“Andare per Caffè storici” di Massimo Cerulo

Prof. Massimo Cerulo, Lei è autore del libro Andare per Caffè storici edito dal Mulino: quando nascono i primi Caffè italiani?
Andare per Caffè storici, Massimo CeruloNascono nel diciottesimo secolo: il primo è il veneziano Florian, del 1720 (seguono, in ordine sparso, il fiorentino Gilli, il veneziano Lavena, il romano Antico Caffè Greco, il torinese Al Bicerin, il padovano Pedrocchi, i Caffè triestini, il napoletano Gambrinus, il cosentino Renzelli, ecc.). Sorti sulle tracce delle coffeehouses inglesi, si affermano in Italia grazie agli ambasciatori della Serenissima che già intorno al 1580 portano la scoperta della bevanda in laguna; poco meno di un secolo dopo, appaiono diverse “botteghe” per la sua degustazione in piazza San Marco, proprio sotto i portici delle Procuratie. Fino ad arrivare, appunto, al già citato Florian.

Questo libro è dunque un invito a un viaggio in alcuni dei più noti Caffè storici italiani. Un percorso che si snoda dal Nord al Sud della penisola, in otto città, partendo da Venezia e arrivando a Cosenza. Tutti i Caffè visitati sono “storici” nel senso che rispettano le seguenti caratteristiche: 1) hanno almeno un secolo di vita; 2) hanno ospitato al loro interno importanti eventi sociali-politici-culturali della storia d’Italia; 3) mantengono parti degli arredi originali; 4) sono tuttora aperti al pubblico.

Quale significativa innovazione introducono rispetto ai coffeehouses inglesi?
I Caffè italiani hanno rappresentato un’autentica rivoluzione sociale. A differenza dei salotti aristocratico-elitari, vi si poteva infatti accedere senza essere invitati, disponendo di libertà di parola e senza distinzione di genere. Spazi incubatori della nuova società borghese e della nascente nazione, luoghi di germinazione per avanguardie artistiche e cenacoli letterari, tra i loro tavoli sono maturati anche i più importanti movimenti politici che segneranno la storia d’Italia. Sono luoghi “storici” perché hanno ospitato il farsi della società, accogliendo il manifestarsi del futuro della nazione, in particolare da un punto di vista culturale e politico. Culturale, perché i Caffè sono stati bureaux de l’esprit: luoghi di germinazione di forme di avanguardia artistica e di cenacoli letterari. Politico, perché in questi locali sono maturate forme collettive di resistenza al potere costituito che segneranno la storia d’Italia (i Moti del ’48, l’irredentismo, le guerre d’indipendenza, l’anti-borbonismo, i Garibaldini e l’Unità, l’antimilitarismo novecentesco, il Ventennio e l’antifascismo). Nei Caffè, insomma, si socializzava diventando adulti, apprendendo modi di comportamento e linguaggio, informazioni e nozioni culturali, forme di militanza politica. Tanto che, come ha scritto Piero Bargellini: «Non si potrebbe scrivere una pagina di storia né politica né letteraria né artistica dell’Ottocento senza citare il nome d’un Caffè».

Cosa hanno significato per l’evoluzione sociale, artistica e politica del nostro Paese i Caffè?
Sono luoghi fondamentali per lo svilupparsi della rivoluzione borghese. Partiamo dall’inizio: la storia del Caffè, inteso come locale, parte dal tardo Medioevo, quando sono apparse le prime tipologie nelle città musulmane del bacino del Mediterraneo e del Medio Oriente. Nel 1600 sono arrivate in Europa e l’apparizione delle cosiddette coffeehouse (“botteghe da caffè”, nell’italiano dell’epoca), ha rappresentato una rivoluzione sociale. Innanzitutto, per la libertà permessa ai frequentanti: di ingresso, di parola, di incontro, di conversazione, di osservazione, di informazione, di lettura, di espressione artistica individuale e collettiva. Come chiarito da Jürgen Habermas, nelle prime coffeehouse (inglesi) si è generata la cosiddetta “sfera pubblica”: ossia una rete per comunicare informazioni e prese di posizioni, uno spazio discorsivo in cui incontrarsi e discutere, liberamente e senza costrizioni, di questioni e problemi dalla rilevanza pubblica e collettiva.

