“Analisi sociale del mercato del lavoro” di Giustina Orientale Caputo

Prof.ssa Giustina Orientale Caputo, Lei è autrice del libro Analisi sociale del mercato del lavoro edito dal Mulino: quando e come nasce il mercato del lavoro?
Analisi sociale del mercato del lavoro, Giustina Orientale CaputoSe il lavoro è da sempre esistito e può essere definito – per usare le parole di Karl Marx – quel processo nel quale l’uomo per mezzo della sua azione produce, regola e controlla la natura per appropriarsi dei suoi materiali in forma usabile per la propria vita, è solo con la rivoluzione industriale che si supereranno per sempre le modalità di lavoro tradizionali e che si creeranno le condizione per la nascita del moderno mercato del lavoro, quelle condizioni per cui il lavoro sarà oggetto di transazione fra due soggetti formalmente liberi, un venditore e un acquirente, che ne definiscono il prezzo e lo considerano alla stregua di una merce che ha un valore e in cui le forme i modi in cui esso sarà erogato e regolato ridisegneranno completamente il rapporto tra le classi sociali e la società, oltre che fra le varie parti della società stessa.

Fu l’invenzione di impianti e macchinari complessi che cambiò completamente il rapporto del mercante con la produzione poiché portò allo sviluppo di un sistema di fabbrica che divenne più importante del commercio. Ma quella trasformazione – il passaggio dal mercantilismo alla supremazia delle industrie – per potersi realizzare ebbe bisogno di due elementi di base di enorme importanza. Il primo fu quel processo che viene detto di pauperizzazione dei contadini e che avviene quando in un lasso di tempo relativamente breve e con metodi violenti le terre, un tempo lasciate libere perché i più poveri le potessero coltivare vengono recintate. Il secondo fu la liberalizzazione (nel 1795) della mobilità dei lavoratori sul territorio nazionale per rispondere alla necessità dell’industria dei lavoratori.

Se poi volessimo proprio individuare una data potremmo dire che la nascita di un vero e proprio mercato del lavoro – in cui cioè i lavoratori per sopravvivere sono costretti a vendere l’unica cosa che posseggono ossia la loro capacità lavorativa – si realizza nel 1834, ossia nell’anno in cui – trent’anni dopo la sua approvazione – viene abrogata una legge nota come Speenhamland Act, una norma apparentemente semplice che stabilì nel 1794 che ai poveri dovessero essere riconosciuti sussidi in modo da assicurare loro un reddito minimo (indipendente dai loro guadagni) che gli consentisse di acquistare il pane. Un provvedimento che faceva valere un ‘diritto di vivere’ sulla logica del profitto e che proprio durante il periodo più attivo della rivoluzione industriale in Inghilterra, fra il 1795 e il 1834, impedì la creazione di un mercato del lavoro.

Dunque, possiamo affermare che con l’abrogazione dello Speenhamland Act e l’approvazione della Poor Law Reform del 1834, quando il lavoratore non ha più diritto al sostegno dello Stato ed è lasciato libero (o costretto) a vendere la propria forza lavoro in cambio di un salario per vivere, nasce definitivamente il mercato del lavoro. «il lavoro dell’uomo – scriverà Karl Polanyi – doveva diventare merce» (Polanyi 1974, 130).

A quando risalgono le prime ricerche sulla disoccupazione?
La nascita della categoria di disoccupazione fa parte della storia della disoccupazione stessa; anch’essa come il mercato del lavoro è una costruzione sociale. Ma è con quello che accadrà negli anni Trenta del Novecento – la cosiddetta crisi del ’29 determinatasi all’indomani del crollo della borsa di Wall Street – che studiosi e ricercatori sociali iniziano a mettere al centro delle proprie riflessioni la disoccupazione come tema svincolato dalla povertà.

Gli anni Trenta sono stati gli anni della più grave delle recessioni economiche della storia del capitalismo industriale, non perché fino ad allora non se ne fossero mai verificate ma perché la durata e la gravità di quella furono superiori a qualsiasi altra crisi precedente e successiva del sistema capitalistico industriale e soprattutto perché gli effetti sociali che essa produsse furono pesanti tanto in paesi in cui le strutture di welfare erano già presenti – come in Gran Bretagna – quanto in paesi, come gli Stati Uniti, in cui le reti di protezione erano particolarmente modeste se non assenti.

