“Andreotti, la Chiesa e la «solidarietà nazionale»” di Augusto D’Angelo

Prof. Augusto D’Angelo, Lei è autore del libro Andreotti, la Chiesa e la «solidarietà nazionale» pubblicato da Edizioni Studium: in quale quadro maturò il sostegno del politico democristiano alla formula dei governi che beneficiarono prima dell’astensione, e poi del sostegno del PCI?
Andreotti, la Chiesa e la «solidarietà nazionale», Augusto D'AngeloAlla metà degli anni Settanta l’Italia registrò un forte vento di cambiamento. C’era stato il ’68 della contestazione giovanile, le lotte operaie dell’autunno caldo, era iniziata la strategia della tensione dopo l’attentato di Piazza Fontana a Milano. Questo clima da principio favorì un ritorno moderato all’inizio degli anni Settanta, ma successivamente, anche per un mutato clima a livello internazionale, crebbe un certo clima di delusione nei confronti della formula di centro-sinistra e si registrò una forte avanzata del PCI. Dopo la sconfitta nel referendum del 1974 per l’abrogazione della legge sul divorzio la DC registrò una stagione difficile che si inseriva all’interno di una crisi più vasta: a livello internazionale vennero minati gli equilibri stabilitisi al termine della seconda guerra mondiale. La fine del cambio fisso tra dollaro e oro (agosto 1971), che aveva rappresentato l’elemento stabilizzante dell’ordine economico post-bellico creato dagli accordi di Bretton Woods, e la scossa della crisi petrolifera a seguito della guerra del Kippur (ottobre 1973) non segnarono solo l’ulteriore impennata del processo inflazionistico, ma costrinsero l’Occidente, e l’Italia in particolare, a sperimentare una profonda crisi energetica, coniugata ad instabilità monetaria e finanziaria che avrebbe costretto a profonde ristrutturazioni del settore economico. Andreotti era entrato negli anni Settanta «da destra». Nel luglio 1970 era stato richiesto di formare un esecutivo quadripartito, tentativo fallito per l’ostilità socialdemocratica. Nel 1972 il suo primo governo, battuto in Parlamento, condusse il Paese al primo voto anticipato della Repubblica e il risultato delle elezioni, che premiò le destre, lo proiettò a guidare un esecutivo di segno più moderato rispetto a quelli del centro-sinistra. In quel governo – denominato per l’appunto Andreotti-Malagodi – rientrava il Partito liberale italiano, la forza politica che si era opposta all’ingresso dei socialisti nella maggioranza, pagando la scelta con un quindicennio di esclusione dagli esecutivi. Giulio Andreotti nei primi anni Sessanta era stato avversario della formula di centrosinistra ed all’inizio dei Settanta era contrario ad ogni apertura al PCI. Ma a metà del decennio, per volontà di Aldo Moro, fu chiamato a guidare i governi della “non sfiducia” e della “solidarietà nazionale”. Il voto politico del 1976 (la DC al 38.8% ed il PCI al 34.4%) e le posizioni dei diversi partiti (il PSI non era disposto ad appoggiare un governo che non coinvolgesse in qualche modo il PCI), non permettevano di percorrere le strade e le alleanze già utilizzate. Era necessario in qualche modo fare i conti col PCI. Andreotti, che era stato nella minoranza del Congresso e non aveva neanche appoggiato il segretario della DC, Benigno Zaccagnini, fu scelto da Moro, in uno dei momenti più difficili della storia della Repubblica, come garante della nuova formula politica di avvicinamento del PCI all’area di governo nei confronti degli alleati occidentali e verso il fronte interno più problematico, quello della Chiesa e del mondo cattolico.

Quali finalità egli attribuiva ai governi di quel triennio e al rapporto con PCI?
Molti erano i problemi da affrontare in quella stagione. Su tutti una profonda crisi economica che costrinse l’Italia a ricorrere ai finanziamenti del FMI e di partners europei, e l’incremento della violenza, anche politica, e del terrorismo che voleva portare l’attacco al cuore dello Stato. Andreotti si convinse progressivamente che in quella stagione una larga partecipazione dei maggiori partiti – PCI compreso – alla definizione delle scelte politiche da declinare a livello legislativo e nelle articolazioni sociali del paese, fosse necessaria e non rappresentasse solo una delle opzioni, ma fosse «la politica» da seguire. La sua scelta nasceva dalla consapevolezza che, dato il quadro parlamentare e la forza elettorale del PCI, la collaborazione dovesse assumere un carattere strategico per rispondere alla sfida del risanamento economico-finanziario e per far fronte alla minaccia terroristica che – è bene ricordarlo – poteva contare in quegli anni su una consistente area di fiancheggiamento e di consenso.