E ritorniamo alla citata “rivoluzione borghese”: nei Caffè italiani iniziano a venire meno i vincoli di ceto, classe, corporazione, famiglia che caratterizzavano lo spazio sociale fino a quell’epoca più diffuso: il salotto. A differenza di quest’ultimo che si configurava come istituzione aristocratica-elitaria, nei Caffè si poteva entrare senza essere invitati, osservare senza essere multati, interagire senza chiedere permessi. È la rivoluzione borghese che, soprattutto, nell’Ottocento, elesse questi spazi a incubatori di una nuova società: ambienti di innovazione culturale, politica, sociale. Immergendosi nei capitoli del libro, si comprenderà la portata di tale rivoluzione.

Ancora: nei Caffè ci si poteva informare sulle novità cittadine, discutere animatamente, prendere posizioni politiche, tramare intrighi, generare gruppi o associazioni, concludere affari. E poi scrivere (consumando un’unica tazzina, si potevano avere a disposizione per molte ore tavolo, pennino-carta-calamaio, luce e riscaldamento gratis), leggere quotidiani e riviste (dunque veicolare e formare opinione pubblica), ascoltare musica, fumare, schiacciare un pisolino, mercanteggiare, disegnare, costruire flirt. Ma anche praticare attività ludiche, perché carte, biliardo, scacchi non mancavano quasi mai in questi locali, poiché il tempo che vi si trascorreva era spesso di distensione e distrazione.

Inoltre, l’apparizione dei Caffè generò una rivoluzione in termini di accesso all’informazione e formazione dell’opinione pubblica, ma anche di apprendimento di modi di comportamento, creazione di gruppi, associazioni e società, sviluppo di attività politiche (si ricordi che il giornalismo moderno nacque anche grazie alla diffusione dei primi quotidiani nelle sopracitate coffeehouse inglesi di fine Seicento-inizio Settecento: un esempio sintomatico è rappresentato dal giornalino Lloyd’ News che circolava nella storica Lloyd’s Coffeehouse del 1688).

Parliamo dunque di locali intesi come “reti di comunicazione”: la lettura dei giornali diventerà dirimente in tale processo, soprattutto con la gratuità di tale pratica che inizia ad affermarsi tra Ottocento e Novecento (i giornali arrivano nei Caffè italiani già dalla fine del Settecento, ma la lettura è a pagamento). Tutti potranno conoscere quello che avviene in società. Tutti potranno informarsi, leggere, acculturarsi, educare sé stessi. Tutti potranno decidere di agire, perfino in termini politici, alla luce del capitale sociale e culturale maturati anche nel Caffè (alcune redazioni giornalistiche avranno addirittura sede nei Caffè del Settecento-Ottocento).

Il veneziano Florian è il più antico Caffè italiano: quali vicende ne hanno segnato la storia?
Deve il suo nome al fondatore, Floriano Francesconi, che sfruttò l’arrivo della bevanda in laguna. Per quanto a quell’epoca avesse un altro nome – Caffè alla Venezia trionfante – tutti in città erano soliti dire «andemo da Florian», formalizzando così, nel 1797, il nome storico con cui è sempre stato conosciuto e che rappresenta ancora oggi una tappa fissa per turisti e appassionati da tutto il mondo.

