“Andreotti e Gorbačëv. Lettere e documenti 1985-1991” a cura di Massimo Bucarelli e Silvio Pons

Prof. Massimo Bucarelli, Lei ha curato con Silvio Pons l’edizione del libro Andreotti e Gorbačëv. Lettere e documenti 1985-1991, pubblicato dalle Edizioni di Storia e Letteratura: quale posizione mantenne il nostro Paese nei confronti del tentativo riformista in atto in URSS tra il 1985 e il 1991?
Andreotti e Gorbačëv. Lettere e documenti 1985-1991, Massimo Bucarelli, Silvio PonsLa nomina di Michail Gorbačëv a segretario generale del Comitato centrale del Partito comunista sovietico nel marzo del 1985 non solo rappresentò un evento cruciale nella storia dell’Urss e nella politica internazionale, ma segnò una svolta importante anche nelle relazioni tra Roma e Mosca. La politica italiana, quasi nella sua totalità, dal principale partito di governo, la Democrazia cristiana, al maggior partito dell’opposizione, il Partito comunista italiano, guardò al tentativo riformista del segretario generale del Pcus con estremo interesse e favore. Da parte italiana, vi fu un’ampia apertura di credito verso l’azione di Gorbačëv, che in campo internazionale era diretta a promuovere con decisione la distensione tra i blocchi e la riduzione degli armamenti nucleari. La vera e propria offensiva di pace condotta dal leader sovietico indusse il governo italiano, guidato all’epoca dal socialista Craxi, con Andreotti agli Esteri, ad assumere una posizione riassumibile nella formula «Alleati degli Usa, amici dell’Urss». A Roma, si riteneva che la novità del programma gorbacioviano permettesse all’Italia di recitare un «utile ruolo» nel creare un clima di maggiore comprensione e fiducia tra i due blocchi, e le consentisse di contribuire alla costruzione di «una pace meno minacciata e più sicura, fondata più sulla reciproca fiducia e meno sull’equilibrio delle forze».

Il favore, con cui in Italia fu accolto il new look della politica sovietica, era dovuto anche alla possibilità di affrontare positivamente due questioni, che preoccupavano il governo italiano: il confronto con il movimento pacifista e il rilancio della presenza politica ed economica italiana nell’Est europeo. I pacifisti italiani, particolarmente attivi nella prima metà degli anni Ottanta contro l’installazione dei missili americani a Comiso, costituivano un movimento eterogeneo, che coinvolgeva trasversalmente non solo elementi appartenenti o vicini al Partito comunista, ma anche buona parte del mondo cattolico, legato alla Democrazia cristiana. Era evidente che assecondare l’azione di Gorbačëv per il disarmo consentiva alle forze della maggioranza di tornare in sintonia con una parte importante della società civile, dando al governo l’opportunità di smorzare i toni della contestazione pacifista.

Sul piano dei rapporti bilaterali con Mosca e della presenza italiana in Europa orientale, il nuovo corso della politica sovietica permetteva al governo di Roma di riannodare relazioni e rilanciare iniziative, che le tensioni dell’ultimo decennio (con la crisi degli euromissili e l’invasione sovietica dell’Afghanistan) avevano congelato o sospeso, tanto da dar vita a quella che i commentatori dell’epoca non esitarono a definire una vera e propria Ostpolitik italiana.

Quale giudizio esprimeva il leader democristiano circa l’evoluzione del comunismo gorbačëviano?
Andreotti si convinse di essere di fronte a «una occasione storica», meravigliandosi di chi si chiedesse se l’azione riformatrice del nuovo segretario generale fosse sincera, se le sue iniziative internazionali fossero credibili e se nel complesso l’evoluzione dell’Urss fosse nell’interesse del mondo occidentale.

Il leader democristiano, in linea del resto con l’indirizzo di politica estera seguito fino ad allora dalla classe dirigente cattolica, improntato prioritariamente al dialogo tra i blocchi e alla difesa della pace in un clima di sicurezza generale, era interessato alla conservazione degli equilibri geopolitici, che nel complesso avevano preservato la stabilità degli assetti europei cristallizzatisi alla fine della Seconda guerra mondiale. Il suo orizzonte non sembrava tanto la dissoluzione dei blocchi, ma la distensione e la deideologizzazione delle relazioni est-ovest grazie al mutuo riconoscimento dei due schieramenti, non più contrapposti e antagonisti, ma aperti al dialogo e alla cooperazione nel rispetto dello status quo territoriale, delle reciproche esigenze di sicurezza e delle proprie differenze sistemiche. Come dichiarò in un’intervista rilasciata alla «Pravda» il 2 marzo 1987, la ricerca della pace di Gorbačëv e il suo piano di riforme rappresentavano un’opportunità da cogliere per superare finalmente i troppi steccati, che avevano diviso l’Europa. Fu per questo che si impegnò a fondo per consolidare la svolta di politica estera del leader sovietico e per sostenerne il programma di riforma politico-istituzionali ed economico-sociali, finalizzate ad una maggiore apertura e liberalizzazione del sistema sovietico.

