“Ammalarsi e curarsi nel medioevo” di Tommaso Duranti

Prof. Tommaso Duranti, Lei è autore del libro Ammalarsi e curarsi nel medioevo. Una storia sociale, edito da Carocci: innanzitutto, qual era il concetto di malattia nel medioevo?
Ammalarsi e curarsi nel medioevo, Tommaso DurantiCome in ogni civiltà – anche nella nostra contemporaneità – il concetto di malattia è complesso a tal punto da rendersi difficoltosa una definizione chiara ed esaustiva: i criteri della moderna biomedicina, infatti, pur indispensabili, non esauriscono le sfumature e le declinazioni del tema, rendendo il concetto di malattia (e ancor di più quello di salute) una sorta di prisma. Ciò vale anche per il medioevo di lingua e cultura latina (dunque grossomodo quello dell’Europa occidentale).

Nel tentare di delineare il concetto di malattia per il medioevo, si devono tenere presenti diversi fattori: da un lato senz’altro l’eredità e la rielaborazione della dottrina medica di derivazione classica, in particolare quella di Galeno di Pergamo e dei suoi interpreti, cristiani e islamici. Si tratta di quella che possiamo definire una medicina naturale, nel senso che è legata allo studio della natura e che, nella natura, individua le cause e le modalità della malattia dei corpi.

È però indispensabile considerare anche la riflessione cristiana sulla malattia: essa, che deriva da motivi diversi da quelli della disciplina medica, è però costantemente intrecciata – a volte in consonanza, altre in opposizione – a quest’ultima. La riflessione cristiana sulla malattia muove dalla meditazione sulla condizione di peccatore dell’essere umano, una condizione antropologica e a tutto tondo, che rende l’uomo un infirmus. Tale connotazione, che avvicina malattia del corpo e malattia dell’anima, porta poi un esito fondamentale nella riflessione, complessa, sull’idea di povertà. L’infirmus – infermo, cioè non radicato, debole, malato, peccatore – è povero per definizione, perché è, appunto, debole, bisognoso, secondo diversi criteri. Su questo sfondo, si elaborarono le concezioni più “quotidiane” sull’idea di malattia.

Un elemento che accomuna, però, questi diversi ambiti concettuali, è che tendenzialmente tutto il medioevo considerò la malattia innanzitutto come causa di inabilità: il malato è colui che, temporaneamente o per sempre, non può ricoprire o non può più ricoprire il suo ruolo nella società. Tale declinazione sociale della malattia è sostanzialmente il fil rouge del concetto medievale di malattia, che non può mai essere eluso nel prendere in considerazione anche le strategie, terapeutiche e assistenziali, che quella civiltà elaborò per far fronte alla presenza della malattia e dei malati.

Che rapporto esisteva tra la riflessione religiosa sul tema e la dottrina medica?
Come accennato, i due discorsi dotti (quello religioso e quello medico) devono essere presi in considerazione in parallelo. Essi muovevano da motivazioni, esigenze e criteri di indagine diversi, talvolta diversissimi, ma non devono essere considerati alternativi o, ancora meno, in automatica opposizione. Quella medievale fu una società profondamente cristianizzata, dunque è impensabile eludere l’influenza del cristianesimo anche sulla riflessione e sulla pratica medica. D’altra parte, ciò non significa che la Chiesa dettasse l’agenda della riflessione dei medici o delle pratiche terapeutiche; il ruolo “censorio” della Chiesa medievale nei confronti della medicina secolare – una sorta di topos – è spesso frutto di un fraintendimento delle fonti (che vanno sempre contestualizzate), della generalizzazione di casi particolari oppure della retrodatazione di fenomeni successivi. Certamente, per la riflessione religiosa – e tendenzialmente in modo generale – vi era una netta gerarchizzazione: la salute dell’anima era al primo posto, perché il suo esito era considerato incommensurabilmente più importante della salute del corpo. Ciò, però, non significa che quest’ultima non fosse considerata importante. Anzi, a partire dal pieno medioevo, si ebbe una tendenza a inglobare la salute corporale tra i valori da perseguire anche in ottica cristiana. Non mancarono momenti di opposizione, specie in senso pastorale, che in certi momenti assunse anche carattere di opposizione tra i vari operatori. Il ruolo del cristianesimo fu, inoltre, fondamentale nell’elaborazione di una spinta alla misericordia che interessò anche le cure corporali, sulla base delle cosiddette opere di misericordia, tra cui, appunto, figura anche visitare gli infermi.

D’altro canto, la cura spirituale poteva essere integrata, proprio sulla base di questi principi, all’interno delle cure corporali, in un intreccio di competenze che forse oggi sono intese come non assimilabili, ma che per il medioevo non permette di separare nettamente gli ambiti.

