascesa dell’antiglobalismo come dimensione centrale di strutturazione del conflitto politico nelle democrazie occidentali. Proprio quei paesi che hanno creato e sostenuto la globalizzazione e le sue strutture politiche ed istituzionali internazionali, sono infatti attraversati da un’ondata antiglobalista che non ha precedenti. Certo, l’antiglobalismo è sempre stato presente in queste democrazie. Tuttavia, ciò che segna una discontinuità radicale rispetto al passato è che l’offerta politica antiglobalista – i partiti e i leader che promuovono politiche incentrate sulle categorie tradizionali della sovranità nazionale contro i vincoli della globalizzazione – non sono più relegati ai margini di questi sistemi politici ma si sono fatti in molti casi maggioranza e governo, imprimendo il loro marchio sulle politiche di questi paesi e modificando la struttura stessa dei rispettivi sistemi politici.

La severità delle crisi ingenerate dalla pandemia e dalla crisi Ucraina rischia di farci dimenticare che non è da ora che è in atto un ridimensionamento della globalizzazione e della cornice istituzionale entro la quale si inscrive. Ben prima che scoppiassero pandemia e guerra l’amministrazione statunitense, guidata dal Presidente Trump, decideva di iniziare un boicottaggio sistematico dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, iniziava una guerra commerciale con Cina e Unione Europea, si sfilava dall’Accordo di Parigi sui Cambiamenti Climatici e dall’Accordo di Partenariato Transpacifico e supportava l’antieuropeismo. E, ancora, la Brexit e il successo straordinario dei partiti populisti, antiglobalisti e anti-europeisti precedono pandemia e guerra. I leader e le politiche antiglobaliste, poi, sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che da almeno un decennio attraversa le società occidentali in profondità abbracciando l’opinione pubblica, influenzando le preferenze elettorali dei cittadini e, in ultima istanza, costituendo una domanda politica latente che ha contribuito a spostare il baricentro di questi sistemi politici in senso antiglobalista. L’anti-globalismo, quindi, è un fenomeno che attraversa le democrazie occidentali nel loro complesso, che ha sì la sua espressione più evidente nel successo dei partiti e dei leader che invocano e perseguono politiche anti-globaliste, ma che abbraccia l’opinione pubblica e le varie forme organizzative attraverso le quali si articolano le preferenze individuali all’interno delle società occidentali.

Ironia della sorte, tutto ciò avviene nel momento in cui si materializzano tutte le condizioni che avrebbero dovuto condurre alla “fine della storia”. Con il crollo del comunismo e, si potrebbe aggiungere, con l’emergere di un sistema internazionale dominato dall’ormai unica superpotenza statunitense, si è per lungo tempo aderito una visione teleologica della politica internazionale incentrata sulla fiducia in un futuro sempre più pacificato in virtù della presunta ineluttabilità di tre processi strettamente collegati tra loro: l’espansione dei processi di globalizzazione economica, la diffusione della democrazia e l’estensione dei meccanismi cooperativi tra gli Stati all’interno delle organizzazioni internazionali. La tesi era chiara e per certi versi consolatoria: un mondo sempre più economicamente interdipendente, con più democrazie e sempre più connesso politicamente all’interno di istituzioni internazionali sarebbe stato necessariamente un mondo più prospero, stabile e pacifico. Ebbene, l’antiglobalismo irrompe sulla scena a smentire clamorosamente le previsioni di questa prospettiva proprio quando si materializzano la condizioni da essa postulate, cioè nel momento nel momento in cui il livello di interdipendenza economica globale dovuto all’emergere ed espansione delle catene globali del valore non è mai stato così alto, quando il numero di democrazie è al suo massimo storico e in un ambiente internazionale caratterizzato da un’altissima densità di istituzioni internazionali.

