
Si tratta di un motivo noto come mostrano l’archivolto della porta della Pescheria di Modena, le tracce nella Vita Gilda (1136) di Caradoc di Lancarfan e ancora il riferimento che si legge ne lo Chevalier au Lion, vv. 3706-3713, dove però il protagonista della Queste è Galvano.
Andrà precisato che l’ipotesi che Chrétien conoscesse una serie di storie intorno al personaggio trova conferma nel contemporaneo Lanzelet di Ulrich Von Zatzikhoven scritto intorno al 1194 dove nell’epilogo l’autore afferma di avere seguito fedelmente un modello francese giunto nelle sue mani grazie a un nobile francese, ostaggio dell’imperatore tedesco: Ugo di Morville.
La critica si è a lungo interrogata se Ulrich avesse di fronte un modello strutturato o viceversa abbia ripreso e variamente rielaborato temi e motivi circolanti all’epoca. Se la risposta è allo stato degli studi destinata a rimanere inevasa, appare tuttavia chiaro che la trama di fondo presenta elementi che affioreranno nel successivo Lancelot en prose, ma che, con un qualche margine di probabilità, potremmo ritenere appartenenti ad un nucleo leggendario.
Quale diffusione ebbe il Lancelot en prose?
La fortuna dell’opera è ben documentata dalla ricchissima e articolata galassia manoscritta che sfiora i 100 testimoni e che si snoda ininterrotta per almeno tre secoli per poi consegnarsi alle stampe, una lunga durata durante il quale il testo ha assunto fisionomie diverse sia per quel che riguarda il suo assetto materiale, sia per i criteri di selezione adottati dai compilatori e ancora sul piano della diverse redazioni della storia veicolate nei testimoni. In particolare il Lancelot en prose godette di particolare fortuna in Italia, soprattutto lungo l’asse pisano genovese fondamentale polo di diffusione della tradizione arturiana, nella zona emiliana (e in particolare Bologna), in Toscana e nella zona compresa fra Piemonte e Liguria. Grande fortuna, dovette godere anche in area iberica come ci documentano le riscritture catalane, castigliane e galego portoghesi.
Come si articolò la tradizione manoscritta del ciclo arturiano?
Possiamo dividere il Lancelot en prose, recuperando partizioni presenti anche nei manoscritti, tra Lancelot propre, dove si narra il trionfo di Lancillotto come il più grande dei cavalieri e amante della regina fino al concepimento del figlio eletto, la Queste che si concentra sul personaggio del figlio di lui: il purissimo Galaad e la Mort Artu, vero e proprio crepuscolo del mondo arturiano. A questa triade verranno poi aggiunti, in un secondo momento, con funzione di preambolo, l’Estoire du Sainte Graal, il Merlin e una Suite Merlin. Si tratta dunque di un ciclo formatosi nel tempo grazie all’abile lavoro dell’architetto o degli architetti che nel tempo sono intervenuti sui testi che lo compongono per costruire raccordi, richiami, riprese e creare una configurazione il più possibile coerente delle unità narrative la cui coesione, pur nella differenza di gusti e sensibilità, è certamente garantita dall’approccio biografico.
Quali diverse direzioni prese, nel tempo, la storia dell’eroe?
Se osserviamo con attenzione la tradizione manoscritta osserviamo che sono tre le direzioni della storia. Una, a mio avviso la più antica, propone un Lancelot di forte impianto cronachistico legato al Merlin e destinato ad arrivare fino al trionfo di Lancillotto, come amante e come cavaliere, l’altro dove si intravede un tentativo di raccordo con quanto narrato nel Merlin, e infine il ciclo completo. La storia di Lancillotto si inscrive dunque sin dalla sua genesi in un progetto che concepisce la storia profana come parte integrante di un più ampio progetto di salvezza che doveva concludersi con il Graal, inaugurando una linea destinata poi a trovare la sua manifestazione compiuta nella potente architettura del ciclo del Lancelot-Graal.
Che rapporto ebbe Dante con la tradizione arturiana?
Com’è noto, in De Vulgari Eloquentia I, X, 2, Dante riconosce nella lingua d’oil il veicolo privilegiato per le grandi compilazioni storiche e per i romanzi arturiani, quelle ambages che possono essere definite con Picone come «narrazioni di avvenimenti il cui livello letterale è cortex o velamentum di un un significato più profondo», e pulcherrimae perché tali da esercitare uno straordinario fascino sul lettore. Ora in latino ambages significa oltre che “modo enigmatico di parlare” come confermato anche dal luogo di Pd 17, 31, anche “cammino tortuoso”.