Quali caratteristiche permettevano di definire lo stato di malato?
Innanzitutto, il dolore, e dunque l’autopercezione del dolore, era il fattore fondamentale per riconoscere il malato: in tal senso, esso era considerata la principale spia di una malattia fisica. Dal punto di vista fisico, la dottrina medica aveva elaborato e continuò a elaborare una riflessione sui segni della malattia, e allo stesso modo le pratiche non dotte riconoscevano in determinati sintomi e segni la presenza di una patologia. Dal punto di vista sensibile, uno degli elementi più presi in considerazione risulta essere invece il fetore: i suoi rimandi – sensibili e mentali – alla putrefazione, alla morte, all’inferno, il disgusto che si tramutava in orrore, lo facevano una spia privilegiata della condizione di malattia. Inoltre, il cattivo odore dei luoghi o degli elementi naturali era considerato segno della loro insalubrità. Tale sensibilità al cattivo odore, peraltro, smonta il pregiudizio di una civiltà sporca, antiigienica e puzzolente, come spesso vengono considerati i periodi pre-rivoluzione igienica: evidentemente, con standard differenti dai nostri, l’insistenza sul fetore dei malati, oltre ai rimandi concettuali, prova una sensibilità olfattiva tale da poter distinguere e considerare in negativo un cattivo odore.

Come accennato, però, era fondamentalmente l’impossibilità a svolgere le proprie funzioni quotidiane a risaltare come la principale spia di malattia, dando una forte connotazione sociale alla malattia: per questo si può sostanzialmente identificare la malattia con l’inabilità, una concezione che divide molto nettamente l’oggi dal medioevo.

Come si articolava l’itinerario terapeutico del malato?
La complessità del concetto malattia si rispecchia in una (almeno teorica) pluralità di tipi di intervento terapeutico. Al di là del fatto che ogni singolo malato medievale li abbia davvero mobilitati tutti, essi vanno tutti considerati come possibili frecce al proprio arco, spesso ritenute tali non in alternativa le une alle altre, ma in modo integrato.

La pluralità delle figure terapeutiche del medioevo può provocare un po’ di confusione e di mancata comprensione, se si tentasse di classificarle rigidamente all’interno delle categorie contemporanee. Per sintetizzare, si possono suddividere le figure terapeutiche innanzitutto tra operatori di una medicina naturale, cioè dipendente da caratteri almeno prevalentemente fisici, e operatori di una medicina soprannaturale, entro cui si deve considerare il santo taumaturgo, capace di indurre il miracolo, ma anche chi praticasse forme di cura che facciamo rientrare nell’ampio e sfumato ambito semantico della magia, attraverso amuleti, formule, pozioni. Questi due contesti – naturale e soprannaturale – erano meno impermeabili di quanto potrebbe apparire alla nostra mentalità: le pratiche dell’uno tracimano nell’altro e viceversa. Tendenzialmente, dunque, sarebbe più corretto differenziare le singole pratiche che non gli agenti terapeutici in sé, che potevano ricorrere a diverse strategie curative.

Quali erano, nel medioevo, i luoghi di cura dei malati?
Il luogo di cura era innanzitutto lo spazio domestico: questo aspetto è l’ineludibile punto di partenza. La cura avveniva innanzitutto in casa (quella familiare per i laici, quella religiosa per il clero). In questo spazio, specie in quello privato, l’occhio dello storico entra sì con più difficoltà, ma esso dimostra con forse più evidenza il sistema plurale di cure e curatori che poteva essere mobilitato. In ambito monastico, però, una progressiva differenziazione del monaco malato dal monaco sano portò alla progressiva ideazione di spazi “separati”.

I luoghi non domestici della cura furono, in ogni caso, coerenti con le complesse pluralità inerenti alla malattia. Discende dalla visione integrata di salute spirituale e salute fisica, ad esempio, il ruolo del santuario, rappresentò un luogo privilegiato per un itinerario terapeutico anche fisico e concreto. Dal punto di vista della connotazione sociale della malattia, gli ospedali furono luoghi di cura a tutto tondo: espressione concreta della non netta distinzione tra povero, bisognoso, malato, essi erano dunque luoghi di “cura indifferenziata”, perché si facevano carico di uno stato di bisogno indifferenziato.

Quali furono le malattie “simbolo” del millennio che va dal 500 al 1500?
Per malattia “simbolo” non si deve automaticamente intendere quelle che hanno colpito più persone, quanto più quelle che culturalmente hanno segnato un’epoca, sia durante quel periodo, sia nelle interpretazioni successive, divenendo, appunto, “simboliche” di un’età storica. In tal senso, ho scelto di chiudere il volume con tre capitoli dedicati a tre “quadri patologici”, dedicati a tre malattie – o gruppi di malattie – che fanno parte della riflessione storica, della memoria letteraria e dell’immaginario comune a proposito del medioevo (pur esistendo sia prima, sia dopo del medioevo stesso). Per il carico intellettuale avuto nella cultura europea e occidentale, un capitolo è dedicato all’ampio ambito delle malattie malinconiche, che hanno connotato la riflessione medievale sulla condizione umana, coinvolgendo la medicina con la letteratura, l’arte, la teologia: di esse, fanno in particolar modo parte l’accidia, il mal d’amore e l’ampio spettro di disagi che possono ricadere sotto al termine di follia. Gli altri due capitoli sono invece dedicati ai due “grandi morbi” che caratterizzano la narrazione sul medioevo: la lebbra e la peste. Tutte e tre le categorie nosologiche medievali permettono di indagare conseguenze fisiche e concrete, ma anche aspetti culturali, ben esemplificando la complessità del tema della malattia.

Tommaso Duranti insegna Storia medievale presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Si occupa di storia delle istituzioni bassomedievali, di storia delle università e di storia della medicina, della malattia e delle figure terapeutiche.

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