In aggiunta alle considerazioni d’ordine strategico attinenti agli equilibri del continente europeo, che spingevano Andreotti ad apprezzare l’azione gorbačëviana, l’esponente democristiano non poteva rimanere indifferente di fronte al diverso approccio al problema religioso, alla maggiore attenzione al tema della libertà di coscienza, al riconoscimento dei valori spirituali e al rispetto dei diritti individuali dei cittadini, che la nuova leadership sovietica sembrava intenzionata a dimostrare. Si trattava di questioni che per Andreotti rivestivano una grande importanza, politica e personale, in quanto credente fortemente interessato alle sorti della «Chiesa del silenzio», vale a dire le comunità cattoliche nei paesi del blocco sovietico, costrette a subire, soprattutto nei primi decenni del dopoguerra, repressioni e persecuzioni.

Quale visione condivideva con il presidente sovietico Andreotti per il futuro ordine mondiale?
Gorbačëv e Andreotti (che nel periodo della leadership gorbačëviana fu prima ministro degli Esteri dal 1985 al 1989 e poi presidente del Consiglio, tra il 1989 e il 1992, proprio negli anni della crisi finale dell’Urss) concordavano su quelli che a loro avviso avrebbero dovuto essere i capisaldi del futuro ordine europeo, in rapida e radicale evoluzione soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, la fine delle Democrazie popolari in Europa orientale e l’avvio del processo di riunificazione tedesca. Per entrambi, il punto di riferimento doveva essere necessariamente il principio dell’inviolabilità delle frontiere e dell’integrità territoriale degli Stati europei approvato nel corso della Conferenze sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Csce) e sancito dall’Atto finale di Helsinki nel 1975. Solo dopo aver ribadito la centralità di tale fondamento, anche di fronte a trasformazioni profonde, ma pacifiche, del campo sovietico, sarebbe stato possibile individuare un nuovo modello di relazioni est-ovest in un contesto bipolare consensuale e non più antagonista.

La comune necessità di conservare in qualche modo il mondo bipolare, sia pur riformato, pacificato e dialogante, originava da diversi presupposti e rispondeva a diverse preoccupazioni. Andreotti nutriva timori per un mutamento troppo rapido degli assetti nazionali dei paesi esteuropei e per l’improvvisa modifica dello status quo, che aveva sì diviso l’Europa e la nazione tedesca, ma anche garantito la pace per decenni. Per Gorbačëv, invece, la trasformazione del bipolarismo da teatro di continua contrapposizione, a cornice al cui interno cooperare sulla base di principi comuni, rappresentava un passaggio fondamentale per portare a compimento la riforma del sistema sovietico nella speranza che modernizzato, democratizzato e inserito in un contesto internazionale più aperto e collaborativo, potesse ancora funzionare e recitare un ruolo sulla scena globale.

Il nuovo ordine europeo post-guerra fredda, auspicato da Andreotti e Gorbačëv, basato sulla pacificazione e deideologizzazione del rapporto est-ovest, sembrò realizzarsi con la firma della «Carta di Parigi per una nuova Europa», sottoscritta al termine del Vertice dei capi di Stato e di governo dei paesi membri della Csce, tenutosi nella capitale francese dal 19 al 21 novembre 1990. Nel documento, si prendeva atto della fine della divisione dell’Europa, si ribadiva l’impegno comune per la democrazia e la sicurezza di tutti i paesi membri, e si istituzionalizzava il ruolo della Csce per la soluzione delle controversie e la salvaguardia della pace in Europa. La Carta di Parigi venne affiancata dalla firma, sempre in quei giorni, di due ulteriori accordi: il «Documento di Vienna», con cui i paesi della Csce si impegnavano a cooperare in ambito militare, e il «Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa», sottoscritto dai paesi dell’Alleanza atlantica e del Patto di Varsavia, che stabiliva limitazioni al loro dislocamento e al loro impiego, al fine di garantire un sostanziale equilibrio tra i due schieramenti.

Il vertice di Parigi sancì il superamento della pluridecennale contrapposizione fra i blocchi e in Italia, almeno in sede istituzionale e governativa, fu considerato un «successo» della politica internazionale del paese, per il contributo che aveva saputo recare alla riconciliazione tra le due metà del continente e per il ruolo che avrebbe potuto recitare nel nuovo ordine europeo.

