
Tale triangolazione costituì, di fatto, un potente sistema di creazione degli schemi interpretativi del reale e, nel caso specifico, un potente sistema di legittimazione del ruolo, mai veramente autonomo né affatto paritario, assegnato alle donne all’interno degli assetti sociali. Ciò non significa certamente che non vi furono casi di donne divenute addirittura modelli spirituali, o di donne considerate autorevoli negli ambienti confessionali, al contrario. L’esclusione delle donne dalla gestione del fatto religioso e giuridico si alimentò anche dell’esaltazione di donne “illustri” per saggezza e santità di vita, e che erano considerate tali nella misura in cui a loro era riconosciuta la capacità, per grazia divina e per meriti personali, di oltrepassare le limitazioni intrinseche al loro stesso sesso. Gruppi come quelli costituiti soprattutto dalla comunità monastiche o claustrali cristiane, ma anche, pur con tutte le differenze del caso, dalle donne musulmane che trasmettevano i Detti del Profeta o da sagge maestre giudee, ebbero la possibilità di sperimentare margini di autonomia significativi. Ma di margini, appunto, si trattava e soggetti a forti discontinuità nel tempo.
Qual era la percezione del corpo della donna nelle società a maggioranza cristiana, ebraica e islamica dell’epoca da Lei esaminata, nel passaggio dalla fase della fanciullezza a quella adulta?
Il momento di passaggio era segnato dall’arrivo del menarca, per semplificare. Le bambine diventavano donne, appunto, quando diventavano esseri umani in grado di generare altri esseri umani. Ciò non significa che subito diventassero madri, significa che da allora in poi diventava possibile iniziare a pensare al loro futuro come spose e madri di famiglia. L’arrivo del menarca, del ciclo mestruale, fungeva da discrimine, segnando la fine dell’infanzia. Con esso arrivavano, però, anche nuove regole da seguire e si trattava di regole che impattavano a livello sociale poiché erano rituali di purificazione accompagnati da strategie di “astensione” e di “contenimento” particolari. Il sangue mestruale, infatti, era considerato un elemento impuro, un sangue suscettibile di originare episodi di contaminazione che avrebbero potuto interessare anche gli elementi naturali, come le piante, o interferire sui processi alimentari come, ad esempio, la lievitazione. L’impurità mestruale era un retaggio antico perché attestata, almeno in ambiente greco romano, fin da tempi antichi.
Come, dalla fisiologia femminile, si originò la riflessione relativa alla debolezza e all’imperfezione della donna?
Il ciclo era considerato un elemento fortemente problematico, fin dall’antichità, come si scriveva sopra. Sulla valenza limitante del ciclo, ai fini della riflessione sull’imperfezione della donna, sono stati versati fiumi d’inchiostro, per così dire. Corre l’obbligo di ricordare, per quanto in breve, i celebri studi dell’antropologa culturalista Mary Douglas (Purity and danger. An Analysis of Concepts of Pollution and taboo, London, Routledge, 1966) che ha analizzato i concetti di tabù e di contaminazione almeno fin dal 1966. La Douglas ha avuto l’indubbio merito di sottolineare come i rituali di purificazione connessi, per esempio, al ciclo mestruale non fossero, in realtà, prescrizioni sanitarie bensì norme e regole che andavano a definire quanto era socialmente accettabile e quanto non lo era.