Quali sono le radici politiche dell’antiglobalismo?
Nel saggio sostengo che la prima causa dell’emergere dell’antiglobalismo è di natura politica e riguarda e ha le sue radici nei mutamenti strutturali intervenuti nella distribuzione di potere all’interno del sistema internazionale negli ultimi trent’anni. Più precisamente, tale trasformazione riguarda la graduale erosione dell’egemonia politica ed economica statunitense e la concomitante ascesa politica ed economica di nuove potenze emergenti, la Cina su tutte. Modificando le condizioni strutturali che erano alla base dell’ordine internazionale liberale, il declino egemonico statunitense ha fornito la principale causa permissiva per l’emerge dell’antiglobalismo nella misura in cui ha incentivato il disimpegno statunitense da quell’ordine internazionale liberale che gli Stati Uniti stessi hanno voluto, creato e sostenuto negli ultimi settanta anni.

La globalizzazione non si è materializzata in un vacuum politico ma si è sviluppata all’interno di un ordine politico e istituzionale definito in termini di potere e incentrato sulla volontà, poiché era nel suo interesse, e sulla capacità, poiché disponeva delle risorse necessarie, della leadership egemonica statunitense. Promuovendo regole e istituzioni che incentivassero gli Stati a ridurre le barriere ai reciproci scambi commerciali, ai flussi di investimenti e ai movimenti di capitali, nonché fornendo un mezzo di scambio internazionale condiviso, gli Stati Uniti hanno giocato un ruolo chiave per la graduale e costante espansione della globalizzazione economica nel campo occidentale nel secondo dopo-guerra. Con la caduta del muro di Berlino poi, gli Stati Uniti si sono fatti promotori di una trasformazione di quello che era stato un ordine economico confinato al capo occidentale in un ordine pienamente globale. E, tuttavia, quello stesso ordine che era stato creato ed esteso a livello globale come strumento di proiezione internazionale degli interessi economici e politici degli Stati Uniti è divenuto lo strumento su cui si è ancorata l’ascesa di quelle potenze che oggi li sfidano. Paradossalmente, questa trasformazione che si accompagna a, ed è funzione del fatto che, gli Stati Uniti si sono trovati ad agire come “superpotenza solitaria”, ha creato anche le premesse per quel cambiamento strutturale nella geografia della distribuzione del potere economico globale che ha il suo epicentro nell’ascesa della Cina, e dell’intero continente asiatico, come piattaforma centrale nelle reti globali di produzione, commercio e distribuzione di beni e servizi.

Tutti gli indicatori del potere economico dicono mostrano che, in termini relativi, Stati Uniti e paesi europei hanno perso terreno a favore della Cina e di altre potenze emergenti. Lo spostamento in direzione più marcatamente anti-globalista del baricentro della discussione politica statunitense su come debba essere declinato l’interesse nazionale va compreso nell’ambito di questi mutamenti strutturali. Insieme alla consapevolezza che lo status quo ha generato vantaggi asimmetrici per i rivali, e quindi, un’erosione del proprio potere relativo, si è imposta una riflessione sul modo in cui intervenire per cambiare le regole di un gioco che ha prodotto questi esiti. Non è un caso che gli elementi di continuità tra le amministrazioni Trump e Biden siano molteplici. Essi si inseriscono nel solco di una tendenza di lungo periodo nella politica estera statunitense, si pensi al cosiddetto “Pivot to Asia” inaugurato dalla presidenza Obama, che ha visto gli imperativi della competizione e del contenimento del rivale cinese prendere gradualmente il sopravvento sulla necessità di garantire un supporto incondizionato all’ordine liberale internazionale. Modificando le condizioni strutturali che erano alla base dell’ordine internazionale liberale, il declino egemonico statunitense ha fornito la principale causa permissiva per l’emerge dell’antiglobalismo nella misura in cui ha creato le condizioni per un disimpegno di lungo termine da quell’ordine internazionale liberale che gli Stati Uniti stessi hanno voluto, creato e sostenuto negli ultimi settanta anni.