Dante sembra dunque attribuire a queste storie una pluralità di sensi, una densità semantica che diviene causa ed effetto di un procedere intrecciato, labirintico, che rischia di smarrire il personaggio e il suo lettore. Di questo universo narrativo Dante esibisce nella Commedia richiami espliciti che ne rivelano una conoscenza puntuale e che si concentrano su due luoghi specifici: 1. La rivelazione dell’amore fra Lancillotto e Ginevra (If 5, 127-138 e Pd 16, 14-15). 2. Il precipitare della storia con la morte di Artù tradito dal figlio Mordred (If 32, 62-63). In particolare molto è stato scritto su quel bacio che, in un gioco di raffinata emulazione con il libro “Galeotto”, perde Paolo e Francesca. Credo tuttavia che valga ancora la pena di riflettere sul fatto che il bacio in entrambi i casi rappresenta quell’istante fatale che svela e dà nome a ciò che prima si affidava ai “dolci sospiri”, quel punto di non ritorno dotato di una potente forza distruttiva sia per gli equilibri della corte arturiana che per il destino eterno di Paolo e Francesca. È un attimo, un “punto che vince” ma che solo Galeotto da un lato e le pagine del libro che narrano gli antefatti della vicenda dall’altro rendono possibile. In questa direzione credo che Dante, da attento lettore, colga molto bene come il vero protagonista dell’episodio sia proprio Galeotto. Il richiamo al suo nome non è tanto il livre Galehaut che segna in molti manoscritti l’avvio di una sezione, quanto il suo essere il sofferto artefice della relazione fra i due.
Per quanto riguarda il passo di If 32, si tratta di una ripresa letterale dalla Mort Artu, e in particolare dall’episodio che segna la conclusione drammatica della storia, una conclusione generata a monte proprio dal famoso bacio, da quell’adulterio che ha privato Artù della protezione del primo dei suoi cavalieri esponendolo alle insidie dei nemici interni. Ma riaffiora anche una colpa antica, quell’incesto che, seppur inconsapevolmente aveva unito Artù alla moglie di re Lot, sua sorellastra. Mordred dunque non è solo un “ traditore di parenti”: come Dante sapeva, non siamo di fronte solo a un padre e un figlio che si massacrano, ma un figlio nato da un incesto e che, come se non bastasse, ha scatenato questa guerra e questa carneficina per strappare la terra e la donna a suo padre. Come avviene nel V canto, è un richiamo appena alluso che risponde alla funzione di rompere il legame fra la colpa e uno spazio tutto municipale, di evocare quel mondo letterario che precipita proprio per la violenza e il tradimento fra congiunti.
Dalle storie arturiane, dunque, Dante può ricavare esempi preziosi per affrontare due peccati dalle ricadute devastanti: sia l’amore senza ragione che il tradimento dei familiari sono, infatti, colpe tali da produrre un esito tragico sul piano sociale, soprattutto quando si consumano fra personaggi d’alto rango.
Non sfugga tuttavia che in altri passi danteschi ed in particolare del noto passo di Convivio IV, XXVIII, 8, Dante esalta la scelta di Lancillotto, ormai giunto alla maturità, di volgere le vele verso altri porti, così da imprimere alla propria vita un senso nuovo.
Dante dunque riconosce alla letteratura romanza d’oltralpe, sia sul versante lirico che narrativo, la possibilità di veicolare un principio per lui fondamentale: ognuno è chiamato a percorrere un cammino alla ricerca di una meta, della conquista di un senso, ricerca lunga e complessa che presuppone una con-versione, mutamento di stile di vita e conquista di una mentalità nuova che non rinneghi il passato, premessa del presente, ma lo disponga su una linea diversa che riconosca in Dio la base e il vertice della propria esistenza.
Arianna Punzi, dal 2006 è professoressa ordinaria di Filologia romanza presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, Università di Roma. Si è occupata principalmente di romanzi tristaniani in antico francese, e della loro ricezione anche in altre aree linguistiche, con particolare attenzione ai volgarizzamenti di area italiana. Parallelamente ha dedicato indagini recenti al “Lancelot en prose”, ha studiato la trasmissione di letteratura classica nel Medioevo latino e romanzo, concentrandosi soprattutto sulla materia tebana e su quella troiana. Ha dedicato alcuni lavori alla Commedia di Dante Alighieri, con particolare riguardo all‘aspetto metrico. È stata Direttrice del Dipartimento di Studi Europei, Americani e Interculturali e Presidente della Società italiana di Filologia romanza. Attualmente fa parte del Direttivo della SIFR scuola. È Direttrice responsabile della Rivista “Critica del Testo” e Presidente della Società Filologica romana. È Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza”, Università di Roma.