Gli studi di Douglas sono stati discussi dalla critica e dalla letteratura specialistica successiva ma, per quanto mutatis mutandis, restano comunque un valido presidio culturale e intellettuale ancor oggi, visto che hanno l’indubbio pregio di focalizzare con chiarezza l’importanza della componente fisiologica per la creazione della normativa e della regolamentazione sociale, nonché per la conseguente riflessione sugli esseri umani stessi. La presenza del ciclo, infatti, costituisce una discriminante significativa per quanto attiene alla valutazione globale delle donne, così come la riflessione sulla loro fisicità interferisce pesantemente anche sul giudizio emesso a carico dell’intelligenza e della sensibilità del sesso femminile. La debolezza del corpo, se rapportata alla forza muscolare maschile, l’imperfezione della fisiologia femminile, di cui è esempio paradigmatico il flusso mestruale, vengono utilizzati da chi gestisce le leve del potere a livello sociale – o da chi servilmente le assevera come gli intellettuali – come dimostrazione evidente dell’inferiorità totale della donna. Imperfetta fisicamente, non completa sotto il profilo giuridico, è una eterna bambina che passa dalla custodia paterna a quella del marito. E, in questo, le tre culture non divergono tra loro se non per poco.
In che modo la legislazione che si sviluppò in ambiente ebraico, cristiano e islamico, pur con tutte le differenze del caso, fu unanime nel cercare di evitare le coppie miste?
La legislazione precipua fu unanime nel tentativo di arginare i processi di formazione delle coppie miste e, soprattutto, fu unanime nel tentativo di evitare che fossero specialmente le “proprie” donne a sposare uomini appartenenti ad altre confessioni religiose. È ovvio, ma vale la pena puntualizzarlo, che un simile sforzo non investiva gli estremi sociali: perciò era tollerato che sultani potenti e ricchi potessero avere mogli cristiane, ad esempio, così come finiva per risultare poco interessante il destino di esseri umani considerati “miserabili” dal punto di vista sociale perché troppo poveri, ancora per esempio. In ogni caso per la maggior parte delle persone vigeva la regola di sposare chi apparteneva alla propria comunità religiosa perché, in buona sostanza, ciò significava assicurare che non vi fossero problemi rispetto alla religione professata dai figli delle coppie. Il sistema adottato per scongiurare che ciò accadesse, pur nella diversità dei vari contesti, consisteva nella prescrizione di tipo legale e religioso che si trasformava in sanzione sociale, a partire dalle famiglie per finire alla sfera pubblica nel suo complesso. E, se proprio ci si voleva sposare con qualcuno che non apparteneva alla propria comunità religiosa, era richiesto che, almeno, si convertisse. Nelle società musulmane, almeno in alcune tra esse, era ammesso che i musulmani sposassero non musulmane, purché appartenenti alle religioni del Libro (ebree e cristiane) ed era addirittura tollerato che non diventassero islamiche, ma i figli erano di spettanza paterna. Sarebbero stati cresciuti secondo i precetti dell’Islam a prescindere dalle credenze della madre.
Quale fisionomia assunsero, le donne, in religione?
In linea di massima una fisionomia non completamente autonoma dalla componente maschile, sempre e comunque predominante, pur se con spazi e livelli diversi di relativa autonomia. E, soprattutto, le donne furono escluse dall’amministrazione attiva del culto, della liturgia e della legge religiosa. Non incontriamo donne tra i sacerdoti e i teologi, né tra i rabbini e neppure tra i maestri della legge islamica e tra gli Imam. Incontriamo donne considerate vicine a Dio, benedette da Dio anche in misura eccezionale, ma nessuna di loro poté mai esercitare le mansioni cultuali e religiose di livello più alto e formalizzato, perché erano riservate agli uomini.
Isabella Gagliardi attualmente insegna Storia del cristianesimo e delle chiese all’Università degli Studi di Firenze e coordina il settore Cristianesimo del Dottorato Nazionale di Studi Religiosi. È associata al Laboratoire LEM di Parigi e fa parte dello staff accademico dell’Istituto di Ricerca Statunitense The Medici Archive Project; nel 2022 è stata Directeur d’Etudes Associé alla Fondation Maison de Sciences de l’Homme di Parigi. Si occupa di storia dei movimenti religiosi in epoca medievale e proto-moderna, con particolare attenzione alla storia delle donne e di genere con taglio comparativo tra le religioni abramitiche.