
Nel nostro libro abbiamo raccolto trenta antichi documenti e ci siamo fermati all’inizio del XIII secolo, prima dell’esperienza della Scuola poetica siciliana, che segna una fase nuova per la storia dell’italiano, una fase più matura, a partire dalla quale il volgare venne impiegato con sicurezza e con ambizione artistica.
Quali elementi accomunano tali documenti?
I primissimi documenti di italiano sono inevitabilmente testi modesti, di basso profilo, con frasi perlopiù brevi che mostrano l’affioramento della lingua volgare accanto al latino tradizionalmente usato nella scrittura. Sono testi che assolvono a un fine pratico, quale è innanzitutto la comunicazione con chi non sapeva il latino: si pensi agli inserti volgari nelle già menzionate formule di testimonianza dei placiti e nelle parti dispositive o negli snodi significativi di altri atti notarili (se non si devono alla scarsa cultura del notaio). Ancor meglio si può far riferimento ai ritmi e alle prediche, che adottarono il volgare in forma ben strutturata per rivolgersi in modo trasparente al popolo. Fine pratico avevano anche le annotazioni e i registri di conti scritti dai mercanti per gestire le loro attività lavorative appoggiandosi alla familiare lingua parlata, e spontaneità scherzosa si riconosce alle postille volgari in calce o a margine di documenti latini.
In che modo le iscrizioni – graffite, scolpite o dipinte – testimoniano le prime tracce dei volgari italiani?
In affreschi e mosaici, le iscrizioni fungono da didascalie identificative del personaggio al quale sono affiancate, oppure sono frasi pronunciate dai protagonisti raffigurati nella scena, come in una sorta di antichissimi fumetti. È così nell’Affresco della Basilica di San Clemente a Roma (fine dell’XI secolo), nel quale il santo parla in latino, mentre il patrizio pagano e i servi che tentano di catturare san Clemente dialogano in lingua volgare, e in questo caso “volgare” in tutti i sensi, perché abbiamo persino una parolaccia, fili dele pute, traite (“figli di puttana, tirate!”). Nell’iscrizione sulla tomba di Giratto a Pisa (seconda metà del XII secolo), il morto si rivolge ai vivi chiedendo la carità di una preghiera e ricordando il destino di morte che accomuna tutti gli uomini.
Quando brevi, frammentarie e isolate da un contesto ampio, alcune antiche iscrizioni restano enigmatiche: pur legate all’immagine alla quale sono accostate, si prestano a diverse interpretazioni e sono suscettibili di revisioni. Sono state ad esempio variamente spiegate le scene e le scritte dei mosaici piemontesi del fol e fel, ossia del folle e del fellone, e del pescatore che porta un pesce come offerta nel Duomo di Casale Monferrato.
Chi sono gli autori dei primi documenti in lingua volgare?
Autori dei primi documenti in lingua volgare italiana sono notai, mercanti, chierici, predicatori, monaci copisti, trovatori e giullari. Di alcuni di questi conosciamo talora anche il nome, ma ciò che per noi conta non è la loro singola individualità, che non ci dice molto, ma la categoria sociale e professionale a cui appartenevano. Erano coloro che per lavoro usavano la scrittura.
Più interessante invece è segnalare il nome dell’autore del documento quando si tratta di un artista o di un personaggio noto: nella seconda metà del XII secolo lo scultore toscano Biduino scolpì un’iscrizione in lingua volgare sulla tomba del giudice Giratto, oggi nel camposanto di Pisa, e il trovatore provenzale Raimbaut de Vaqueiras usò in due poesie il genovese (o comunque un volgare dell’Italia nordoccidentale che potesse in qualche modo “sembrare” genovese).
Qual è la geografia di questi testi?
Gli antichi documenti scritti in volgare italiano tra il ix secolo e i primi anni del xiii provengono prevalentemente dall’Italia mediana, un’area direttamente collegata ai monasteri e alla cultura benedettina. Abbiamo inoltre un buon numero di antiche testimonianze toscane, ma piuttosto tardo è il primo documento fiorentino, rappresentato dai Frammenti di un libro di conti di banchieri del 1211, quindi un testo pratico, un registro di debiti e crediti.
Nel nostro libro, nella presentazione degli antichi testi italiani, abbiamo seguito un criterio geografico, procedendo da Nord a Sud della Penisola per ogni tipologia individuata a indice: documenti d’archivio, scritture esposte, frammenti e prime esperienze di poesia in volgare. Nell’ordine di trattazione è quindi dapprima illustrata l’area settentrionale, che, pur povera di documenti rispetto all’Italia centrale, compare con l’Indovinello veronese, il Glossario di Monza, l’elenco dei beni della vedova ligure Paxia, la nota di garanzia del mercante veneziano Pietro Corner, i mosaici piemontesi di Vercelli e Casale Monferrato, i Sermoni subalpini, i versi genovesi di Raimbaut de Vaqueiras, la Carta ravennate. Il Meridione estremo è silente in questa nostra stretta finestra cronologica.
Non abbiamo escluso la Sardegna, dalla quale provengono molti antichi documenti. Per un bilanciamento interno tra le aree geografiche (Italia settentrionale, Toscana, Italia centro-meridionale e Sardegna) e per le peculiarità del sardo nel quadro linguistico italiano, abbiamo scelto di rappresentare l’isola solo con due dei documenti più noti e più antichi del sardo, ovvero il Privilegio logudorese e una Carta arborense, pur menzionando anche altri testi.
Il corpus degli antichi documenti dell’italiano non è fissato una volta per tutte, anche se sono rari i ritrovamenti di nuovi testi antichi: quali più recenti acquisizioni registra il Vostro libro?