La conseguenza più immediata del crollo finanziario fu la crescita dei tassi di disoccupazione in quasi tutti i paesi del mondo, che alla metà del 1930 si stimavano essere il doppio di quelli registrati prima del crollo. Tutti i paesi occidentali registrarono un numero di disoccupati più elevato che in qualsiasi periodo precedente; negli Stati Uniti, tra l’autunno del 1931 e la primavera seguente più di 10 milioni di persone risultarono disoccupate, ma soltanto un quarto di esse riceveva un aiuto. Circa un quarto dell’intera popolazione, quasi trenta milioni di americani, non disponeva di alcuna entrata. In Gran Bretagna nel periodo 1930-1935, il tasso di disoccupazione si mantenne ad un livello medio del 18,5% fra i lavoratori registrati. Ma della disoccupazione come condizione in realtà non si sapeva nulla.

Solo lentamente, e con l’aggravarsi del fenomeno, si cominciò a capire come invece essa fosse uno dei maggiori problemi sociali. E di conseguenza si sviluppò, per la prima volta, un interesse specifico per lo studio delle sue cause e delle sue conseguenze e si produssero un’ingente quantità di ricerche che appunto per la prima volta si dedicarono a studiare chi fossero i disoccupati, come vivessero la perdita del lavoro, che differenze ci fossero fra condizione maschile e femminile, fra condizione di disoccupazione vissuta all’interno di intere comunità disoccupate o quando il disoccupato si trovava a vivere all’interno di comunità in cui altri continuavano a lavorare.

Per queste ragioni gli anni Trenta costituiscono un periodo particolarmente importante dal punto di vista dello studio del mercato del lavoro. Dipartimenti governativi e commissioni ufficiali, ma anche singoli studiosi e gruppi di ricerca si dedicarono ad analizzarne l’estensione, a studiare il funzionamento degli schemi di assicurazione e gli effetti della disoccupazione sulla salute e la vita dei soggetti colpiti. Queste ricerche diedero un contributo fondamentale alla conoscenza delle condizioni della disoccupazione e riuscirono, a volte in maniera eccellente, ad illustrare in dettaglio le sue conseguenze, dedicandosi spesso ad aspetti mai considerati, come la disoccupazione giovanile, o a fenomeni poco conosciuti come la disoccupazione di lunga durata.

L’originalità degli studi condotti in quegli anni sulla disoccupazione risiede nel fatto che la maggior parte di essi fu condotta attraverso un lungo e diretto contatto con i soggetti e le comunità colpite da disoccupazione, utilizzando sia metodi di indagine quantitativi che qualitativi; le migliori indagini furono anche in grado di fornire nuovi e dettagliati elementi per l’analisi delle condizioni psicologiche dei soggetti privati del lavoro.

Le più importanti di queste ricerche – ma altre sono raccontate nel libro – furono senz’altro quella condotta a Marienthal da Jahoda, Lazarsfeld e Zeisel 1986 l’unica tradotta in italiano con il titolo I disoccupati di Marienthal; quella realizzata nel 1931 da White Bakke, The Unemployed Man a Greenwich sui percettori di sussidi e quella decisamente più ampia e ricca anche per la quantità di soggetti che coinvolse e interviste che furono realizzate portata avanti dal Pilgrim Trust nel 1938 dal titolo Men Without Work. Seguirono poi le inchieste di W. Hannington nel 1937 The Problem of the Distressed Areas – sulle condizioni delle aree depresse come furono definiti le aree minerarie del nord dell’Inghilterra e la splendida ricerca/reportage realizzata da Ellen Wilkinson nel 1939 da significativo titolo The Town that was Murdered, tutta dedicata a Jarrow una delle più importanti città operaie inglesi all’epoca, sede dei più importanti cantieri navali, città che fu messa per sempre in ginocchio dalla chiusura dei cantieri e delle acciaierie.

Per quel che riguarda gli Stati Uniti vanno citate la ricerca di Mirra Komarovsky, The Unemployed Man and His Family sulle perdita del ruolo e le trasformazioni all’interno della famiglia; quelle realizzate da White Bakke (che era ritornato negli Stati Uniti): After the Shutdown, Citizens Without Work e The Unemployed Worker interessantissimi studi longitudinali su famiglie colpite dalla disoccupazione, che consentirono di ricostruire gli stadi materiali e psicologici attraverso cui i disoccupati passavano.

