
Quale rilevanza aveva l’allegoria nella letteratura antica greca e latina?
In alcune correnti filosofiche antiche, specialmente nello stoicismo, ebbe una grande rilevanza fin dai tempi più antichi. Delle scritture intenzionalmente allegoriche sono abbastanza rare; ma se ne trovano esempi insigni già nei testi orfici (con implicazioni di tipo esoterico e iniziatico) e anche in Platone, con il mito della Caverna e quello di Er, spesso ripresi dagli allegoristi successivi. Grande sviluppo ebbe soprattutto l’interpretazione allegorica della mitologia e dei poemi di Omero e di Esiodo, che espongono o evocano i miti greci. Essa consentì ad alcuni filosofi di rivalutare in qualche modo dal loro punto di vista questi poemi, negando che si tratti di pure finzioni e sostenendo invece che le narrazioni in essi contenute celano profonde dottrine di carattere fisico, morale e religioso. Gli dèi, per esempio, erano considerati da molti allegoristi stoici delle semplici allegorie per indicare il sole, la luna, gli elementi fisici ecc. Oppure le celebri fatiche di Eracle furono interpretate da uno dei più importanti di loro, Eraclito Grammatico (I-II secolo d.C.), come allegorie della vittoria della saggezza sugli istinti irrazionali e sui vizi. Altri sostennero che i miti sono soltanto fatti storici in seguito amplificati e trasformati in racconti meravigliosi: il più famoso di questi pensatori è Evemero (III secolo a.C.), da cui il termine oggi in un uso di “evemerismo” per designare un’interpretazione “realistica” della mitologia largamente praticata anche in epoca moderna (soprattutto nell’Ottocento). Omero diventava così per tutti questi allegoristi un vero e proprio sapiente, in possesso di sterminate conoscenze in ogni campo dello scibile; e poteva anche essere assolto dall’accusa di empietà che gli veniva rivolta per aver attribuito agli dèi comportamenti scandalosi, come stupri, adulteri, guerre e altri crimini.
Quale lettura biblica inaugura Filone Alessandrino?
Filone (morto nel 50 d.C.) apparteneva alla numerosa comunità ebraica di Alessandria d’Egitto: può essere considerato il vero “inventore” dell’esegesi allegorica della Bibbia, anche se già prima di lui esisteva qualche esempio di questa pratica (per esempio presso la comunità dei Terapeuti, da lui descritta e alla quale fa esplicito riferimento). Seguendo un metodo di interpretazione biblica diverso, se non addirittura opposto, a quello praticato dai rabbini palestinesi che si limitavano strettamente al significato letterale della Scrittura (la halakah), Filone distingue sistematicamente due livelli di significato: quello letterale e quello allegorico. Quest’ultimo, che per lui era il più importante, ha come fondamento la filosofia greca, di cui egli era profondamente nutrito, e in particolare a quella di Platone, che concepisce le realtà sensibili come copie delle idee intelligibili. Tale metodo gli consente in particolare di dare senso a episodi o passi biblici che presentano qualcosa di mitico, di assurdo, di paradossale o di contraddittorio, specialmente agli occhi di lettori non ebrei, riconducendoli a dottrine di carattere cosmologico, metafisico o etico familiari anche ai cultori della filosofia greca. Polemizzando con coloro che si fermavano al senso letterale della Bibbia e limitavano così il loro orizzonte unicamente al proprio paese, egli li chiama “micropoliti”, in opposizione ai “cosmopoliti”, cioè a coloro che universalizzano mediante l’allegoria il messaggio della Legge ebraica. In tal modo, grazie all’allegoria, la Bibbia diventa una vera e propria opera filosofica, con la sola differenza che essa è scritta in un linguaggio criptico, che necessita di un’interpretazione ed è accessibile solo agli eletti. L’opera di Filone esercitò subito, in ambiente alessandrino, un influsso decisivo sugli esegeti cristiani, soprattutto su Clemente Alessandrino e Origene.
Quando e come nasce l’allegoria cristiana?