Quali, invece, le radici economiche?
In secondo luogo, e contemporaneamente, l’estensione su scala globale dell’ordine internazionale liberale ha comportato uno svincolamento definitivo dei processi di globalizzazione economica dalle logiche dell’ordine politico, determinando quindi la supremazia della logica della competizione economica su quella dell’ordine sociale. Paradossalmente, proprio il tentativo statunitense di imporre un ordine economico incentrato sulle logiche del libero mercato su scala globale ha finito per creare, non solo le condizioni per l’indebolimento della sua leadership, ma anche una diffusa contestazione sociale della globalizzazione stessa. Una varietà di studi empirici dimostrano che esiste una correlazione robustissima tra alcuni fenomeni tipici della globalizzazione contemporanea – shock da importazioni cinesi, de-localizzazioni e automazione dei processi produttivi, e supporto per i partiti antiglobalisti nelle democrazie contemporanee. I meccanismi che sottendono questa correlazione sono ormai abbastanza chiari. La sempre più profonda integrazione nei mercati globali delle economie avanzate ha rotto il delicato equilibrio che aveva per lungo tempo garantito un tra le esigenze della competizione economica e quelle dell’ordine sociale incardinate nel cosiddetto compromesso del liberalismo vincolato. La globalizzazione contemporanea, come documentano ormai da una vastità di studi, ha comportato l’acuirsi dei conflitti distributivi all’interno delle economie delle democrazie occidentali tra i cosiddetti “vincitori” e “perdenti”. Se gli individui con alti livelli di scolarizzazione e competenze hanno visto accrescere le proprie possibilità lavorative e i propri redditi negli ultimi venti anni, gli individui meno scolarizzati e impiegati nei settori più esposti alla nuova competizione delle potenze economiche emergenti, o a maggiore rischio di delocalizzazioni o automazione dei processi produttivi, hanno visto peggiorare le proprie condizioni di lavoro e di vita. Invece che creare più ricchezza per tutti, la globalizzazione nella sua forma attuale, ha contribuito ad aumentare le diseguaglianze e l’insicurezza economica per ampi strati sociali impoverendo sempre di più le classi medie e aumentando vertiginosamente le diseguaglianze sociali nelle democrazie occidentali. In questo caso, quindi, il volume mette in luce le cause che agiscono a stimolare l’anti-globalismo “dal basso”, ovvero come risultato degli effetti che i “costi” della globalizzazione hanno sulle preferenze di ampi strati sociali e, di conseguenza, sui processi di mobilitazione politica e di articolazione delle domande sociali all’interno dei sistemi politici delle democrazie occidentali.

Perché si vota antiglobalista?
In effetti, non è affatto ovvio che la vulnerabilità socioeconomica collegata alla crescente esposizione delle società occidentali alla globalizzazione debba necessariamente tradursi nell’ascesa dell’antiglobalismo. Ad esempio, gli individui più esposti ai rischi socioeconomici connessi all’operare dell’economia internazionale globalizzata hanno per lungo tempo rappresentato il nocciolo duro dell’elettorato di quei partiti europei – socialisti e socialdemocratici in prima battuta ma anche cristiano-democratici – che hanno fatto dell’espansione del welfare state il tratto distintivo della propria proposta politica. In effetti, questi partiti hanno garantito un diffuso consenso sociale ai processi di globalizzazione supportando il paradigma del liberalismo vincolato, ovvero quella proposta politica fondata sullo scambio implicito tra globalizzazione e welfare state. Questo paradigma ha funzionato più o meno stabilmente per tutto il periodo compreso tra il secondo dopoguerra e la fine della guerra fredda. L’interrogativo, quindi, è perché il paradigma anti-globalista del nazionalismo economico abbia soppiantato il paradigma del liberalismo vincolato come formula politica in grado di canalizzare le domande sociali dei perdenti della globalizzazione. Nel saggio seguono propongo una lettura di questo fenomeno che si articola su due linee argomentative strettamente connesse tra loro. In primo luogo, sostengo che tale cambiamento di paradigma sia dovuto al venire meno della credibilità di una proposta politica incentrata sulla redistribuzione. Proprio nel momento in cui ha creato una domanda crescente di politiche di welfare state che potessero offrire le necessarie protezioni e compensazioni sociali, la globalizzazione ha anche sistematicamente ridotto la capacità degli Stati di estrarre le risorse necessarie per finanziarle, rendendo difficile tassare il fattore produttivo più mobile, cioè il capitale. Il risultato è che la spesa sociale dei paesi occidentali è divenuta meno protettiva proprio nei confronti delle categorie più colpite dalla globalizzazione. La combinazione di crescenti vulnerabilità sociali e mancata promessa di redistribuzione, facendo venire meno la credibilità del compromesso del liberalismo vincolato fondato su uno scambio implicito tra globalizzazione e welfare state, ci dice molto del perché l’offerta politica antiglobalista abbia avuto questa successo nell’ultimo decennio. In secondo luogo, a rendere ancora più stabile il legame tra globalizzazione e anti-globalismo, vi è il fatto che lo scontento socioeconomico collegato ai processi di interdipendenza economica tende a stimolare una reazione identitaria. Moltissimi studi empirici mostrano come il richiamo identitario e nazionalistico trovi terreno fertile laddove le condizioni materiali, reali o percepite, degli individui sono precarie, e laddove non vi sono ragionevoli aspettative che la mano dello Stato possa intervenire per alleviare tale situazione. Difficilmente si può comprendere la portata del successo della formula politica anti-globalista del nazionalismo economico senza evidenziare queste interazioni tra dinamiche materiali e culturali. La saldatura tra ansietà economica e culturale, ingenerata dal funzionamento di un’economica internazionale che da un lato espone gli individui a crescenti vulnerabilità socioeconomiche e dall’altro lato limita la capacità dei governi di mettere in campo le politiche redistributive necessarie per alleviarle, trova infatti risposta nella formula politica anti-globalista del nazionalismo economico proprio in quanto essa combina la proposta di maggiore protezionismo economico con la riduzione dei flussi migratori.