Ma oltre alle ricerche anche la ricca produzione letteraria che in quegli anni fiorì contribuì in maniera altrettanto importante ad illustrare la disoccupazione e la condizione dei disoccupati.

Fra gli altri vanno ricordati, per l’Europa i reportage di George Orwell soprattutto il suo The Road to Wigan Pier, i romanzi di Archibald Joseph Cronin, in particolare La cittadella e ancor più E le stelle stanno a guardare, racconti di comunità minerarie, così centrali in quegli anni. Love on the dole di Walter Greenwood, l’autobiografia di Max Cohen, I Was One of The Unemployed . Per gli Stati Uniti, Dos Passos, Faulkner, Farrell e Wolfe sono gli scrittori che rappresentano un tipo nuovo e originale di scrittore, ma lo scrittore che ha rappresentato più di ogni altro l’epopea americane degli anni Trenta è John Steinbeck, autore di Furore che pubblicato nel 1939 rappresentata certamente la narrazione più icastica di quella che fu definita la Grande Depressione.

Quali sono le fonti e gli strumenti per lo studio del mercato del lavoro?
Per studiare il mercato del lavoro abbiamo bisogno di avere dati aggiornati, accessibili e che abbiano un sufficiente grado di affidabilità. Per fare questo ci serviamo di una larga serie di fonti che producono dati e li mettono a disposizione; ci rivolgiamo a enti, pubblici e privati, che a diverso titolo, per diverse ragioni e con diversi obiettivi si occupano di produrre, raccogliere e pubblicare i dati relativi al mercato del lavoro. Queste fonti, nel tempo, si sono molto ampliate, hanno affinato i loro metodi e le loro tecniche e soprattutto negli ultimi anni stanno sempre più puntando ad integrare le informazioni che raccolgono, nel tentativo di fornire un quadro quanto più esaustivo della situazione del mercato del lavoro.

Fra quelle internazionali, a livello europeo la produzione e la diffusione delle statistiche ufficiali sono realizzate dal Sistema Statistico Europeo (SSE) e ad esso noi facciamo principalmente riferimento, ma subito dopo per lo studio dei mercati del lavoro internazionali ci avvaliamo dei dati della Banca Centrale Europea, dell’Oecd, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico e dell’Ilo (International Labour Office). Tutte e tre quelle citate sono fonti autorevoli e alla quale i singoli paesi forniscono oltre che attingere i dati relativi a tutti i movimenti relativi al mercato del lavoro.

Passando all’ambito nazionale, la principale delle nostre fonti istituzionali pubbliche è l’Istituto di statistica nazionale l’Istat, che ha come solo scopo quello della diffusione e della conoscenza relativa a tutti i fenomeni comprese dunque quelle relative al mercato del lavoro che da qualche tempo si affianca e si integra sempre più con altri istituti come l’Inps L’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale e l’Inail (l’Istituto Nazionale Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro) istituti da cui assumiamo ormai dati di enorme importanza per la lettura del mercato del lavoro.

Consideriamo poi anche molte altre fonti sempre di natura istituzionale – tutti gli uffici di statistica dei Ministeri, in primo luogo del Ministero del Lavoro, quelli delle Prefettura, degli Enti quali le Regioni le Province, le Città metropolitane, i Comuni; l’ispettorato Nazionale del Lavoro; le Camere di commercio; la Banca d’Italia. Infine prendiamo a riferimento tutti i dati provenienti da enti o organismi pubblici che hanno specifiche funzioni di ricerca e di raccolta dati fra i più importanti: L’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP); L’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive (ANPAL) e infine il Consiglio Nazionale dell’economia e del Lavoro (CNEL), oltre a tutte le strutture scientifiche, come le Università, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, il Censis, la Svimez, solo per citare le più importanti realtà di studio del paese.

