“Amore greco” a cura di Filippomaria Pontani

Prof. Filippomaria Pontani, Lei ha curato l’edizione del libro Amore greco, edito da Garzanti, una antologia dedicata a temi e figure della poesia omosessuale nella Grecia classica ed ellenistica: che rilevanza assumono le relazioni omoerotiche nella poesia greca antica?
Amore greco, Filippomaria PontaniDevo subito precisare che questo piccolo libro – nato per puro divertissement ad opera di un curatore che non ha mai praticato l’omosessualità, e che risulta pertanto un osservatore in certo modo “esterno”, “neutro” – offre una raccolta di testi che si estende dall’antichità greco-romana fino al primo Novecento: la parte “antica” occupa grosso modo la prima metà del volumetto, e non dà che un piccolo saggio del gran numero di autori che hanno dato a questo tipo d’amore le sue lettres de noblesse nella poesia antica, sia in senso proprio – penso anzitutto agli autori di poesia lirica ed epigrammatica – sia in senso indiretto – penso alle divertite e talora sferzanti parodie del fenomeno che troviamo nella commedia e in Aristofane in particolare. Sul tema delle relazioni omosessuali in Grecia esiste una bibliografia ormai vastissima che ha allignato in particolare nel quadro dei gender studies e dei queer studies: in questo dibattito critico spesso assai sofisticato (da Calame alla Cantarella a Halperin e J. Davidson) il mio libretto non mira in alcun modo a entrare, affidandosi ancora come buona introduzione alla problematica al vecchio saggio di K.J. Dover (L’omosessualità nella Grecia antica), anche se tanto nella prospettiva quanto soprattutto nella terminologia che adopera tale studio è ovviamente succubo di una sensibilità di mezzo secolo fa alquanto diversa dalla nostra.

Più interessante per me è stata l’indagine “archeologica” sulla nascita degli studi sull’omosessualità greca nel XIX secolo, soprattutto in area tedesca e inglese: è stato infatti assai istruttivo notare come proprio sulla base della rivalutazione ottocentesca del fenomeno tra Saffo e Socrate (Zschokke, Hoessli, ma soprattutto le Ricerche sull’enigma dell’amore tra uomo e uomo di K.H. Ulrichs e poi appunto il Saffo e Socrate di Hirschfeld, del 1896) siano gemmate un’attenzione e una sensibilità diverse anche nelle culture moderne, anzitutto per ciò che riguarda la considerazione dell’omosessualità non come una scelta (o, peggio, una devianza) bensì proprio come una natura. È in questo clima del resto che nasce la stessa parola di “omosessualità” nel 1868, ad opera del tedesco Kertbeny, ed è in questo clima che alla lunga matura l’opera più famosa sul tema, il Corydon di André Gide (Coridone è naturalmente il pastore della II Ecloga di Virgilio); è questo anche il clima del noto libertinaggio “in veste antica” (talora letteralmente, con i pallii e le toghe nei colleges) tipico dell’upper class inglese, quella di solito ricondotta alla figura-chiave di Oscar Wilde: un universo storicamente decisivo per la penetrazione dell’omosessualità nelle nostre società, ma al contempo un orizzonte che la seconda metà del Novecento, a partire da Foucault, si incaricherà di rovesciare completamente, respingendo nel passato le “mascherate elleniche” e insistendo su ben più profonde dimensioni sociali e politiche.

Per quanto riguarda l’omosessualità greca in quanto tale, l’aspetto principale che spesso si trascura è la dimensione “educativa” e “culturale” del rapporto degli amanti con i paides, un rapporto che trascende di molto la semplice relazione fisica e convoglia la passione verso una dimensione di conversazione e rapporto responsabile tra un uomo più anziano (o una donna più anziana) e un(a) giovane, in cui quest’ultimo/a ricava gli strumenti e le competenze per inserirsi nella società degli “adulti”: una “rincorsa” che è anche crescita individuale, almeno nello spazio aperto dalla poesia o dalla stessa atmosfera dei dialoghi di Platone, dal Fedro al Simposio – mentre dall’orazione di Eschine Contro Timarco, prezioso documento giudiziario di IV secolo, ricaviamo elementi di ben altra natura sulle degenerazioni della prostituzione maschile ad Atene, del resto già in parte adombrate da Aristofane. Fondamentali in questo senso i limiti dell’età (mai bambini: solo giovani a partire dalla tarda adolescenza) e dell’intensità (l’eccessiva dedizione all’aspetto strettamente erotico – per non parlare della violenza – era vista con sospetto). Certo poi il fenomeno ha assunto caratteri diversi nelle diverse società susseguitesi nell’antichità, da quella omerica a quella di età ellenistica e romana: in questo senso la centralità della lirica, e poi dell’epigramma (basti pensare al XII libro dell’Antologia Palatina) è un fenomeno per noi di straordinaria valenza culturale.

