
Un’altra ricorrenza di enorme rilevanza è lo Yom Kippur, il Grande Giorno dell’Espiazione, nel quale il popolo ebraico può ricevere il perdono dei peccati e la totale riconciliazione con Dio. Oltre a queste ricorrenze maggiori, ve ne sono altre minori, come la festa di Rosh ha-Shanà, il Capodanno ebraico; Ḥannukkà, che celebra la vittoria dei Maccabei e la ri-dedicazione del Tempio di Gerusalemme, profanato da Antioco Epifane IV; la festa di Purim, il cosiddetto «Carnevale ebraico», che commemora la salvezza del popolo ebraico grazie all’intercessione della regina Ester. Oltre a queste feste, non si può non menzionare la «festa settimanale» del popolo ebraico, lo Shabbat («Sabato»), che tuttavia non ho trattato nel libro che ho pubblicato, perché prevedo di farne una ricca esposizione in un prossimo volume.
Quali riti si compiono in tali ricorrenze?
Sintetizzare in poche frasi la ricchezza dei riti che si compiono in tali ricorrenze è impossibile. Nel libro si evidenzia la differenza tra i riti che si svolgevano quando ancora il Tempio di Gerusalemme era in piedi, vale a dire prima della sua distruzione nel 70 d.C., e i riti che si celebrano oggi in sinagoga e nella casa: vi è stato uno sviluppo delle feste e dei riti. Qui posso solo soffermarmi sull’elemento principale delle feste che è rimasto comune nella storia del popolo ebraico.
Per quanto concerne Sukkot, il precetto principale della festa, dal tempo di Gesù fino ad oggi, è la costruzione della tenda (sukkà) e il dimorare del popolo in essa, per ricordare che è sempre pellegrino e per celebrare la meraviglia di Dio che ha abitato in una tenda con il popolo, all’epoca dell’Esodo, donando al popolo protezione, acqua, cibo e luce; il suono dello shofar («corno»), è caratteristico di questa festa e costituisce una mitzvà, un «precetto», che si trova già nella Scrittura. In Pesaḥ (Pasqua), fondamentale è il seder pasquale, il rito della cena, nella quale si fa memoriale (zikkaron) delle meraviglie dell’uscita dall’Egitto e il dono della libertà, ricordando la storia della salvezza in una cena familiare, nella quale elementi basilari sono l’agnello (all’epoca del Tempio), il pane azzimo (si deve eliminare ogni tipo di lievito prima della festa), le erbe amare e il vino della libertà. In Shavu‘ot (Pentecoste) è il rinnovamento dell’Alleanza e il dono della Torah a costituire il centro della festa. Nello Yom Kippur, i riti di penitenza, il riposo assoluto, le richieste di perdono, il digiuno e la preghiera in sinagoga costituiscono gli elementi essenziali. La festa di Rosh ha-Shanà prepara proprio il giorno di Yom Kippur: non si tratta di un Capodanno pagano, ma di una festa austera, mediante la quale si comincia l’anno con la teshuvà, il ritorno a Dio. In Ḥannukkà, il rito principale prescritto è l’accensione per otto giorni della Ḥannukkià, il candelabro tipico della festa, e la sua esposizione alle porte e alle finestre della casa, per celebrare la vittoria miracolosa della fede sul paganesimo, la dedicazione del Tempio e la riaccensione della Menorà per opera dei Maccabei. Quattro sono le mitsvot («precetti») da osservare a Purim: la lettura della meghillà («rotolo») di Ester, il banchetto di festa, lo scambio di regali, l’offerta di doni ai poveri; in tale festa, pertanto, si gioisce, si proclama il libro di Ester con attiva partecipazione dell’assemblea e ci si traveste (per questo la festa è nota come «Carnevale ebraico») secondo i diversi personaggi del libro di Ester.
In che modo la liturgia ebraica trova il suo compimento in Gesù Cristo?