Per quel che riguarda gli strumenti invece direi che bisogna tenere presente che per analizzare il mercato del lavoro di un paese abbiamo bisogno di conoscere l’entità delle grandezze di cui ci occupiamo ossia di sapere esattamente quante persone hanno un lavoro, quante lo hanno perso, quante lo cercano o quante non lo cercano più e più in generale abbiamo sempre bisogno di conoscere quanta parte della popolazione è interessata (cioè partecipa) a tutti i fenomeni legati al lavoro e dunque è dentro o fuori il mercato del lavoro. Non dobbiamo poi dimenticare che abbiamo bisogno di conoscere il più precisamente possibile le caratteristiche di questi gruppi e quindi essere in grado di distinguere e conteggiare gli occupati e i disoccupati per esempio per genere, per classe di età, per titolo di studio, per area di residenza, per composizione del nucleo familiare, poiché queste variabili influenzano moltissimo l’andamento dei fenomeni e sono in grado di mostrarci più chiaramente che caratteristiche ha quel fenomeno e chi sono i soggetti ne sono più interessati.

Insomma, avere dati, poterne averne il massimo dettaglio, poterli confrontare nel tempo e con altri contesti è per noi estremamente importante e per fare questo occorre capire esattamente chi consideriamo e chi non consideriamo dentro una categoria o dentro un’altra. Per fare questo nel libro mostro e aiuto a capire la logica alla base del processo di costruzione dei dati ISTAT riferiti al lavoro (occupati, disoccupati, popolazione attiva ecc.), mostro come le definizioni di queste categorie sono, giocoforza, mutevoli dovendosi adeguare nel corso dei decenni alle trasformazioni sociali e demografiche ed infine illustro i modi in cui si calcolano i vari tassi, dando così la possibilità di cominciare a familiarizzare con indici e categorie fondamentali per lo studio del mercato del lavoro.

Quali tappe hanno segnato lo sviluppo del mercato italiano dal dopoguerra alla fine del Novecento?
Complessivamente le dinamiche dello sviluppo economico e sociale italiano dalla seconda metà del Novecento e fino alla fine del secolo mostrano un paese che passa dall’essere un paese agricolo ad un paese industriale-agricolo per diventare un paese in cui il terziario come settore produttivo prevale. Alcuni processi sono stati più lineari – il passaggio da paese agricolo a paese terziario in cui si sono espansi i settori del commercio e della Pubblica Amministrazione – altri processi sembrano essere stati caratterizzati da costanti che non sono purtroppo di segno positivo. Da questo punto di vista dobbiamo infatti abbiamo sempre registrato una sistematica bassa dinamica del mercato del lavoro, una continua mancanza di domanda di lavoro, insufficiente a rispondere all’offerta di lavoro, tanto che abbiamo sempre sofferto di elevati livelli di disoccupazione, soprattutto giovanile, siamo sempre stati caratterizzati da livelli di occupazione bassi e soprattutto da livelli di partecipazione e di occupazione femminili sistematicamente più bassi del resto d’Europa, per quanto non si possa negare che la crescita del lavoro retribuito femminile sia stata una delle maggiori conquiste del Novecento italiano. Restano purtroppo costanti e non risolti il divario di sviluppo fra nord e sud del paese, quello di genere e anche quello fra generazioni.

Se volessimo guardare a volo d’uccello alle principali tappe del nostro mercato del lavoro potremmo dire che Gli anni Cinquanta sono stati gli anni del grande esodo dalle campagne del Mezzogiorno, in cui comincia la espansione della emigrazione dal sud che si dirigerà al nord spesso con le famiglie al seguito ma che si dirigerà anche e all’estero; una emigrazione per lo più fatta da maschi soli che lasciavano le famiglie, sono gli anni in cui il paese definisce le scelte di localizzazione e di sviluppo industriale nelle aree al nord del paese che a livello di infrastrutture si presentavano più adeguate.

Gli anni Sessanta sono stati gli anni in cui si è intensificato il processo di esodo sud-nord, quelli in cui si assiste alla piena realizzazione dello sviluppo e della modificazione strutturale dell’industria italiana che si insedierà definitivamente nel triangolo Milano-Torino-Genova; sono gli anni dell’inizio dell’urbanizzazione, della scolarizzazione che diventa obbligatoria per tutti (maschi e femmine, poveri e ricchi), sono gli anni in cui per effetto dell’intervento pubblico della cassa per il Mezzogiorno si assiste alla riforma agraria e delle bonifiche e sono gli anni della formazione e del consolidamento di una classe operaia di fabbrica che alla fine del decennio con l’Autunno caldo e con un sindacato rafforzato e unito otterrà notevoli conquiste in primis l’approvazione dello statuto dei lavoratori legge dello stato nel 1970 (legge 300).

