
Ciò premesso, per iniziare a entrare nel merito della domanda e più in generale della problematica affrontata nello studio, direi che dalla metà del Duecento circa in avanti, l’Italia si articola in strutture economiche molto differenziate tra loro e in spazi commerciali non meno diversificati, anche se poi in ultima analisi collegati. In qualche caso, siamo di fronte a quanto di più moderno e poderoso l’economia dell’epoca fosse riuscita a costruire; in altri, a realtà che in certo senso seguono al traino gli stimoli provenienti dalle maggiori.
Quali macroaree, a diversa vocazione e a differente propulsione mercantile e produttiva, è possibile individuare sul territorio della penisola?
In particolare, ritengo si possano individuare tre macroaree, all’interno dello spazio costituito dalla penisola italiana: la prima, è quella triangolare e irregolare delimitata dai vertici ove si trovano i più grandi centri commerciali dell’epoca: vale a dire in primo luogo l’asse Pisa-Firenze, che io considero come una sorta di megalopoli unitaria e collegata, in secondo Genova e in terzo Venezia. Questi grandi porti, sorta di enormi casse di risonanza, attraverso le loro relazioni amplificano la domanda, e quindi provocano un notevolissimo sviluppo del mercato, mettendo in comunicazione le produzioni delle città che gravitano su di esse con i maggiori empori del mondo conosciuto: Costantinopoli, il Mar Nero, l’Asia Minore, il Levante, Cipro, l’Egitto, l’Africa Settentrionale, la penisola iberica e ancora l’Inghilterra e le Fiandre. I mercanti delle maggiori città italiane, Venezia, Firenze e Genova in testa (Pisa solo fino al principio del Trecento), coprono insomma con la loro presenza tutto lo spazio che va dall’Inghilterra centrale almeno alla Persia e alla Russia meridionale. Essi sono i costruttori di quella che è stata definita, proprio in relazione all’ampiezza del raggio d’azione, l’economia-mondo.
Venezia allora, per esempio, forte di queste sue relazioni e della sua eccezionale posizione geografica, attira come una calamita le economie di molte città padane, che trovano nel suo mercato uno sbocco straordinario: Bergamo, Brescia, Mantova, Verona, Vicenza, Padova, potendo contare su comodissime e funzionali idrovie, vi trasportano così i loro panni, i loro prodotti siderurgici, le loro derrate agricole, certe che vi troveranno facile smercio; e vi acquisteranno panni fiamminghi o spezie orientali. Se insomma Venezia o Genova rappresentano le arterie del grande sistema economico mondiale, le città appena menzionate ne costituiscono il sistema venoso: collegano cioè gli spazi locali all’economia-mondo, svolgendo quindi una funzione di mercati intermedi.
A sud e a nord di questo spazio ve n’è un altro, meno ricco e sviluppato ma che del pari gravita sugli scali dell’economia-mondo: esso appare delimitato dall’asse longitudinale Siena-Rimini a nord e Salerno-Barletta o Bari a sud. Vi fanno parte però anche le città dell’area pedemontana, come Bolzano o i centri friulani, e quelle del Piemonte, specie occidentale. La partizione tra le macroaree, quindi, non risponde a criteri rigidamente geografici ma è relativa alle funzioni economiche svolte dalle varie zone economiche. Questo spazio appare ugualmente attirato dai mercati fiorentino-pisano o veneziano ma ne è più lontano e perciò non dispone di capitali liquidi altrettanto ingenti. I centri commerciali che vi fanno parte, quindi, si affidano alle fiere stagionali (fiere pressoché assenti, perché inutili, nella zona di maggiore sviluppo economico e commerciale, che è in realtà un mercato continuo, una fiera permanente) per racimolare denaro. Il sistema delle fiere consente infatti di ottenere a credito per esempio panni fiorentini, saldando il debito contratto, in denaro o in altre merci, magari dopo la fiera di Salerno o di Barletta, Lanciano, Recanati, Fano, Pesaro o Rimini. Le fiere, consapevolmente organizzate a breve intervallo di tempo l’una dall’altra, costituiscono insomma, nel loro insieme, un sistema di compensazione finanziario, e attirano piccoli e medi mercanti anche da molto lontano. Troviamo per esempio numerosi gli Amalfitani alla fiera di Salerno ma anche a quella di Barletta e Recanati. In ogni caso, così come avviene nell’area padana, anche le derrate agricole, il pesce, il sale, il bestiame etc. dell’area più a mezzogiorno, finisce per lo più a Venezia, trasportatavi dai porti adriatici, dove si convoglia la produzione dell’entroterra romagnolo, umbro e marchigiano, a opera dei piccoli mercanti locali: fanesi, pesaresi, riminesi, ravennati.