Il Florian ci fornisce il là presentare, in termini storico-sociologici, la struttura e il ruolo dello “spazio terzo”, ossia un luogo che «acquista un’importanza pubblica, che non è soltanto una stazione di riposo per la conversazione garbata, ma il ritrovo dove si svolgono più o meno tutti gli interessi cittadini, dove si estrinsecherà l’intellettualità, e dove, come ci indica anche il Goldoni, in una sola serata si può raccogliere la sensazione delle pulsazioni cittadine». Emergono, in questa citazione di Giorgio Dissera Bragadin, i dirompenti significati sociali veicolati dal Caffè: le prime forme di libertà di ingresso e di parola, senza rigida selezione per ceto o censo e, in questo caso, neanche di genere, poiché il Florian deterrebbe il primato anche per quel che riguarda il libero ingresso alle donne (spesso con maschera), elemento che modificò di conseguenza il bacino d’utenza degli avventori. Nella seconda metà del Settecento, infatti, gli Inquisitori di Stato diffusero ordinanze che vietavano le presenze femminili nelle botteghe da caffè nonché di “nobiluomini in tabarro” – l’abito tipico veneziano, che consisteva in una sorta di lunga e ampia tunica, mal vista dalle autorità perché sembrava permettesse la pratica di atti sessuali quasi celandoli alla vista. Tuttavia, sono storicamente note sia le infrazioni a tali ordinanze sia le cosiddette “istanze”, presentate dai caffettieri veneziani agli Inquisitori e ai Capi del consiglio dei dieci della Serenissima, al fine di ottenere deroghe a tali divieti. In ogni caso, il Florian era noto già da prima per la (numerosa) presenza femminile permessa al suo interno, situazione che generava la frequentazione del locale da parte di diversi avventori con l’obiettivo di allacciare flirt sentimentali, ossia, in termini sociologici, costruire giochi che si trasformavano in forme generali d’interazione: una sorta di palestra per “fare” società, imparare a stare insieme e, perché no, sedurre l’altro. Per fare un esempio storico, si pensi al comportamento “civettuolo” delle donne altolocate dei secoli passati nel corso del processo di corteggiamento: il loro concedersi e negarsi, abbracciare un invito e subito dopo ritirarsi sulle loro posizioni. Lo stesso comportamento veniva riprodotto nel Caffè, approfittando anche del contesto culturale in cui ci si trovava: la città delle maschere e del Carnevale, in cui il mascheramento diveniva forma di interazione condivisa (anche o forse soprattutto se osteggiata dalle autorità…).

Esperto di tali forme di comportamenti sociali, seduttore incallito e frequentatore abituale del Florian era anche Giacomo Casanova, che del flirt fece uno stile di vita, e che non si faceva scappare l’opportunità di conoscere e intrattenersi con una dama negli spazi del Caffè concilianti all’incontro (sia nelle sale principali, sia nei cosiddetti camerini o retrobottega presenti nel locale dalla seconda metà del Settecento, dove tra l’altro spesso si giocava d’azzardo per sfuggire ai divieti settecenteschi).

Venezia è una sorta di specchio: ti restituisce quello che è accaduto nei suoi spazi, donandoti la possibilità di frequentare luoghi di socialità che appaiono immutati nel tempo. Il Florian è uno di questi: uno spazio in cui la possibilità di mettere in atto un flirt è sempre presente e sempre possibile.

Il punto è che i flirt che prendevano forma al Caffè svolgevano un ruolo molto importante per la società veneziana, notoriamente amante di pettegolezzi, scandali, teatralità. Attraverso la messa in scena di tale forma di socialità, infatti, era possibile arrivare a una tematizzazione della realtà sociale in un modo più convincente e profondo di quanto avvenisse nelle “normali” interazioni quotidiane, improntate al rispetto di regole istituzionali e sociali che poco spazio lasciavano all’immaginazione, al faceto, alla gratuità, al brivido della seduzione. Casanova conosceva bene tali regole. Come lui, molti veneziani ne erano edotti. D’altronde, ci si trovava nella città della baùta e della moretta, le maschere per eccellenza che, tra il XV e il XVIII secolo, venivano indossate in pubblico per tutto l’anno, configurandosi come simboli di arte, mistero, fascinazione. Il mascheramento, inoltre, al Florian era spesso invogliato durante il lungo periodo del carnevale veneziano (molti mesi all’anno), pratica che portava il Caffè a configurarsi come luogo di incontro, ballo, conversazione, gioco d’azzardo, edonismo e seduzione “tra maschere”. Pratiche, quest’ultime, ben descritte da Carlo Goldoni nella sua commedia La bottega del caffè (1750), per la quale fu proprio il Florian a fungere da principale ispirazione.