Gli anni Settanta sono invece gli anni della crisi del modello fordista taylorista in tutto il mondo occidentale; si registra la prima crisi petrolifera e l’inizio del cosiddetto post-fordismo; si avvia un processo generale di deindustrializzazione e di riduzione dell’occupazione nella grande fabbrica ma in Italia si assiste al decentramento produttivo, allo spostamento dell’asse territoriale dello sviluppo economico e produttivo, con la scoperta della piccola impresa competitiva, l’affermazione del made in Italy; la definizione dell’esistenza delle tre Italie (ma con una persistenza di un dualismo del paese rispetto alla disoccupazione sempre più concentrata nel Mezzogiorno; si scopre l’esistenza di una diffusa economia informale (e di una persistenza di lavoro nero più al sud che al nord ) e si assiste ad una stagione di sconfitte sindacali in Italia ma anche altrove; si comincia ad affacciarsi nel mercato del lavoro – ma nessuno sembra accorgersene – una silenziosa e laboriosa componente immigrata (sia maschile che femminile).

Gli anni Ottanta sono gli anni a. della riscoperta definitiva di una differenziazione territoriale, per genere e per età, del manifestarsi dello squilibrio del mercato del lavoro; si afferma il modello italiano della disoccupazione, come lo definì Enrico Pugliese, che colpisce giovani, donne in particolare, residenti per lo più nel Mezzogiorno; sono gli anni della disoccupazione di massa, dovuta da un lato a carenza di sviluppo e a mancanza domanda di lavoro, dall’altra da ristrutturazione industriale ed gli anni in cui il lavoro nero, per alcuni soggetti (maschi, adulti, capofamiglia, con scarsi o nulli titoli di studio appare il destino più comune), ma sono anche gli anni della scoperta che ci può essere disoccupazione anche in un contesto di crescita economica (job less growth), nel proteggere la classe operaia della grande fabbrica un ruolo centrale ha la Cassa Integrazione Guadagni, che costituirà tuttavia una via di fuga da parte dello stato per non attuare politiche di reimpiego e ricollocamento della forza lavoro espulsa (l’espulsione tutelata di cui si parlò). Sono gli anni in cui la segmentazione del mercato del lavoro spiega la coesistenza di disoccupazione e immigrazione nel nostro paese, ma sono anche gli anni in cui si assiste all’affermarsi dei processi di globalizzazione e di una nuova divisione internazionale del lavoro, del capitalismo reticolare e dell’organizzazione della produzione in catene globali del valore; va in crisi quasi ovunque e quasi definitivamente la rappresentanza sindacale così come si era conosciuta e affermata fino a questi anni.

Gli anni Novanta sono quelli in cui si assiste al ridimensionamento della base produttiva industriale e alla crescita del settore dei servizi alle imprese e alle persone (dispersione e concentrazione); si assiste alla abolizione della scala mobile (1992) e al contenimento delle dinamiche salariali; siamo di fronte alla definizione delle dinamiche di trasformazione e deregolamentazione del mercato del lavoro nazionale e internazionale; dei processi di individualizzazione e dei nuovi rischi nelle società tardoindustriali; si definiscono le nuove regole europee per la gestione del mercato del lavoro. Con la crisi del modello fordista e la progressiva erosione dell’occupazione definita da malebreadwinner, il modello della de-regolazione è stato quello adottato dai mercati internazionali a partire dalla metà degli anni Settanta. La rigidità del mercato, infatti, è stata considerata come principale causa dell’elevato tasso di disoccupazione in Europa. Per questo la flessibilità del mercato del lavoro è stata individuata come la principale soluzione di adeguamento dei regimi di protezione per l’impiego all’incertezza dei mercati e alla crescita della competizione internazionale.

La flessibilizzazione dei rapporti di lavoro attraverso la legalizzazione del lavoro interinale, l’ncentivazione del part-time e del lavoro a termine, l’uso dei rapporti di lavoro con finalità formative, sono state innovazioni che non hanno risposto però agli obiettivi che sembravano voler raggiungere ossia una crescita dell’occupazione.