Non mi pare che l’obiettivo di Andreotti fosse quello del logoramento del PCI. Intanto perché apparve come il leader maggiormente incline a favorire una sperimentazione che – con opportune condizioni – riguardasse anche gli enti locali. Se PCI e DC avessero collaborato a livello periferico anche con gli altri partiti, ne sarebbe derivata una progressiva deideologizzazione della formula, capace anche di accompagnare in maniera efficace l’altra secolarizzazione che stava progressivamente avvenendo in seno al PCI, un partito che aveva rappresentato a tutti gli effetti per più di una generazione una sorta di religione politica, ma nel quale i giovani si sentivano in gabbia. Lucia Annunziata – ed è un primo esempio – testimonia una evoluzione in questo senso quando scrive riguardo a quegli anni: «Insomma quelli del PCI erano vecchi, vecchi, vecchi. Loro cantavano bandiera rossa noi blowin’ in the wind. Noi fumavamo spinelli, loro parlavano di “droga”… Noi parlavamo di sesso libero, i nostri padri comunisti si facevano cambiare la gonna se era troppo corta» (Lucia Annunziata, 1977. L’ultima foto di famiglia, Einaudi, Torino 2007, p. 15). Sullo stesso tema di recente Fabrizio Rondolino – secondo esempio – anche lui partendo dal tema degli spinelli, ha raccontato: «Nella FGCI le canne erano proibite, il partito era contro. A me non dispiacevano, per la verità: avevo un giro di amici gruppettari con cui farmele, ma senza dichiararlo. Il che dice del livello di moralismo» (Com’era bello il mio partito, “L’Espresso” 27/12/2020, p. 43).

In che modo Andreotti riuscì a farsi garante della «solidarietà nazionale» nei confronti degli alleati occidentali e verso il fronte interno più problematico, quello della Chiesa cattolica?
Si fece carico di spiegare ai colleghi dei paesi occidentali l’opportunità del dialogo col PCI attraverso incontri e colloqui specifici e con prudenza fece lo stesso nei confronti della Santa Sede e con la parte meno favorevole del mondo cattolico. A questo proposito nelle sue carte sono conservate le lettere in risposta a critiche, obiezioni, accuse di tradimento, che gli provenivano da esponenti ecclesiali di livelli diversi ed anche da semplici fedeli ed elettori democristiani. E cercava anche di spiegare – tanto agli ecclesiastici quanto agli alleati – come il PCI stesse gradualmente evolvendo: da una posizione contraria all’integrazione europea era diventato europeista, aveva riconosciuto l’importanza della NATO. Inoltre dal punto di vista economico la collaborazione del Pci permetteva di comprimere il costo del lavoro e al tempo stesso la componente sindacale collaborò facendo diminuire gli scioperi, ed erano elementi essenziali per favorire un parziale risanamento economico. La speranza di Andreotti, che in fondo era stata quella di Moro, fu che un maggior coinvolgimento nella guida del Paese avrebbe accelerato la parabola del PCI verso l’approdo al socialismo euro-occidentale, rendendo quel partito un partner legittimato anche a proporsi per la guida del governo di un paese occidentale come l’Italia, perché avrebbe interrotto i legami col blocco sovietico. Va poi segnalato che la Santa Sede apprezzò lo sforzo di Andreotti di rilanciare le trattative per la revisione del Concordato: senza quella iniziativa le condizioni che portarono al nuovo Concordato del 1984 probabilmente non sarebbero mai maturate.

Quale atteggiamento mantenne l’uomo politico nei confronti del PCI nel periodo della «solidarietà»?
A me pare che l’atteggiamento di Andreotti fu di leale collaborazione, pur nel quadro delle difficoltà di un paese inserito comunque nella logica della guerra fredda. Ed in fondo la dimostrazione sta in come al Congresso democristiano del 1980, che chiuse le porte alla collaborazione col PCI, egli difese l’impianto della collaborazione, criticando i colleghi di partito che manifestarono una volontà di chiusura decisa a respingere all’opposizione una forza politica che rappresentava un terzo degli italiani: «Secondo voi molti comunisti non devono essere al governo con noi – spiegò Andreotti all’assise DC – non debbono aspirare ad una alternativa di sinistra, non debbono tornare ad essere un partito rivoluzionario: ma che pensate? Forse che decretino di autosciogliersi come più o meno fece la massoneria sotto il fascismo?». E in un promemoria in forma di “intervista non destinata alla pubblicazione” inviata ai vertici della Santa Sede spiegò che quando ai funerali di Paolo VI parteciparono tutti i partiti italiani, PCI compreso, egli aveva sentito «una gioia profonda per questa civile maturità». E criticando i colleghi che volevano tornare alla rottura scrisse: «Mi auguro che nessuno voglia tornare indietro. E se qualcuno pensasse che con quel genere di contrasti noi democristiani potevamo avere più voti lo giudicherei in modo molto severo». A seguito della scelta del Congresso del 1980, poi, il PCI si avvitò in una spirale di isolamento. Ma scegliendo di chiudere a Berlinguer la strada di una eventuale partecipazione al governo, la maggioranza della DC mise il partito nella condizione di doverne cedere la guida degli esecutivi ad altri. Ed era quel che Andreotti puntava ad evitare. Con la fine della solidarietà nazionale, insomma, ebbe inizio un modo di concepire come consensuale ed inclusiva la costruzione della democrazia italiana. Da allora si avviò una crisi irreversibile del sistema politico che avrebbe condotto i partiti di massa emersi alla fine del fascismo ad un tracollo nei primi anni Novanta.

Augusto D’Angelo insegna Storia Contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Politiche di «Sapienza» Università di Roma. È membro della Commissione per l’Edizione Nazionale delle opere di Giorgio La Pira. Studioso del rapporto tra politica e religione, ha già pubblicato Vescovi, Mezzogiorno e Vaticano II (1998); De Gasperi, le destre e l’«operazione Sturzo» (2002); Moro i vescovi e l’apertura a sinistra (2005). Con altri è autore del volume A centocinquant’anni da Roma capitale. Costruire il futuro della Città eterna (2020).

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