Ancora più a sud si trovano aree interne e costiere caratterizzate dalla scarsa disponibilità sia di capitali che di approdi sicuri. Si tratta di una zona (quella costituita dalla Puglia e dalla Campania meridionali e soprattutto dalla Lucania e dalla Calabria) che fatica a entrare in rapporto con gli scali dell’economia-mondo anche meno remoti, come Napoli o Messina, toccati dai grandi mercanti italiani. Fatica ma non ne è del tutto esclusa. Fiorentini, Pisani, Genovesi, Veneziani, frequentano per esempio anche i porticcioli di Tropea o di Crotone ma non lo fanno regolarmente: questi scali non rientrano cioè nel sistema organizzato dei traffici e sono toccati solo episodicamente da singoli operatori di medio o basso livello. Il vino ‘greco’ di Tropea, quello rosso di Crotone e il bestiame calabrese trovano comunque sbocchi sui mercati maggiori.
Sulla Sicilia, che è a sua volta un microcosmo, sia pure strettamente collegato a tutti gli empori mediterranei, bisognerebbe fare un discorso a parte, che il lettore troverà comunque almeno abbozzato nel libro. In questa sede andremmo troppo per le lunghe, se ci provassimo ad affrontarlo, e rischieremmo inoltre facilmente di ingenerare confusione.
In che modo tali aree erano tra loro collegate e quale funzione svolgevano a riguardo i grandi approdi del traffico internazionale come Venezia e Genova?
Credo che la risposta alla precedente domanda contenga anche quella relativa a questa terza. Firenze-Pisa (Pisa diventa quasi una succursale di Genova, a un certo punto, rispetto alla quale è però meglio collocata) e Venezia sono delle potentissime calamite. Come la fede per gli evangelisti sposta le montagne, così per esempio Venezia sposta i centri abitati o li fa sorgere: pensiamo a Porto Buffolè o a Pordenone (Portus Naonis, vale a dire porto sul fiume Noncello), scali che sorgono proprio per intercettare le vie del traffico fluviale per e da Venezia; o a Portogruaro e Porto Latisana, che nascono per il trasferimento lungo il corso del Tagliamento degli abitanti dei preesistenti villaggi di campagna di Gruaro e Latisana. Tutti quelli che ho definito mercati intermedi, quindi, svolgevano la funzione di convogliare le produzioni locali (i prodotti agrari, il ferro o il sale che fossero) e di trasferirle sullo scalo dell’economia-mondo, che ne garantiva lo smercio nel modo più vantaggioso.
Quale funzione svolgevano le compagnie fiorentine e in che modo esse costruirono di fatto un vero e proprio modello economico capitalistico?
In questo quadro spicca e si differenzia il ruolo dei Fiorentini. Se Genovesi e Veneziani si limitano a svolgere funzioni di trasporto lungo segmenti retti (da Venezia a Costantinopoli o ad Alessandria, per esempio), toccando lungo la loro rotta solo gli scali principali, i Fiorentini coprono con le filiali delle loro compagnie tutto lo spazio intermedio che si trova tra i grandi centri. Li troviamo così ovunque: in tutte le città sin qui menzionate, per esempio, ma anche in moltissimi centri minori. Nel piccolo spazio friulano, per esempio, vi sono loro insediamenti a Cividale, Udine, Gemona e Spilimbergo, oltre ovviamente a Trieste e a Gorizia, che però non sono in Friuli. Non a caso di loro si dirà, per la loro ubiquità e l’importanza della loro funzione connettiva, che costituiscono il quinto elemento del mondo. La loro interpretazione dello sviluppo commerciale è dunque senz’altro più moderna e lungimirante di quella di chiunque altro, all’epoca. Il loro operare assomiglia infatti più a un ovale o a un circolo che a segmenti. Questo perché essi seguono tutte le fasi della produzione e del commercio, dal reperimento della materia prima alla fattura del prodotto e allo smercio su tutti i mercati toccati. Essi vanno a prendere per esempio la lana a Lincoln, nell’Inghilterra centrale, o a L’Aquila; la trasportano nei vari centri di produzione italiana, Firenze in testa; smerciano il prodotto finito lungo tutti i mercati intermedi nei quali sono insediati; ne trasportano parte Oltremare attraverso Pisa e le navi genovesi e attraverso Venezia; acquistano poi in cambio ciò che le produzioni locali possono offrire e le trasportano a ritroso lungo le medesime vie e rotte, chiudendo il cerchio. Essi, in tal modo, lucrano su tutte le fasi di passaggio, su tutta la filiera economica, controllando integralmente il ciclo produttivo e distributivo sia all’andata che al ritorno; e lucrano anche sul cambio e sul prestito, giacché offrono al potenziale acquirente di che pagare l’offerta, se quello è sprovvisto al momento di contropartita. Esemplare, in tal senso, il percorso che li porta in Friuli allo scambio tra prodotti tessili e grano locale. Grano di cui i Fiorentini tenderanno a diventare monopolisti, con tutto quel che ne consegue, anche a livello politico. Io non ho dubbi, insomma: i Fiorentini hanno inventato il capitalismo moderno, industriale, commerciale e finanziario.
Bruno Figliuolo è professore ordinario di Storia Medievale presso l’Università degli Studi di Udine