
Questo sul piano squisitamente teorico. Sul piano del movimento reale, le distinzioni sono state più accentuate: il più celebre tra gli anarchici, Michail Bakunin, contestò sempre il carattere autoritario del comunismo, che pretendeva di usare lo Stato per costruire una società senza Stato; i comunisti che nell’Ottocento si richiamavano al magistero di Marx, per contro, ritenevano irrealistica la pretesa anarchica di poter fondare l’anarchia il giorno dopo l’insurrezione rivoluzionaria, cioè senza una fase di transizione, preparatoria all’evoluzione successiva verso un fine che pareva il medesimo.
La presa del potere in Russia nel 1917, lo sviluppo dello stalinismo, che si reclamava abusivamente al comunismo e che diede un contributo decisivo nella repressione degli anarchici nella Guerra civile spagnola, generò negli anarchici successivi una forma di anticomunismo molto spiccato.
Le lotte tra le due prospettiva furono aspre e causa di fratture e divisioni: per contro, i diversi Stati europei, le polizie, i tribunali, furono meno sottili delle distinzioni, e ancora lo sono, accomunando spesso e volentieri nell’opera di repressione anarchici, comunisti, e poi “antagonisti”, oppositori, ecc.
Quando nascono l’anarchismo e il movimento anarchico?
Non è così semplice distinguere uno dall’altro: Errico Malatesta, il maggiore degli anarchici italiani, considerava l’anarchia un orizzonte ideale cui tendere, quindi un ideale regolatore, e l’anarchismo l’insieme dei mezzi concreti e coerenti col fine.
Potremmo però dire, usando un po’ diversamente le categorie, che l’anarchismo come pensiero anarchico o quale dottrina politica, che collochiamo allo stesso livello del liberalismo e del socialismo, nasca a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, con l’opera di William Godwin, Giustizia politica, per svilupparsi nel tempo attraverso le riflessioni di Max Stirner, Pierre-Joseph Proudhon, Michail Bakunin, quindi Kropotkin e Malatesta. Naturalmente, non esiste un unico pensatore o un’unica opera che definisca la dottrina anarchica (alcuni dei pensatori menzionati neppure si definivano anarchici), ma è dall’insieme che si può ricavare il senso del pensiero anarchico.
Dal punto di vista del movimento, invece, le cose sembrano più semplici sul piano storico: il movimento nasce soprattutto per opera di Bakunin, negli anni Settanta dell’Ottocento; si espande per oltre mezzo secolo in tutta Europa, e non solo, per raggiungere il suo apice nella Spagna della guerra civile, tra il 1936 e il 1939. Il movimento, sconfitto e “tradito”, non riuscì a risollevarsi e a riproporsi con le stesse fattezze nel secondo dopoguerra. Sarebbe rinato, ma trasfigurato, intorno al Sessantotto. In questo passaggio, una certa storiografia individua il passaggio dall’anarchismo “classico” a un anarchismo “postclassico”, o neo-anarchismo. A questo riguardo, in Italia, si possono leggere le opere seminali di Pietro Adamo.
Quali sono le convinzioni fondamentali che caratterizzano l’anarchismo?
In effetti, si possono individuare alcune convinzioni fondamentale, che appartengono agli anarchici di ogni orientamento, o meglio alcune convinzioni che ogni anarchico potrebbe sottoscrivere, pur con intensità diversa. Anche qui non posso che limitarmi a una sintesi schematica.
Sul piano della proposta, in positivo, per così dire: il valore assoluto dell’individuo; quindi quella “idea esagerata di libertà”, che dà il titolo a una raccolta di scritti anarchici curati da Giampietro Berti qualche anno fa per l’editrice Elèuthera (libera, appunto…). L’individuo però esiste sempre in rapporto con l’altro, quindi anche l’immagine della società futura assume spesso i contorni di una comunità, fondata sul riconoscimento reciproco; e la stessa libertà non può che basarsi sull’eguaglianza tra diversi. Il che rende palese quanto sia difficile il percorso verso la realtà libertaria.