Quali autori greci hanno maggiormente interpretato l’amore omosessuale? E in che modo l’amore al “modo greco” ha poi ispirato la lirica europea sino al Novecento?
La risposta alla prima domanda è quasi ovvia: Saffo e Teognide, se vogliamo, la prima come unica fautrice esplicita e dichiarata dell’orientamento a cui in tempi più recenti la sua patria ha dato il nome (ovvero l’amore tra donne), il secondo come “enciclopedia” della dimensione paideutica cui facevo cenno, estesa lungo un arco di tempo notevole (molte elegie del corpus risalgono al pieno V secolo, in particolare quelle del II libro che più insistono sulla dimensione simposiale ed erotica) e capace di toccare tutta una serie degli aspetti della vita del giovane all’interno della comunità in cui l’erastès più anziano lo introduce. Ma poi ovviamente anche Anacreonte, Teocrito, Callimaco, e i tanti epigrammisti dell’Antologia greca, a cominciare da Stratone di Sardi e dalla sua “Musa dei fanciulli”.

Il mio volumetto in realtà parte da questi autori antichi per descrivere un fenomeno di longue durée, ovvero la connessione strettissima che le letterature posteriori stabiliscono tra mondo greco e amore omosessuale, a partire dalla cultura romana (da Catullo a Marziale ai Carmina Priapea; ma naturalmente anche nei testi polemici che identificano nella cultura greca quella degli “invertiti”). Ciò avviene soprattutto a due livelli, ovvero tramite le figure di singoli poeti e tramite alcune figure mitologiche. Tra i poeti (e tralascio qui i filosofi come Platone, che pure sono centrali per la nobilitazione dell’amore omosessuale da Marsilio Ficino fino ai sonetti composti da Michelangelo per Tommaso Cavalieri) si può naturalmente menzionare di nuovo il caso di Saffo, che dopo aver affascinato Catullo informa le raffinate e decadenti atmosfere di Baudelaire, di Swinburne, di Pierre Louys (ma anche di tanta pittura di quegli anni), e anche le liriche di poetesse coraggiose come le pionieristiche Renée Vivien o Hilda Doolittle, o le due che si nascondono dietro lo pseudonimo di Michael Field. Forse meno nota è la persistenza di Teocrito (e dunque il Virgilio delle Ecloghe), che non solo informa la poesia arcadica del tardo Cinquecento inglese (Barnfield, Spenser, Marlowe: è anche l’età dei sonetti omoerotici di Shakespeare, che pure evitano scoperte allusioni classiche), ma popola l’Ottocento anglo-francese (da Cory ad Adelswärd-Fersen a Lefroy) di pastori innamorati di pastori.

Tra le figure mitologiche invale anzitutto quella di Ganimede, che in uno strabiliante contrasto del XII secolo (un’epoca forse apparentemente inattesa per questo tipo di testi) è protagonista di una vera tenzone sull’amore omo- ed eterosessuale con Elena di Troia, un dibattito vivace senza freni né peli sulla lingua; ma poi Ganimede è ovunque, da Poliziano (uno dei pochi, con Swinburne, a saper scrivere versi greci sull’amore greco) a Marc-André Raffalovich, ed è un po’ archetipico anche per altri fanciulli rapiti come l’Ila di Bayard Taylor, l’Endimione di Oscar Wilde, il Narciso di Alfred Housman, e pochi altri. Un caso a sé – di figura storica che sfocia nel mito – è quello di Antinoo, che dà frutti da Winckelmann a Pessoa, e si connette al mito “egizio” che tanta parte ha nell’orientalismo occidentale.

Infatti nella lirica moderna esiste anche un’ipoteca oserei dire quasi “d’atmosfera” che lega il mondo lato sensu “ellenico” all’omosessualità: è il caso del sorprendente poema Don Leon lungamente attribuito a George Gordon Byron (ma sicuramente non suo, anche se senz’altro anteriore alla sua data di edizione che è il 1866) in cui l’Atene ancora ottomana diventa l’humus ideale per disegnare quella continuità tra Epaminonda, Socrate, Orazio e l’occhieggiare del figlio del voivoda che ti affida il più bello dei suoi figli nella sua casa sotto le rovine della Biblioteca di Adriano. È ancor più il caso dell’universo di Alessandria d’Egitto, città-mondo che proprio tramite Antinoo evoca l’Oriente e la Grecia a un tempo, nei versi del russo Michail Kuzmin e soprattutto in quelli dell’alessandrino Konstandinos Kavafis. Ecco, per certi versi questo libretto è una sorta di prolegomena per esplorare il retroterra della poesia omoerotica di Kavafis, non nel senso che quest’ultimo conoscesse tutti i testi che qui si presentano (anche se la gran parte di quelli inglesi sicuramente sì, vista la sua precoce formazione in quell’orizzonte culturale al tempo dell’infanzia trascorsa tra Liverpool e Londra), ma nel senso che proprio il distacco da quella forma di neo-classicismo (pure eticamente eterodosso ed esteticamente decadente) dei Narcisi, dei Ganimedi e degli Antinoi, proprio quella virata verso una storia “reale” che dà vita agli amori dei negozi e dei vicoli dell’Alessandria contemporanea in parallelo rispetto alla celebrazione di giovani leggiadri dei primi secoli dell’impero come Miris o Iasís, proprio quella contaminazione tra antico e presente che rifugge dall’erudizione per farsi sostanza di sentimento appena sfiorato e già oggetto di nostalgia, proprio insomma quelle caratteristiche fondanti della poesia di Kavafis si apprezzano meglio alla luce delle esperienze poetiche pregresse, che suonano ancor oggi – pur se talora di grazia leggiadra – meno “attuali” dei versi eternamente nuovi vergati nelle ombrose stanze di rue Lepsius.

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