“Alfabeto arabo-persiano. Quando le parole raccontano un mondo” di Giuseppe Cassini e Wasim Dahmash

Amb. Giuseppe Cassini, Lei è autore con Wasim Dahmash del libro Alfabeto arabo-persiano. Quando le parole raccontano un mondo edito da EGEA. L’alfabeto e la lingua araba affascinano e intimoriscono per la loro diversità: la loro complessità rappresenta una chiave di lettura per i mondi arabo e persiano?
Alfabeto arabo-persiano. Quando le parole raccontano un mondo, Giuseppe Cassini, Wasim DahmashÈ vero, tanto l’alfabeto quanto la lingua araba “affascinano e intimoriscono” i profani.
L’alfabeto arabo affascina e intimorisce per vari motivi: benché appartenga allo stesso ceppo fenicio da cui provengono l’aramaico, l’ebraico, ecc. fino all’alfabeto latino (e rappresenti quindi una notevole semplificazione rispetto alle scritture cuneiforme e geroglifica), ha sviluppato nel tempo una raffinatezza calligrafica e una libertà espressiva che non ha eguali negli alfabeti europei. Tanto più che l’originario divieto islamico di raffigurare la Divinità – e al limite la persona umana in quanto specchio del divino – ha indotto gli artisti a “sbizzarrirsi” sopratutto nella calligrafia. Al punto che solo gli esperti sono in grado di decifrare le frasi incise in eleganti forme convolute sui muri di palazzi e moschee, da Samarcanda fino a Granada e alla Cappella Palatina di Palermo. Ecco tre esempi:

Inoltre, è un alfabeto ricco di suoni, non tutti familiari all’orecchio di un europeo. Per una corretta resa fonetica gli arabi hanno dovuto inventare 28 lettere, più altri 14 segni grafici (a cui i persiani aggiunsero altre 4 lettere quando si islamizzarono e adottarono la scrittura araba).

A questa ricchezza di fonemi corrisponde anche una straordinaria ricchezza di vocaboli: forse un milione, originati da poche migliaia di radici di base, anche se molti sono caduti in disuso nel corso del tempo. Soltanto l’inglese moderno può vantare una tale varietà linguistica.Da quanto sopra non è facile rispondere alla domanda se “la complessità dell’alfabeto e della lingua araba rappresenti una chiave di lettura per i mondi arabo e persiano”. Ma una cosa è certa: per gran parte dei musulmani l’arabo, essendo la lingua del Corano, racchiude in sé un valore sacrale. Anzi, hanno valore sacrale le stesse lettere dell’alfabeto: a cominciare dall’Alif, che equivalendo al numero 1 simbolizza per molti l’unicità di Dio, il monoteismo.

Come ha scelto le parole chiave usate per raccontare aspetti salienti della vita nel mondo arabo? Quali termini del lessico arabo da Lei selezionato ritiene più rappresentativi della mentalità e della cultura arabe?
La scelta delle parole chiave ha costituito il primo passo di un lavoro che – senza l’apporto inestimabile di un linguista del livello di Wasim Dahmash – sarebbe rimasto lettera morta (mi si passi la battuta…). Pedalare in tandem arricchisce le rispettive sensibilità culturali, oltre a raddoppiare la velocità. Detto in breve, la sensibilità di Wasim era più letteraria, la mia più politica. Dunque, io ritenevo imprescindibile inserire parole come muqàwama (resistenza), irhàb (terrorismo), rahma (misericordia), tha’r (vendetta) e sopratuttojihàd, che molti confondono con harb (guerra) mentre significa letteralmente “sforzo”, sforzo per emendare e migliorare se stessi. Il mio coautore riteneva altrettanto imprescindibili parole come balàgha (eloquenza), wahda (unità), kitàb (libro), jàhiliyya (età dell’ignoranza, ossia l’epoca pre-islamica) e così via.

Molti termini possono apparire meno importanti, meno “alla mano” di altri a rappresentare mentalità e cultura araba. Non é così, secondo noi. I vocaboli prescelti costituiscono tutti assieme i muri portanti dell’edificio culturale arabo: si potranno individuare delle manchevolezze – dovute alla necessità di attenerci a due parole chiave soltanto per ogni lettera dell’alfabeto (eccetto Alif, che ne richiede tre) – ma nel suo complesso l’edificio ci sembra stare in piedi.
Tra quella sessantina di voci ce n’è un paio, peraltro, che corrisponde a due Paesi invece che a concetti: Lubnàn (Libano) e Filastìn (Palestina). Come mai? Detto in sintesi: il Libano è un Paese chiave, perché è l’unico in grado di spiegare l’Oriente all’Occidente e l’Occidente all’Oriente. Quanto alla Palestina, è un Paese chiave perché rappresenta il nodo gordiano che tiene l’intero Medio Oriente legato a una guerra senza fine.

Quali termini ritiene “intraducibili”, in quanto marcano le differenze tra la nostra cultura e quelle araba e persiana?
Domanda particolarmente felice. Infatti, uno dei motivi che mi hanno spinto a proporre a Wasim di scrivere l’ “Alfabeto arabo-persiano” è stato proprio questo: tentare di “tradurre” e quindi rendere comprensibili a noi italiani dei concetti chiave appartenenti prettamente alla cultura araba (o persiana). Sono parecchi.