L’allegoria (più propriamente l’allegoresi) cristiana nasce già con san Paolo, che nella Lettera ai Galati interpreta le due mogli di Abramo, Agar e Sara, la schiava e la donna libera, come allegorie (allêgoroumena, è il termine da lui usata) rispettivamente dell’Antica e della Nuova Alleanza, della Gerusalemme terrena e della Gerusalemme celeste. Si tratta cioè di una allegoria di carattere “tipologico” (dal greco typos, “figura”) o appunto “figurale”, come la definì uno dei maggiori studiosi di questo argomento, Erich Auerbach: in sostanza, le vicende e i personaggi dell’Antico Testamento sono considerati come “figure”, “prefigurazioni”, di ciò che il Nuovo Testamento rivela pienamente, cioè del messaggio di Cristo. Questo schema fu subito ripreso dai primi commentatori della Bibbia, Giustino Martire e Ireneo di Lione, e diventerà il modello fondamentale dell’esegesi allegorica cristiana, nettamente distinta in ciò da quella classica: mentre questa si basava su miti e finzioni poetiche, l’allegoria cristiana stabilisce un rapporto di significazione tra due realtà storiche, la prima appartenente all’Antico Testamento, la seconda al Nuovo. L’esegesi tipologica fu ripresa anche dai due più grandi commentatori biblici dei primi secoli, i già nominati Clemente Alessandrino e Origene, i quali la arricchirono con gli apporti dell’esegesi filosofica di Filone, abbozzando così gli schemi di una stratificazione di sensi nella sacra Scrittura. In particolare Origene elaborò degli schemi ternari (senso letterale, morale e spirituale, oppure: letterale, allegorico e spirituale) che costituirono la base di tutta la successiva ermeneutica cristiana della Bibbia.
Quale evoluzione caratterizza il pensiero allegorico cristiano?
Il modello tipologico continuò a essere per tutto il medioevo quello fondamentale nell’esegesi cristiana. La sua novità rispetto all’allegoresi antica fu teorizzata, a partire da sant’Agostino e da Beda il Venerabile (672-735), mediante la distinzione fra allegoria in factis (la tipologia) e allegoria in verbis (l’allegoria puramente retorica o verbale): Dante le chiamerà rispettivamente “allegoria dei teologi” e “allegoria dei poeti”. Si incominciò anche a definire più chiaramente la polisemia del testo biblico, cioè la stratificazione di significati di diverso ordine che vi si possono trovare. Lo schema che diventerà “classico” è quello del quadruplice senso, riassunto nel famoso distico di Agostino di Dacia (morto nel 1282): “La lettera insegna i fatti compiuti, l’allegoria ciò che devi credere, / la morale ciò che devi fare, l’anagogia ciò che devi sperare”. In questa cornice teorica, naturalmente, l’allegoria propriamente cristiana, quella in factis, era nettamente privilegiata rispetto a quella in verbis, considerata un semplice artificio poetico. Ma accanto a questa visione prevalente ne esistettero anche di alternative nel pensiero cristiano medioevale. Le più importanti furono certamente quella di Giovanni Scoto Eriugena, che rovesciò la gerarchia fra allegoria in factis e allegoria in verbis, identificando quest’ultima al “simbolo” della teologia mistica dello pseudo Dionigi Areopagita e promuovendo così la finzione poetica a espressione più alta del discorso sul divino, e quella di Gioacchino da Fiore, che in qualche modo ridusse il Nuovo Testamento (èra del Figlio, perciò “compimento” delle allegorie veterotestamentarie) a una semplice fase intermedia della storia sacra, che dovrà trovare il suo vero “compimento” in una terza èra, quella dello Spirito Santo.
Quando nasce e come si sviluppa la letteratura allegorica in volgare?