Nel corso degli anni Novanta infatti si attribuiscono i malfunzionamenti del mercato del lavoro al mancato incontro fra domanda e offerta di lavoro e nel 1996con la legge 197 (Pacchetto Treu) si assiste all’abolizione del monopolio pubblico del collocamento e al ridisegno dei servizi per l’impiego con la devoluzione di funzioni a livello regionale e locale e al ricorso a politiche attive del lavoro indirizzate alla promozione dell’occupazione. Dal punto di vista dei dati In Italia si assiste fra il 1996 e il 2006 al più alto incremento dell’occupazione che si sia mai registrato dall’unità d’Italia in poi e tuttavia la diffusione delle nuove regole di contrattazione, delle nuove occupazioni atipiche, delle riforme del mercato del lavoro italiano al margine non porteranno miglioramenti né nella qualità né nella quantità di occupazione nel paese. Si passerà dalla disoccupazione di massa alla sottoccupazione di massa; l’Europa chiederà Flex-security l’Italia risponderà con la precarietà.

Gli anni Duemila sono quelli del processo di convergenza economica che ha permesso di rimediare in parte alle dissennatezze finanziarie dei decenni passati ma il sistema italiano rimane debole: nella produttività, nell’occupazione, nella crescita; sono gli anni della nuova configurazione dell’occupazione e della disoccupazione, della globalizzazione e competizione internazionale in cui si può affermare che il sistema economico italiano non è mai riuscito a soddisfare l’offerta di lavoro disponibile e quindi ancora oggi mostra una scarsa domanda di lavoro che non riesce a crescere tanto più in assenza di investimenti pubblici più accentuata al sud.

Quali problemi rimangono ancora aperti?
Il mercato del lavoro è stato e continua ad essere sempre più segmentato con categorie svantaggiate (donne, giovani, immigrati) più o meno gravemente nei vari periodi e l’emigrazione dei nostri soggetti (giovani ma anche adulti, più o meno scolarizzati) comincia ad essere fenomeno allarmante più di quello dell’immigrazione straniera oggi assestatasi all’8% della popolazione residente; se l’ingresso nel mercato del lavoro delle donne è certamente un dato di fatto non si può dire che il paese mostri livelli di allineamento con il resto dell’Europa restando agli ultimi posti per partecipazione femminile, occupazione e salari. Il gender gap in Italia è ancora decisamente pesante. E questo anche a causa di strutture di welfare che non ne hanno favorito l’occupazione. La forza contrattuale dei lavoratori dopo un periodo di ascesa ha subito un lungo periodo di declino. Il dualismo Nord-Sud, non solo non sembra essersi ridotto ma da decenni appare in ripresa così come è aumentato il livello delle diseguaglianze e quello della povertà del paese.

In tutto questo la crisi derivante dalla pandemia da Covid 19 ha messo solo pesantemente in luce che la ricetta che negli ultimi trent’anni abbiamo applicato quella della crescente deregolamentazione del mercato del lavoro e della scelta di flessibilizzare il lavoro e l’occupazione è stata una scelta che ha fortemente penalizzato proprio i soggetti che più dichiarava di volere aiutare: i giovani e le donne che si sono trovati a pagare un prezzo molto più alto degli altri in termini di riduzione dell’occupazione, peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro.

Gli attuali problemi del mercato del lavoro sembrano essere ancora una volta per il nostro paese quelli di un diseguale sviluppo territoriale e di un Mezzogiorno che vive anche un più pesante invecchiamento della popolazione – fenomeno che riguarda tutta la società e le cui conseguenze sulla società, in termini di ricadute sul funzionamento del mercato del lavoro, sulle strutture di welfare saranno sempre più significative; dall’altro lato il rapporto fra Genere e condizione occupazionale in Italia ad oggi non è stato ancora risolto e la discriminazione della componente femminile e la sua difficile partecipazione nel mercato del lavoro continuano ad essere tema evidente e sotto gli occhi di tutti.