Partendo dalla prima lettera: la parolaahlviene in genere tradotta con “famiglia”, ma in realtà ha un’accezione ben più larga, equivalente a quella di gensin latino.
Taqiyya – concetto fondamentale per capire la mentalità iraniana e sciita in generale – viene tradotta con “dissimulazione”, ma alla radice significa “cautela dettata dal timore” (di essere perseguitati in quanto fedeli di un credo minoritario). Di questo concetto erano stati edotti i negoziatori americani dell’accordo sul nucleare iraniano, in modo da poter recepire senza scomporsi le sottigliezze negoziali della controparte iraniana.
Altrettanto basilare in qualsiasi trattativa è il termine hudna (“tregua”). Secondo il diritto islamico, se una pace vera appare irraggiungibile, conviene accontentarsi di una hudna, di durata stabilita al momento della firma. Trattandosi di un impegno sacro, infrangerlo equivarrebbe a uno spergiuro e quindi a mettersi al bando dalla comunità dei credenti. Nella storia dell’Islam non si ricordano casi di rottura ingiustificata di una tregua; e forse l’Occidente si sarebbe risparmiato qualche guerra, se avesse studiato meglio il diritto islamico.

Altro esempio: ‘almaniyya (“laicità”) è un neologismo mutuato dall’Europa a fine ‘800 per esprimere un principio fin allora ignoto a sistemi politici dove Dìn wa Dawla (Religione e Stato) erano sempre state un’endiadi inseparabile. Fitna, al contrario, è un termine pregnante del mondo arabo-islamico. All’origine significava la “prova del fuoco” per verificare la purezza di un metallo: da cui il concetto di “prova” e infine, con un ulteriore slittamento semantico, fitna diventa sinonimo di “discordia, caos, disordine”, anche “guerra civile”: in una parola sola tutto ciò che è negativo per la concordia civile. «Temete la fitna, perché non insidierà soltanto gli ingiusti» si legge nel Corano.

Su quali basi è possibile, a Suo avviso, un incontro tra la cultura araba e quella occidentale?
Sull’onda emotiva dell’11/9/2001 e della catastrofica guerra all’Iraq, proposi al Ministero degli Esteri di assumere l’iniziativa di istituire un Forum Permanente Euro-Islamico dedicato a ricomporre le fratture in atto tra le due civiltà. Senza entrare ora nei dettagli, una formula appropriata mi pareva quella di riunire in un Forum di qualificati “opinion leaders” con vasto seguito nella società civile. In molti Paesi musulmani, infatti, i governi non godevano e non godono del credito fruito invece dagli esponenti religiosi e civili delle comunità locali.

Una prima sessione avrebbe dovuto sgombrare il campo dalle incomprensioni reciproche: quali da un lato l’accusa di neo-colonialismo contrabbandato come missione modernizzatrice; dall’altro lato, l’accusa di lassismo verso l’integralismo islamico predicatore di violenza. Il Forum si sarebbe occupato anche dei diritti dell’Islam in Europa e della tutela della presenza cristiana nei Paesi musulmani. E per incidere in profondità, si sarebbe messa in agenda una delle questioni più cruciali del mondo islamico: la separazione del potere religioso da quello civile. All’interno di questo schema, infine, si sarebbe riservato uno spazio limitato al bacino del Mediterraneo, per un “confronto ravvicinato” sui temi di più specifico interesse locale.
La proposta atterrò nel 2004 sul tavolo del ministro degli Esteri Frattini, e da lì finì in un cassetto, assieme ad altre certamente di maggior interesse di quella.

Lei ha trascorso molti anni nelle sedi diplomatiche del nostro Paese in paesi arabi: quale bilancio ha tratto del Suo incontro con la cultura araba?
Sopratutto ho imparato molto. Una risposta alla domanda si trova nei tanti riquadri inseriti nell’ “Alfabeto arabo-persiano”, che raccontano episodi di vita vissuta a contatto con la realtà arabo-islamica, dal Libano affluente fino alla disastrata Somalia. Per ragioni di spazio, mi limito qui a citarne uno, con questa premessa.

Un pregio caratterizza la civiltà araba fin dalle origini e non viene mai meno, cascasse il mondo: è l’educazione formale. Non mi riferisco al banale saluto as-salàm ‘alaykum, che può ridursi a un “salamelecco”, quanto alle civilissime maniere con cui gli arabi rivolgono domande o rispondono in ogni occasione, al caffè come in mezzo al deserto, a un tavolo negoziale come in un bagno turco. Gli stranieri non smettono di stupirsi dell’inesauribile cortesia con cui vengono accolti perfino sotto un bombardamento o nel mezzo di un inestricabile ingorgo stradale.

«Nel 1997, in una Mogadiscio semidistrutta dalla guerra civile, ci trovavamo in un punto della città dilaniato da scontri a fuoco tra fazioni avversarie. Giunti a un incrocio, le guardie del corpo ci spinsero bruscamente fuori dalla jeep raccomandando di restare accucciati sotto un muretto. In quell’attimo partirono tiri incrociati dai due lati della strada che stavamo per imboccare. Salvati grazie al fiuto delle guardie del corpo, ce ne stavamo là sotto al sicuro (o quasi) dalle pallottole che fischiavano attorno a noi, allorché vediamo arrivare da dietro un anziano somalo, alto e signorile. «Ambasciatore, che piacere incontrarLa! – mi saluta cerimoniosamente – Lei sa che sono laureato a Padova e proprio l’altro giorno mi chiedevo come mai non arrivano più dall’Italia le borse di studio per i nostri studenti». Accucciato com’ero e piuttosto inquieto per la nostra pelle, farfugliavo risposte evasive dal basso verso l’alto, mentre il distinto docente restava in piedi, incurante della sparatoria, a perorare la causa delle sue borse di studio. Nel corso di quel dialogo surreale non dismise neppure per un attimo la sua olimpica cortesia (e con pari cortesia fu risparmiato dalle pallottole che continuavano a fischiare).»

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