Bisogna tener presente innanzitutto che la letteratura allegorica in volgare è preceduta da quella tardo e mediolatina, con opere che influirono largamente su di essa, come Le nozze di Filologia e Mercurio di Marziano Capella (V secolo) e la Psicomachia di Prudenzio (348-405 circa), grande modello di tutte le successive battaglie fra i Vizi e le Virtù. Uno dei generi allegorici in volgare più antichi, derivato anch’esso da fonti latine, è il Bestiario, che ha il suo lontano archetipo in una breve opera scritta in greco nel II secolo d.C., il Fisiologo, e fu poi più volte tradotta in latino e in altre lingue. La struttura dei bestiari è semplice: sono formati da una sequenza di capitoli bipartiti, la prima parte dei quali contiene la descrizione (spesso fantastica) di un animale e la seconda un’interpretazione morale o spirituale, sul modello dell’esegesi biblica. In seguito però alle originarie allegorie religiose furono sostituite allegorie di altro genere, specialmente amorose: è quanto avviene nel brillante Bestiario d’amore di Richard de Fournival (scritto in francese antico verso la metà del XIII secolo) e in molti componimenti lirici occitanici, francesi, italiani, spagnoli e germanici. Nacque così la forma più nuova e fortunata di allegoria medievale (accanto ad altre, specialmente di natura religiosa, didattica, satirica): l’allegoria d’amore, che ebbe il suo capolavoro nelle due parti del Roman de la Rose, la prima composta intorno al 1225-1230 da un misterioso Guillaume de Lorris, la seconda fra il 1269 e il 1282 da Jean de Meun, scrittore noto anche per altre sue opere.
Quale funzione svolge l’allegoria in Dante?
Il problema dell’allegoria in Dante è stato spesso al centro di accese discussioni. In Italia il primo studioso che ne abbia studiato le fonti e la funzione è stato Francesco Perez nella sua Beatrice svelata (1865), un libro molto importante che è stato subito obliterato dalla critica accademica del tempo a causa della diffusa avversione di stampo romantico-idealistico per questa forma espressiva. I campioni di questa condanna dell’allegorismo dantesco furono Francesco De Sanctis e Benedetto Croce, le cui opinioni in proposito influirono pesantemente sulla successiva critica dantesca italiana. Le cose sono cambiate verso la metà del secolo scorso grazie agli studi di alcuni grandi medievisti stranieri: soprattutto Ernst Curtius, Erich Auerbach e Charles Singleton. Oggi nessun dantista serio mette più in discussione l’importanza dell’allegoria per una corretta comprensione dell’opera di Dante. Nell’Epistola a Cangrande, egli applica lo schema del quadruplice senso della Bibbia addirittura alla Commedia, elevando quasi il suo poema al rango di Scrittura sacra. Nel Convivio invece egli distingue – riprendendo un’opposizione come si è detto corrente nell’esegesi cristiana – fra “allegoria dei teologi” e “allegoria dei poeti”, e afferma che è questa la forma allegorica delle canzoni commentate nell’opera. L’allegoria poetica o retorica ha però un ruolo decisivo anche nella Commedia: nel IV canto del Paradiso Beatrice spiega a Dante che le anime dei beati, le quali gli appaiono suddivise nei vari cieli, si trovano in realtà tutte nell’Empireo; ma, aggiunge, “così parlar conviensi al vostro ingegno” che ha bisogno di immagini sensibili per poter formulare dei concetti, e cita l’esempio dei miti di Platone – cioè di semplici finzioni didattiche – la cui “sentenza”, cioè il cui significato, è diverso da quello letterale. Anche nell’Epistola a Cangrande cita i metaphorismi platonici per giustificare le immagini e gli esempi da lui usati per descrivere le visioni ineffabili del Paradiso. Ciò non significa che egli degradi tali visioni al livello di una semplice finzione poetica: non si tratta di una riduzione della teologia a poesia, ma di una promozione della poesia a teologia.
Francesco Zambon è professore emerito dell’Università di Trento. Ha dedicato i suoi studi alla letteratura allegorica e religiosa del Medioevo latino e romanzo, alla narrativa francese medievale, ai trovatori, alla mistica amorosa dei secoli XII e XIII, alla dottrina e ai testi catari, alla letteratura italiana delle origini e alla poesia contemporanea italiana ed europea. Fra le sue pubblicazioni più recenti: Bestiari tardoantichi e medievali. I testi fondamentali della zoologia sacra cristiana (Bompiani, 2018), La mistica cristiana (Mondadori, 2020-21).