Il tema delle nuove forme di organizzazione del lavoro, dallo smart working alla gig economy, rappresenta una questione di strettissima attualità: quali prospettive, a Suo avviso, per il mercato del lavoro nell’era della digitalizzazione?
L’ondata di tecnologia che ha investito qualsiasi ambito della vita individuale e sociale negli ultimi decenni ha fatto registrare un notevole impatto anche sull’organizzazione del lavoro e sullo svolgimento delle prestazioni lavorative. Con l’avvento dell’automazione alcune visioni utopiche avevano prefigurato la fine del lavoro umano, in realtà il rapporto tra nuove tecnologie e lavoro risulta essere più complesso. Bisognerebbe provare a mettere ordine nei principali processi in atto generati dalla digitalizzazione del lavoro: gig economy, platform work, smart working, industria 4.0 ecc. Le trasformazioni in divenire, soprattutto in alcuni settori, risultano a tal punto strutturali da mettere in crisi la capacità di analisi di alcune delle categorie classiche del mercato del lavoro e rendono sempre più evidente la necessità di modificare buona parte della legislazione del lavoro. Le trasformazioni sociali che le dinamiche contrattuali e salariali del digital labour stanno generando sono enormi, sarà necessario capire in che direzione sceglieremo di andare in termini di difesa della qualità del lavoro e delle sue condizioni.

Quello a cui si sta assistendo sempre più è infine anche una perdita significativa del valore del lavoro, almeno per come esso è stato inteso nel corso del secolo passato, quel Novecento che è stato più volte richiamato come il secolo del lavoro ed in cui il lavoro è stato portatore di emancipazione, affrancamento dalla povertà, veicolo di partecipazione e accesso alla cittadinanza nel senso più pieno. Lo svuotamento che il lavoro sta subendo in questo senso, di molte delle sue funzioni, si sta traducendo in perdita di diritti per una larga fascia di lavoratori, fino al punto che vengono ormai posti come necessari obiettivi di riformulazione anche della legislazione del diritto del lavoro che faccia i conti con una realtà profondamente nuova in cui tuttavia i vecchi pericoli dello sfruttamento e del depauperamento della forza lavoro persistono.

Il fenomeno a cui si assiste attualmente, ma che può essere datato da almeno una decina di anni, è infatti quello di una parcellizzazione del lavoro in innumerevoli prestazioni che sostituiscono relazioni di lavoro più durature e che non sembrano caratterizzate da alcun elemento di garanzia.

Eppure, questo tipo di lavoro definito dalle nuove tecnologie è quello che sta diventando la modalità di ingresso al mondo del lavoro da parte delle generazioni più giovani, sia con alti che con bassi livelli di scolarizzazione. Con la diffusione di questi nuovi lavori, si corre il rischio di mettere progressivamente in pericolo molti di quei diritti sociali conquistati nel corso del secolo del lavoro.

Già il fatto che attualmente si stia accentuando la diffusione di una realtà come quella dei lavoratori poveri, indica che il lavoro, anche questo lavoro, non è più in grado di assicurare un reddito sufficiente alla sopravvivenza dei lavoratori e delle loro famiglie.

Quello che appare in atto è un processo riorganizzativo del lavoro, un fenomeno già osservabile a partire dagli anni Novanta il cui aspetto più eclatante è stato prima l’accelerazione dei processi di esternalizzazione. E le diseguaglianze sono apparse ancora più stridenti quando con la pandemia tutto il sistema è andato in crisi, compreso il lavoro, che ha mostrato come fosse ormai costituito da un universo molto variegato di condizioni e di garanzie.

La crisi determinata dalla pandemia ha, come più volte abbiamo detto, solo messo in luce molta parte delle questioni irrisolte della nostra società.

Giustina Orientale Caputo è Professoressa associata in Processi economici e del lavoro e insegna presso all’Università Federico II di Napoli; si occupa di mercato del lavoro, di disoccupazione, precarietà e condizioni di lavoro in Italia e nel sud, in particolare dei giovani e delle donne. Si è anche occupata di migrazioni interne (dal sud al nord) e di immigrazione e seconde generazioni. I suoi lavori precedenti sul lavoro sono stati Come una danza immobile. Tre anni di disoccupazione, lavoro nero e povertà a Napoli, 2012, Ledizioni, Milano; La lezione degli anni Trenta. Disoccupazione e ricerca sociale, 2009, Bruno Mondadori, Paravia Milano.

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