Sul piano della critica, o negativo, per così dire: tutti gli anarchici rintracciano nello Stato o nel principio autoritario che esso incarna nella modernità la causa dell’oppressione e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Ne consegue la critica di ogni ipotesi rivoluzionaria che si proponga la conquista del potere quale strada per il raggiungimento della società anarchica.
Poi il principio autoritario, che tutte le correnti contestano, si può criticare anche da altri punti di vista: e allora vedremo anarchici soffermarsi sulla critica della famiglia e del patriarcato, del militarismo, della burocrazia, delle istituzioni totali, della servitù economica, ecc.
In che modo differiscono tra loro le diverse dottrine anarchiche?
Le molteplici correnti che storicamente si sono presentate sulla scena si sono distinte, in termini generalissimi, per la diversa accentuazione degli elementi, positivi o negativi, elencati sopra. Fino a qualche decennio fa, certamente, la storiografia amava classificare le diverse correnti a seconda del peso attribuito al ruolo dell’individuo o della comunità. Ma poi è risultato chiaro che si tratta di distinzioni piuttosto superficiali: anche coloro che, per un periodo relativamente breve della storia dell’anarchismo, alla fine dell’Ottocento si erano convinti della necessità di azioni individuali eclatanti, fino agli omicidi di re e presidenti, pensavano che i loro atti avrebbero sollevato le masse ed edificato società nuove su basi collettiviste, comunitarie o comunistiche. E gli esponenti delle correnti cosiddette collettiviste non avrebbero mai sacrificato ai grandi aggregati la libertà e la dignità individuale. Tra il XX e il XXI secolo, poi, ho l’impressione che tra gli anarchici più coerenti queste classificazioni siano ampiamente superate. Non altrove: ancora oggi, dai giornali alle aule di tribunale, si sente spesso ripetere che gli anarchici si distinguerebbero tra “individualisti”, “sociali”, ecc., dimostrando ancora una volta, come denunciava uno dei maggiori storici dell’anarchia, il canadese George Woodcock, che di poche altre dottrine o movimenti l’opinione pubblica si è fatta un’idea tanto confusa.
Quali vicende ha attraversato nella sua storia il movimento anarchico?
La prima Internazionale e la Comune di Parigi vedono l’apparizione di un movimento anarchico organizzato e con un certo seguito. Si sviluppa in queste occasioni il contrasto con le correnti “politiche” del socialismo, quelle che spesso, anche se non sempre, incominciano a richiamarsi al marxismo.
Poi è certamente importante il momento della rivoluzione in Russia nel 1917, cui molti anarchici partecipano con fervore, per poi essere marginalizzati e subire dure repressioni durante la comune di Kronstadt, che chiedeva il ritorno della rivoluzione allo spirito originario dei soviet, e in Ucraina, dove il movimento contadino libertario guidato da Nestor Machno aveva dato un contributo decisivo nella resistenza all’invasione delle truppe inviate o sostenute dai paesi capitalistici.
La rivoluzione in Spagna rappresenta un ulteriore momento importante della storia dell’anarchismo. Qui, il movimento anarchico, sostenuto da compagni e simpatizzanti internazionalisti, che giunsero in Spagna per combattere il fascismo, diede vita a esperimenti sociali di grande interesse, spesso con il consenso di vaste fasce di popolazione, almeno in alcune zone del paese. La tragica fine dell’esperienza rivoluzionaria è nota.
Dopo, senza dimenticare il contributo alla lotta di liberazione dal nazifascismo, con il tributo di sangue correlato, l’anarchismo attraversa un periodo di stasi, per rinascere, sotto vesti nuove intorno al Sessantotto.