Nel libro ho inteso presentare le più importanti ricorrenze ebraiche, sopra menzionate, evidenziando alcuni tratti della liturgia ebraica non solo antica ma anche attuale, e mostrandone il compimento in Gesù Cristo. Vorrei insistere sul fatto che l’Ebraismo, in tutta la sua ricchezza, va conosciuto e amato di per sé, e non solo come fonte e radice del Cristianesimo. Nei miei quindici anni di soggiorno in Terra Santa, in cui ho avuto il dono di imparare l’ebraico e l’arabo, approfondendo peraltro la rispettiva cultura dei due popoli, ho partecipato a numerosi incontri di profondo dialogo e amicizia tra arabi, ebrei e cristiani. Ho grande rispetto e sincero amore verso i nostri fratelli ebrei e la loro identità specifica. Non si può d’altra parte negare che, per noi cristiani, è fondamentale conoscere non solo l’Antico Testamento, ma anche le istituzioni, la tradizione e la liturgia ebraiche, al fine di comprendere il Nuovo Testamento, l’evento-Cristo, le istituzioni, la liturgia e la fede della Chiesa. Là, in Gerusalemme e nel popolo ebraico, «siamo nati» e sono «tutte le nostre sorgenti» (cf. Sal 87,6.7). Da là parte ogni rinnovamento della Chiesa. Per tale ragione, nel mio libro tento di rifuggire tanto da un’errata «teologia della sostituzione», quanto da un «conciliante silenzio» sulla novità costituita da Cristo.
In che modo la conoscenza della tradizione e della liturgia ebraiche possono contribuire ad arricchire l’identità cristiana?
Gesù di Nazaret, la Santa Vergine Maria, San Giuseppe, i primi apostoli e gli autori del Nuovo Testamento erano tutti ebrei religiosi. Essi conoscevano e vivevano le feste ebraiche, facevano parte della loro formazione, cultura, fede, vita e anima. Noi cristiani non potremo mai trascurare che Dio abbia eletto il popolo ebraico e, solo mediante esso, tutte le genti. La sua elezione è irrevocabile. Essi possiedono «l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne» (Rm 9,4-5).
Il decreto conciliare Nostra Aetate ha affermato «il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo». Si tratta di un legame speciale, che il cristianesimo non ha con nessun’altra religione. I padri conciliari affermano che tale vincolo è rilevato «scrutando il mistero della Chiesa». Si tratta, cioè, di qualcosa d’intrinseco all’essenza cristiana e alla Chiesa. La Chiesa, dunque, non può trascurare la mediazione del popolo ebraico nella ricezione dell’Antico Testamento: ciò presuppone l’idea che la Sacra Scrittura, lungi dall’essere «piovuta dal cielo», benché indubbiamente divina e ispirata dallo Spirito Santo, sia stata consegnata alla fede viva di quel popolo. Se è vero che occorre riconoscere l’identità propria e rispettare le tradizioni proprie degli ebrei, esiste una grande eredità comune.
Il nostro interesse verso l’Ebraismo non è meramente «archeologico». Se la conoscenza dell’Ebraismo all’epoca del secondo Tempio è di capitale importanza per la comprensione del Nuovo Testamento, della vita e della liturgia della Chiesa primitiva, non va trascurata la conoscenza della fede ebraica così com’è vissuta al presente, poiché essa può illuminare alcuni aspetti della vita odierna della Chiesa. Dobbiamo sinceramente riconoscere di essere ancora molto indietro in questo cammino, giacché vari fedeli cristiani non solo ignorano la vita religiosa ebraica attuale, ma la guardano persino con una certa diffidenza. Non ci interessa, pertanto, solo lo studio storico dell’antico Israele, ma anche la conoscenza della liturgia ebraica attuale.
Tutto ciò, già affermato chiaramente dal Magistero di vari Pontefici, è stato ribadito da Papa Francesco, che ha dichiarato nell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013), n. 247: «Uno sguardo molto speciale si rivolge al popolo ebreo, la cui Alleanza con Dio non è mai stata revocata, perché “i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,29). La Chiesa, che condivide con l’Ebraismo una parte importante delle Sacre Scritture, considera il popolo dell’Alleanza e la sua fede come una radice sacra della propria identità cristiana (cf. Rm 11,16-18). Come cristiani non possiamo considerare l’Ebraismo come una religione estranea, né includiamo gli ebrei tra quanti sono chiamati ad abbandonare gli idoli per convertirsi al vero Dio (cf. 1Ts 1,9). Crediamo insieme con loro nell’unico Dio che agisce nella storia, e accogliamo con loro la comune Parola rivelata».