Insomma, il “primo” Caffè italiano detiene tutte le caratteristiche elencate da Enrico Falqui nella sua opera sui locali letterari: «un Caffè ha e deve conservare qualcosa anche del porto e della stazione, del salotto e del circolo, del ridotto e dello spiazzo, dell’osservatorio e del nascondiglio, del retrobottega e della vetrina».

Ma è forse all’interno che il Florian mostra tutta la sua bellezza in termini ornamentali e artistici. Originariamente formato da due piccole sale comunicanti, aperte sui portici della grande piazza, nelle quali i veneziani erano soliti incontrarsi per scambiare informazioni sulle attività commerciali e la vita cittadina – sfruttando la sua posizione privilegiata in rapporto alla Basilica di San Marco e al Palazzo Ducale – nel corso dei decenni si è provveduto a un ampliamento dello spazio affiancato da importanti restauri artistici. Tuttora è possibile respirare, o perlomeno immaginare, l’air du temps grazie all’impronta del rococò veneziano, le poltroncine ricoperte da velluti, gli ambienti piccoli e le pareti con cornici, dipinti e affreschi. Gli arredi visibili ancora oggi risalgono, nelle loro componenti essenziali, al 1858, quando la struttura preesistente del Caffè subì una prima e importante ristrutturazione (su progetto del maestro dell’Accademia di Belle Arti, Lodovico Cadorin). Da quel momento in poi, alle due sale originarie se ne sono affiancate altre quattro: insieme rappresentano un percorso storico-artistico da suggerire, sia nel ruolo di frequentatore-consumatore che in quello di osservatore.

Quali Caffè hanno segnato la storia di Torino e influito su quella dell’Italia stessa?
Nel libro si viaggia in quattro Caffè torinesi: Al Bicerin, Fiorio, San Carlo, Baratti & Milano. Il Caffè Al Bicerin rappresentò una importante novità gastronomica per la Torino del Settecento: il suo nome viene dalla nota e omonima bevanda piemontese. Il proprietario, l’acquacedratore e confettiere Giuseppe Dentis, ebbe l’idea di far conoscere ai suoi clienti sapori ancora esotici per l’epoca: caffè, tè, cioccolato e altre spezie che venivano serviti su semplici tavoli di legno. Nella metà dell’Ottocento il locale conobbe un’importante ristrutturazione che lo rese simile a quello che possiamo vedere oggi: tavolini di marmo bianco, colonnine con i capitelli in ghisa, parquet (scricchiolante), boiserie in legno, specchi, candele bianche, insieme a enormi vasi contenenti confetti di diverso tipo (l’insegna del locale riporta infatti la dicitura “Caffè e confetteria”). In tale aspetto, il Caffè si configura come l’immagine tipica delle cioccolaterie torinesi dell’Ottocento.

Grazie anche al successo della bevanda, il Caffè in questione svolse un ruolo storico per la città soprattutto per le conversazioni che presero forma al suo interno anche tra soggetti che ricoprivano ruoli pubblici dirimenti.

Credo sia possibile affermare che l’intero Risorgimento italiano avesse l’abitudine di frequentare i Caffè torinesi, perché in questi spazi si è pensata e fatta la nuova nazione. In due in particolare, situati a breve distanza spaziale ma contrapposti in termini di ideologia degli avventori: il Fiorio (1780) sito in via Po e sede dei conservatori e il San Carlo (1822) che affaccia sulla piazza omonima e si configurava come sede storica dei patrioti e degli intellettuali.

