“Aminta” di Torquato Tasso

A partire dal 1572, Torquato Tasso si trasferisce a Ferrara, al servizio del duca Alfonso II d’Este. Dopo molti viaggi, nel 1573, porta a compimento una favola pastorale: l’Aminta.

L’Aminta fu messa in scena nel 1573, alla presenza del duca Alfonso II e di tutta la corte estense nell’isoletta del Belvedere, sul Po, nei pressi di Ferrara, ed ottenne subito un notevole successo. Negli anni seguenti si tennero altre rappresentazioni e l’autore sottopose il testo originale ad una attenta rielaborazione, introducendo i cori alla fine di ogni atto ed alcuni episodi nuovi. La redazione definitiva fu quella pubblicata a Ferrara nel 1582.

L’Aminta è un testo teatrale che sostanzialmente rispetta i canoni del teatro del tempo. Essa è divisa in cinque atti, preceduti da un Prologo, ed è chiusa da un Epilogo. Ogni atto è concluso da un coro sul modello della tragedia greca. Dal punto di vista formale l’Aminta adotta il metro lirico del madrigale con una libera alternanza di endecasillabi e settenari

Il suo svolgimento si fonda sostanzialmente sul dialogo tra i protagonisti. In effetti sulla scena si alternano i vari personaggi che raccontano, a beneficio del pubblico, quanto accade nel fuori-scena. Questo significa che l’opera di Tasso ha soprattutto una connotazione lirico-narrativa: è un dramma di parole, in cui l’azione è praticamente assente. E all’interno di questa dimensione narrativa affiorano alcuni dei temi tipici della poesia di Tasso: la nostalgia per una mitica età felice dell’oro, quando non esistevano ancora le soffocanti regole del vivere sociale (e soprattutto cortigiano); il vagheggiamento di una sensualità libera da vincoli; la coscienza che l’ideale vagheggiato appartiene ad un passato ormai finito per sempre; il riferimento al vissuto del poeta, sia pure attraverso il mascheramento letterario (il personaggio di Tirsi ha alcuni tratti dello stesso Tasso). Ne nasce una sottile ambiguità : da un lato l’opera si propone di idealizzare e celebrare la vita di corte, dall’altro rivela una profonda indifferenza per le sue ipocrisie e convenzioni, i conflitti interni, le gelosie, le invidie, i rancori. Vi si coglie cioè quell’atteggiamento ambivalente verso la corte che era proprio dell’anima tormentata e conflittuale del poeta.

Tutto ciò è espresso con uno stile semplice e musicale, ma anche arricchito da sapienti giochi letterari, con i quali il poeta dà un nuovo saggio del suo straordinario virtuosismo.

La trama

Nel Prologo si presenta il dio Amore, il quale dichiara il suo dispetto nei confronti della madre, Venere, che vorrebbe farlo vivere in ambienti cortigiani. Amore vuole invece essere libero di vagare per i boschi e di colpire con i suoi dardi pastori e ninfe. Tra queste ultime il suo primo bersaglio sarà Silvia, la più crudele delle ninfe che seguono Diana (dea della caccia). Nel primo atto Dafne, amica di Silvia, tenta vanamente di convincerla ad aprire il suo cuore alle gioie d’amore. Nel frattempo il pastore Aminta confessa all’amico Tirsi di essere innamorato proprio di Silvia. L’atto si chiude con il coro che celebra la mitica età dell’oro.

Il secondo atto viene introdotto da un Satiro, anch’egli innamorato di Silvia e deciso a deflorare con la forza la fanciulla quando farà il bagno nella fonte di Diana. Subito dopo appaiono in scena Tirsi e Dafne, che progettano di favorire l’incontro tra Aminta e Silvia. Esso avverrà presso la fonte di Diana. Ma poco prima che ciò avvenga Tirsi preannuncia allo stesso Aminta che avrà modo di incontrare Silvia nuda. Il pastore dichiara però che preferirebbe morire piuttosto che offendere col tradimento l’amata. Tuttavia, alla fine accetta la proposta dell’amico e si avvia assieme a lui alla fonte. Ma qui, e siamo al terzo atto, Tirsi annuncia che si è verificato un colpo di scena: Aminta è giunto appena in tempo per salvare Silvia dalla violenza del Satiro, ma la donna è fuggita senza neppure ringraziare il suo salvatore e, anzi, trattandolo con sdegnosa freddezza. Mentre Dafne cerca di consolare il pastore giunge la notizia della morte di Silvia, uccisa da una fiera. A questo punto Aminta, in preda alla disperazione, fugge con l’intenzione di uccidersi. Nell’atto seguente si scopre però che Silvia non è affatto morta; ella si è salvata dall’aggressione di un lupo grazie ad un velo che ha gettato nelle fauci della fiera. Mentre Dafne e Silvia discutono di ciò giunge il pastore Ergasto il quale racconta di avere visto Aminta gettarsi da una rupe. Silvia, finalmente intenerita dall’amore del giovane, accorre alla ricerca del suo corpo privo di vita. Nell’atto finale l’intreccio si scioglie positivamente: sulla scena appare il pastore Elpino, il quale narra che Aminta si era salvato miracolosamente e che Silvia, dopo averlo trovato, lo ha rianimato con un bacio appassionato. Nell’Epilogo Venere si lamenta perché non è ancora riuscita a ritrovare suo figlio.

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