Tra le acquisizioni più recenti registrate nel nostro libro, c’è la Carta ravennate, pubblicata negli anni Novanta da Alfredo Stussi, e recentissimamente riesaminata da Nino Mastruzzo e Roberta Cella, i quali, alla fine dello scorso anno, hanno proposto una nuova datazione e un’affascinante interpretazione della quale abbiamo dato conto pur conservando la precedente datazione (1180-1210) e lettura di Stussi. Mastruzzo e Cella ritengono che i versi d’amore della Carta ravennate risalgano alla fase aurorale della produzione poetica siciliana, composti mentre la corte federiciana era di stanza a Ravenna nella primavera del 1226: la poesia sarebbe stata cantata in volgare siciliano ma trascritta da mano romagnola, e celerebbe una metafora politica e un messaggio propagandistico dell’imperatore.
Ad aprile di quest’anno, inoltre, mentre il nostro libro era in bozze, sono state presentate altre due scoperte importanti, che siamo riusciti almeno a segnalare con rimando ai rispettivi studi. Emilia Calaresu ha dato una nuova interpretazione della frase non dicere ille secrita abboce, graffita nella Catacomba romana di Commodilla (prima metà del IX secolo): mettendo la scritta in relazione all’immagine e alla vicenda del santo Adàutto vicino a cui è incisa, la studiosa la interpreta come un ammonimento a non rivelare i segreti (il santo andò consapevolmente incontro al martirio dopo aver rivelato la propria fede cristiana), escludendo quindi che la frase sia un promemoria indirizzato ai preti per ricordarsi di pronunciare a voce bassa le orazioni segrete della messa, come invece finora tradizionalmente si intendeva, e come anche noi abbiamo fatto nel volume, pur menzionando la nuova ipotesi.
In un intervento in Accademia della Crusca e poi su “Il Sole 24 ore”, Vittorio Formentin e Antonio Ciaralli hanno segnalato una loro scoperta che è in pubblicazione nella rivista “Lingua e stile”: un verso di “canzone di donna” in volgare italiano centro-settentrionale del IX-X secolo. In questo caso, ovviamente, ci siamo limitati a rimandare all’articolo dei due studiosi per leggere e per avere informazioni sul nuovo frammento di poesia popolare di tema amoroso che purtroppo non ha potuto essere inserito nella nostra raccolta tra gli altri frammenti e le prime esperienze di poesia in volgare.
Abbiamo invece accolto molte novità di interpretazione pubblicate nel corso del Duemila: la rilettura dell’Indovinello veronese di Lucia Lazzerini, l’interpretazione e nuova trascrizione della Postilla amiatina di Giancarlo Breschi, vari interventi sulle iscrizioni dei mosaici piemontesi, e abbiamo inoltre seguito i lavori di Pietro Trifone per il testo dell’Iscrizione nell’affresco di San Clemente e di Vittorio Formentin per i ritmi e le prime esperienze di poesia. Queste novità mostrano che la scoperta di un documento non si conclude nel momento del ritrovamento e della prima pubblicazione, ma prosegue con confronti, approfondimenti e riesami critici. E a tal proposito, segnaliamo anche che alcuni testi che nel Sette e Ottocento erano ritenuti antichissimi documenti di italiano sono stati poi respinti perché riconosciuti opera di falsari.
Quali, tra i testi da Voi raccolti, risultano a Vostro avviso particolarmente significativi della storia e dell’evoluzione della nostra lingua?
L’atto di nascita della lingua italiana, quindi il Placito capuano, ha sicuramente fascino per il suo valore simbolico, perché segna il punto di partenza convenzionale della nostra storia linguistica. Così pure hanno valore emblematico i primi testi del volgare che diventerà poi la lingua italiana, ossia del toscano e, volendo essere più precisi, del fiorentino, varietà linguistiche che, escludendo la brevissima Postilla amiatina (1087), sono rappresentate dal Conto navale pisano (inizio sec. XII), un elenco di spese navali sostenute per allestire una flotta, e dai Frammenti di un libro di conti di banchieri fiorentini (1211).
Per indicare testi importanti, anzi realmente decisivi per l’evoluzione dell’italiano dobbiamo però uscire dalla finestra cronologica presa come riferimento nel nostro libro: noi abbiamo infatti raccolto le prime tracce dalle tante lingue volgari d’Italia, cercando di fornire un quadro ricco e il più possibile completo delle prime voci italiane. Per trovare testi e autori significativi per il consolidamento e l’evoluzione di quella che sarebbe diventata la nostra lingua dobbiamo spostarci nel XIII e XIV secolo. In specie guardando a Dante, che è notoriamente considerato il padre dell’italiano poiché per primo e in maniera mirabile ha mostrato tutte le potenzialità espressive e comunicative della lingua; mentre in età moderna e postunitaria altri ancora saranno gli snodi importanti per arrivare all’italiano d’oggi. Tuttavia, l’inizio di questa storia millenaria parte con gli antichi documenti dei volgari italiani da noi qui raccolti, commentati e affiancati da riproduzioni fotografiche.
Ludovica Maconi insegna Linguistica italiana all’Università del Piemonte Orientale. È autrice di ArchiDATA, l’archivio online di retrodatazioni lessicali dell’Accademia della Crusca. Ha pubblicato libri e articoli sulla storia delle idee linguistiche, la lessicografia italiana e la questione della lingua.
Mirko Volpi insegna Linguistica italiana all’Università di Pavia. Si occupa prevalentemente di Dante e dei suoi antichi commentatori (ha pubblicato l’edizione del Commento alla Commedia di Iacomo della Lana), di antichi volgari italiani e di aspetti dell’italiano non letterario tra Otto e Novecento.