Il Fiorio (il nome è legato ai fratelli proprietari che lo acquistarono all’inizio dell’Ottocento,) è stato per molti anni il ritrovo della nobiltà sabauda all’epoca della Restaurazione, tanto che veniva chiamato informalmente anche “dei Codini” (Caffè d’le cue) o “dei Machiavelli” per gli abiti utilizzati dai frequentanti e per le strategiche conversazioni che vi avevano luogo; o addirittura “Caffè Radetzky”, dal nome del generale austriaco che sconfisse i Piemontesi nella Prima guerra d’indipendenza nel 1848-1849. Il locale divenne così abituale sede di ritrovo di noti uomini politici, tra i quali: d’Azeglio (il suo romanzo storico Ettore Fieramosca accese gli animi risorgimentali nel Caffè), Balbo, Rattazzi, La Marmora e molti altri. Fino a ottenere una tale nomea da spingere il re Carlo Alberto a maturare l’abitudine quotidiana di informarsi su quali informazioni circolassero al Caffè prima di aprire le sue udienze («Cosa si dice oggi al Fiorio?).

Opposto al Fiorio per frequentazioni e idee politiche di una clientela prettamente riformista era invece il San Carlo (fondato nel 1822 col nome Caffè di Piazza d’Armi, con riferimento all’antica funzione svolta dalla piazza), che fu chiuso nel 1837 dalla pubblica autorità con l’accusa di sospetta attività sovversiva da parte appunto dei patrioti e carbonari che erano soliti frequentarlo. Siamo dunque di fronte a un salotto riformista che fu roccaforte di idee risorgimentali per artisti, docenti universitari, scrittori e, col passare degli anni, “scapigliati”. Riaperto pochi mesi dopo con il nome di Caffè Vassallo, dal cognome del nuovo proprietario, fu tuttavia sottoposto al vincolo di “non favorire […] coinvolgimenti con la politica, l’azzardo, disordini di alcun tipo”. Che differenza col Fiorio!

Torino dunque si configura come una delle principali città italiane per la tradizione e la pratica sociale dei Caffè, ma anche per le prime torrefazioni che nascono nella città – Vergnano nel 1882 (sulla collina di Chieri), Costadoro nel 1890, Lavazza nel 1895 (di quest’ultima vanno ricordati anche l’archivio storico e il museo dedicati al caffè, attualmente visitabili) –, nonché per avere dato i natali al “padre” della macchina da caffè, Angelo Moriondo, che brevettò la prima nel 1884. Tuttavia, Torino è anche nota come la patria del cioccolato artigianale italiano, grazie anche ai pasticcieri Pier Paul Caffarel, che nel 1852 diede vita al “Givù” (il cioccolatino che prenderà il nome di Gianduiotto nel 1856), e Ferdinando Baratti, che qualche anno dopo creerà il famoso “cremino”.

E se si vuole essere avvolti dall’arte cioccolatiera, sia per quel che concerne la bevanda (dal bicerìn al caffè al gianduia, ecc.) sia per quel che riguarda i prodotti di pasticceria (cremino, gianduiotto, ecc.), uno degli indirizzi cittadini ideale odierni è il Caffè Baratti&Milano (1875), che coniuga l’aspetto storico con l’attenzione alla qualità dei prodotti della tradizione.

Quali ritiene, per il ruolo che hanno svolto e per il valore artistico degli arredi, i più significativi Caffè italiani?
Credo che tutti i Caffè analizzati e raccontati nel libro siano estremamente significativi in termini di valore artistico degli arredi. Mi permetto di segnalare l’Antico Caffè Greco, sito in via Condotti a Roma: una pagina importante della sua storia è infatti legata alle oltre 300 opere d’arte esposte alle pareti delle sue sale, numero che farebbe del Greco quella che potrebbe essere la più grande galleria d’arte privata, aperta al pubblico, esistente al mondo. Ma, ripeto, ciascun Caffè merita un viaggio e più di una visita. Sono luoghi che custodiscono ricordi culturali, artistici, politici, personali, famigliari, gastronomici. Nutrono memorie cittadine e nazionali. Pervicacemente resistenti allo scorrere del tempo e agli stravolgimenti di mode e consumi, restano in attesa di accogliere il prossimo avventore per condurlo in un appassionante viaggio.

Massimo Cerulo insegna Sociologia nell’Università di Perugia ed è chercheur associé al CERLIS (CNRS), Université de Paris. Tra i suoi libri più recenti: Giovani e social network (con E. Bissaca e C.M. Scarcelli, Carocci, 2020) e Sociologia delle emozioni (il Mulino, 2018).

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