In che modo la caduta del Muro modificò gli scenari politici immaginati da Gorbačëv e Andreotti?
Di fronte alle trasformazioni messe in moto dalla caduta del Muro e dalla conseguente fine della guerra fredda, l’Italia provò a darsi un nuovo compito come punto di riferimento credibile per la transizione intrapresa dall’Urss e dagli altri paesi del blocco sovietico. Per la realizzazione del disegno politico di Andreotti e del governo italiano, calato ancora tutto in un’ottica bipolare, era importante, però, che il tentativo di Gorbačëv dl riformare il sistema sovietico, senza smantellarlo del tutto, avesse successo. L’equilibrio internazionale e l’eventuale contributo dell’Italia al suo mantenimento, così come sembravano essere stati immaginati a Roma, presupponevano la continuazione del bipolarismo, sia pur pacificato e deideologizzato, ma sempre basato sulla sopravvivenza della potenza sovietica. In sintesi, l’Italia scommetteva sull’Urss riformata e guidata da Gorbačëv, ed era pronta a prendere la sua parte di «rischio politico».

La «scommessa» di Andreotti e della classe dirigente italiana, però, fu persa. Il rapido precipitare degli eventi in Europa orientale e all’interno dell’Urss dopo il novembre 1989 diede nettamente l’idea che Gorbačëv non avesse più il controllo del processo politico che aveva messo in moto. Il crollo delle democrazie popolari, lo scioglimento del Patto di Varsavia e l’accelerazione del processo d’unificazione tedesca testimoniavano la fine del blocco sovietico e la perdita di ogni capacità di indirizzo e intervento da parte di Mosca sugli ex satelliti (i quali si rivolsero immediatamente verso l’Europa occidentale e la Nato, vale a dire gli antagonisti dell’Urss nel corso della guerra fredda, alla ricerca di sostegno e di sicurezza). Quanto alla situazione interna dell’Urss, oltre al collasso del sistema produttivo, dovuto alla mancanza di risultati concreti in campo economico del nuovo corso gorbačëviano, il leader sovietico fu costretto a confrontarsi con le spinte centrifughe determinate dal suo stesso piano di riforme politico-istituzionali. Grazie allo svolgimento di elezioni non più monopartitiche, si affermarono gruppi dirigenti separatisti, espressione dell’insofferenza locale verso il governo centrale e del malcontento popolare per la situazione economica. Le richieste di maggiore autonomia e indipendenza partirono dalla periferia, dalle Repubbliche caucasiche e baltiche, fino a coinvolgere anche la Federazione russa, la parte nevralgica della potenza sovietica, accompagnate ovunque da proteste e scontri, che costrinsero il Cremlino a usare talvolta la forza, come avvenuto nel gennaio 1991 in Lituania autoproclamatasi indipendente nel marzo precedente.

L’incapacità o – forse meglio – l’impossibilità di Gorbačëv di governare il processo di transizione segnarono il destino della sua leadership e dell’Urss stessa. Nell’estate del 1991, Gorbačëv dovette fronteggiare un tentativo di colpo di Stato, organizzato da ambienti politici e militari conservatori, che accusavano il leader del Cremlino di essere l’affossatore del partito e della potenza sovietica. Il colpo di mano fu sventato dalla ferma reazione di Boris El’cin, presidente della Federazione russa e interessato alla prosecuzione in senso ancora più radicale delle riforme politiche e istituzionali. Dopo quegli avvenimenti, venne decretato lo scioglimento del Partito comunista e diverse Repubbliche proclamarono la secessione. Gorbačëv venne esautorato e la gestione del potere andò nelle mani delle classi dirigenti repubblicane. L’esito finale fu lo scioglimento dell’Urss e la costituzione al suo posto della Comunità degli Stati Indipendenti, in cui non ci sarebbe stato spazio per il leader del Cremlino.

La disgregazione dell’Urss e l’uscita di scena di Gorbačëv resero improvvisamente superati e inadeguati gli schemi della politica estera italiana. La fine della guerra fredda non si era limitata a deideologizzare e pacificare la contrapposizione tra i due blocchi, bensì aveva letteralmente frantumato il vecchio sistema bipolare e lasciato l’Italia senza un ruolo preciso: non più paese cerniera tra i due campi, non più ponte e canale di comunicazione tra est e ovest, non più traghettatore della transizione politica ed economica sovietica. L’Italia si ritrovò proiettata in un nuovo ordine mondiale, in cui faticò a orientarsi e trovare spazi, come dimostrato dalla questione tedesca, dalla guerra del Golfo e dalla crisi bosniaca, tutte vicende di un mondo in trasformazione in cui la politica italiana non fu certo protagonista.

Massimo Bucarelli è professore associato in Storia delle Relazioni Internazionali presso Sapienza Università di Roma. Ha pubblicato saggi e monografie sulla politica estera italiana nel XX secolo, le relazioni italo-jugoslave, i rapporti italo-libici e l’attività internazionale dell’ENI. Insieme a Luca Micheletta, ha curato Andreotti, Gheddafi e le relazioni italo-libiche (2018).

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link