Quali risposte sono possibili nei confronti dell’antiglobalismo?
La lettura che propongo dell’antiglobalismo come il sintomo della difficile coesistenza tra globalizzazione, almeno cosi come è venuta a configurarsi negli ultimi trent’anni, sovranità e democrazia, mette in guardia rispetto a due possibili tentazioni opposte. Da un lato, sarebbe sbagliato derubricare l’antiglobalismo come un fenomeno temporaneo e, magari, come il frutto di un’ondata di imbarbarimento della politica che può essere risolto con un tocco di tecnocrazia, da un lato, e un pizzico di noncurante paternalismo politico, dall’altro. Se è vero che l’antiglobalismo mostra la crisi profonda del patto sociale che per oltre mezzo secolo ha permesso alle democrazie occidentali di tenere insieme, in un equilibrio precario ma tutto sommato efficace, sovranità, democrazia e globalizzazione allora occorre saper leggere con umiltà questo fenomeno ha da dirci rispetto ai problemi del mondo in cui viviamo. Dall’altro lato, si deve avere la capacità e la lungimiranza di ignorare l’antiglobalismo laddove suggerisce soluzioni che rischierebbero di acuire, invece che di ridimensionare, i problemi di cui è il sintomo. La ricetta nazionalista, spezzando i legami che uniscono le nostre società con il resto del mondo, rischia di creare le condizioni per una crisi ancora più profonda con sbocchi possibili come la crisi della democrazia, un sistema internazionale sempre più competitivo e conflittuale e, infine, la guerra.

Nel saggio sostengo che l’antiglobalismo chiama in causa una riflessione sulle condizioni che possano favorire l’emergere di una globalizzazione più intelligente, cioè di una globalizzazione che lasci agli Stati quegli spazi di manovra e autonomia che sono necessari per poter definire i propri patti e ordini sociali interni e, in ultima istanza, per sostanziare la democrazia rappresentativa. Una globalizzazione di questo tipo potrebbe fondarsi su tre pilastri: nuove regole per il commercio internazionale che favoriscano la sostenibilità ambientale e i diritti dei lavoratori, una collaborazione internazionale per limitare lo strapotere del capitale finanziario e delle multinazionali, e politiche fiscali e di welfare state che contribuiscano ad invertire il trend decennale di aumento delle diseguaglianze. Affinché una globalizzazione di questo tipo possa emergere, auspico l’emergere di un ordine economico internazionale tripolare con l’Unione Europea dedicata a giocare un ruolo di mediazione tra i due blocchi al fine di ridurre il rischio di un sistema internazionale interamente articolato su una competizione definita unicamente nei termini di un gioco a somma zero.

Arlo Poletti è professore associato di Scienza politica all’Università di Trento

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