
Vi sono, innanzitutto, alcune norme costituzionali: l’art. 51, c. 1, Cost. prevede che «tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge» ; inoltre, l’art. 98, c. 1, Cost., stabilisce che «i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione» e l’art. 54, c. 2, Cost., che «i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge». In particolare, l’art. 51 della Costituzione sembrerebbe riservare ai soli cittadini l’accesso agli uffici pubblici. Infatti, l’articolo 51 fa riferimento ai “cittadini” e non usa un’espressione più ampia (come ad esempio “chiunque”), in tal modo delimitando espressamente la sua portata ai sili cittadini italiani.
Tuttavia, non è detto che tale norma “riservi” ai cittadini italiani l’accesso alla funzione pubblica, ben potendo, invece, limitarsi a “garantire” agli stessi tale diritto. Si tratta di un problema interpretativo, legato anche al contesto sociale, giuridico e culturale. Sintetizzando, si può dire che il principio della pari dignità per l’accesso ai posti ed impieghi pubblici fu affermato dalle carte dei diritti settecentesche a garanzia dei diritti dei cittadini, per superare le riserve ed i privilegi del passato. Poi, con l’affermazione dello Stato e dei nazionalismi nel corso dell’Ottocento, si è man mano rafforzato il legame tra i componenti della comunità e lo Stato ed i corrispettivi diritti e doveri, stabilendo il diritto esclusivo dei cittadini ad accedere agli uffici dello Stato.
Sulla base di questa concezione sono state emanate norme generali e speciali successive. In particolare, il requisito del possesso della cittadinanza italiana venne posto in via generale dal testo unico delle leggi sugli impiegati civili dello Stato del 1908, quindi, da quello del 1957, tuttora vigente.
Come si è evoluto storicamente il requisito della cittadinanza per l’accesso alla funzione pubblica?
Il requisito del possesso della cittadinanza è stato introdotto in epoca relativamente recente, come si è fatto cenno, ossia con i nazionalismi ottocenteschi.
In precedenza diversi erano stati gli approcci, con esperienze del passato che vanno dalla negazione anche dei diritti civili agli stranieri nel Medioevo fin alla preferenza degli stranieri per l’esercizio di determinate finzioni pubbliche, come quelle giudiziali, confidando sulla loro terzietà. Ne è di esempio la figura del podestà duecentesco (da non confondersi con quello del periodo fascista!) che veniva scelto tra i cittadini di città alleate e con l’incarico, di durata ben determinata e con poteri, più o meno ampi, di assicurare anche l’amministrazione della giustizia civile e penale e l’ordine nella città.
Che relazione esiste tra l’ordinamento dell’Unione europea e la riserva di cittadinanza per l’accesso agli impieghi pubblici?
I trattati europei del 1957 risentivano della concezione ancora dominante all’epoca ed accolsero la visione tradizionale che riconnetteva l’accesso alla funzione pubblica al requisito del possesso della cittadinanza, stabilendo una deroga espressa al principio della libera circolazione dei lavoratori con riferimento agli impieghi nella pubblica amministrazione.
Nel giro di pochi decenni, però, la Corte di giustizia europea, al fine di ampliare la libera circolazione nel mercato unico, stabilì che, come tutte le eccezioni alla libera circolazione, anche quella relativa all’accesso ai pubblici uffici andasse interpretata restrittivamente.
Con varie decisioni, dal 1980 in poi, la Corte di giustizia ha sempre più delimitato i casi in cui gli Stati membri possono legittimamente imporre il requisito del possesso della cittadinanza nazionale, restringendoli ai casi che, con una sintesi un po’ affrettata, possono essere ricondotti all’esercizio dei pubblici poteri ed alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche e che comportano l’esercizio di pubblici poteri. Insomma, ad un cittadino di un altro Paese dell’Unione europea non può essere negato l’accesso a posizioni di professore, assistente sociale od anche, come chiarito dal Consiglio di Stato italiano nel 2018, di direttore di un museo statale. Ma l’ordinamento europeo consente che per accedere all’impiego di funzionario di polizia o di diplomatico sia imposto il requisito di cittadinanza.
Come è possibile il superamento dei limiti illegittimi stabiliti dall’ordinamento italiano?
Nel 1993, il decreto legislativo n. 29, per adeguare l’ordinamento italiano alla giurisprudenza europea, ha stabilito che «i cittadini degli Stati membri della Comunità economica europea possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale». Norma che correttamente recepisce la giurisprudenza europea, ma che abbisogna di una esemplificazione, per essere facilmente applicabile dalle amministrazioni pubbliche, per esempio quando devono predisporre un bando di concorso.
A tal fine si è provveduto con un regolamento emanato con decreto del Presidente del Consigli dei ministri del 1994, che ha definito i “posti” e le “tipologie di funzioni” per il cui esercizio è richiesto il possesso della cittadinanza italiana. Tale regolamento, che non era neppure del tutto in linea con lo stato della giurisprudenza europea del momento, è man mano stata superata dall’evoluzione della giurisprudenza. È stata la giurisprudenza ad individuarne alcuni aspetti di illegittimità, stabilendo, in relazione alla vicenda dei direttori dei musei, che non è più possibile sottrarre tutte le funzioni dirigenziali pubbliche dall’apertura agli stranieri.
Qual è il quadro normativo vigente per l’accesso dei cittadini dei Paesi terzi alla funzione pubblica?
Per quanto riguarda i cittadini dei Paesi terzi (i cd. extracomunitari), da un lato, ve ne sono determinate categorie che godono – per effetto di specifiche norme europee – degli stessi diritti dei cittadini europei: familiari dei cittadini europei che si sono avvalsi della libertà di circolazione, soggiornanti di lungo periodo, rifugiati e titolari dello status di protezione sussidiaria.
Se tali categorie sono parificate dal diritto europeo ai cittadini degli altri Stati membri, rimangono categorie di stranieri che, sulla base della normativa vigente, non possono accedere al pubblico impiego, sulla base delle norme italiane che richiedono il possesso del requisito di cittadinanza. Vi è chi ritiene che le norme nazionali che impongono tale requisito siano in contrasto con alcune norme di diritto internazionale, ma la Sezione lavoro della Corte di Cassazione, in due occasioni, ha ritenuto la piena legittima del requisito. Ovviamente, laddove espressamente posto e non dove norme speciali non richiedano il possesso del requisito.
Come opera la riserva di cittadinanza in paesi come Francia, Regno Unito e Stati Uniti?
La riserva di cittadinanza è un elemento che contraddistingue molti dei diritti nazionali. Ma non vorrei dire di più, per lasciare al lettore la curiosità di leggere il libro.
Matteo Gnes è professore di Diritto amministrativo presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Urbino Carlo Bo. È autore di tre studi monografici (La scelta del diritto. Concorrenza tra ordinamenti, arbitraggi, diritto comune europeo, 2004; I privilegi dello Stato debitore, 2012; La decertificazione. Dalle certificazioni amministrative alle dichiarazioni sostitutive, 2014) e di oltre centocinquanta pubblicazioni in materia di diritto amministrativo, diritto pubblico e diritto dell’Unione europea.