Negli anni Ottanta, gli anarchici sono accanto ai movimenti ecologisti, per esempio in Germania, e poi partecipano al movimento no global. Qui è necessaria una precisazione: si fa tanto parlare “dei” Black bloc, quasi si trattasse di uno specifico movimento anarchico, che avrebbe infiltrato il movimento antiglobalizzazione. Black bloc non indica un gruppo ma una tattica, che peraltro non ha origini specificamente anarchiche, nascendo nel diversificato mondo degli Autonomen tedeschi, quale forma di difesa dei cortei e poi di attacco a simboli tipici del potere economico, sociale, politico (dalle vetrine delle banche ai alle grandi catene delle multinazionali del cibo…). L’infiltrazione, poi, non è certo una pratica riconducibile ai movimenti sociali antisistema e men che meno agli anarchici, ma tipica piuttosto, storicamente parlando, degli apparati di polizia e di intelligence.
Qual è il panorama attuale dell’anarchismo?
Questa è una domanda complessa, che esige una risposta articolata. Una premessa, però: io sono uno storico e la visione che mi sono formato sull’anarchismo odierno, benché fondata su un retroterra di studi, non è frutto di ricerche specifiche, e quindi va presa con la dovuta cautela.
Certamente, oggi non esiste un movimento anarchico unitario, coeso, unico. Il tempo per questo genere di unitarietà, sostengono alcuni osservatori del cosiddetto anarchismo post-classico, sarebbe definitivamente passato. Per i sostenitori di questa visione, permane oggi una sensibilità anarchica, che si concreta in uno stile di vita libertario, stile di vita che non aspira alla “costruzione” dell’utopica società anarchica (perché l’anarchia non è il destino della storia e non si può “consegnare” al mondo), ma si limita a trovare spazi di vita giusta nel quadro del mondo presente; si tratta di un anarchismo dai principi essenziali, che ammette il pluralismo, cioè ammette che si possa essere anarchici nei modi più diversi, non aspirando appunto ad alcuna forma di sintesi (si può diffondere l’idea anarchia nelle redazioni delle case editrici, negli atenei libertari, nelle libere scuole o nelle comunità agricole lontane dalle metropoli tentacolari). Un anarchismo che non guarda più alla trasformazione della società attraverso una rottura verticale nel corso storico, cioè non pensa che la rivoluzione di massa otto-novecentesca si possa riproporre nelle società post-moderna, ritendendo invece più proficuo un percorso di secessione, individuale o di gruppo, dalle costrizioni dello Stato e del capitalismo mondializzato: fin dove possibile e fin quanto è possibile.
Poi, nella realtà, gli anarchici – che si definiscano tali o meno – accanto ad altri gruppi di attivisti o ai movimenti, partecipano ai conflitti contro le grandi opere e, soprattutto nelle metropoli, si pongono in prima linea nelle lotte per la casa, nelle battaglie coi migranti e per i migranti, gli ultimi degli ultimi nelle sempre più gerarchizzate e crudeli società contemporanee. Ovvero, fanno resistenza contro quella odiosa guerra ai poveri, che costituisce un tratto caratterizzante le attuali democrazie occidentali.
In definitiva, gli anarchici continuano a lottare, come un tempo, certo in condizioni mutate, con numeri ridotti, prospettive articolate e forze molto diversificate a seconda dello spazio geografico e politico in cui si collocano. Come cantava Léo Ferré molti anni fa, “Non sono uno su cento, ma credetemi esistono…”
Gianfranco Ragona insegna Storia del pensiero politico all’Università degli Studi di Torino. Tra le sue pubblicazioni: Maximilien Rubel (1905-1996). Etica, marxologia e critica del marxismo (Milano 2003), Gustav Landauer. Anarchico ebreo tedesco (Roma 2010), Gustav Landauer. A Bibliography (1889-2009) (Roma 2011) e Socialismo di frontiera. Autorganizzazione e anticapitalismo (con M. Quirico, Torino 2018).