
È realmente esistito il “paziente zero”?
Alla fine degli anni Ottanta, uno steward canadese venne additato dai media come l’uomo che aveva portato l’AIDS negli Stati Uniti. Dugas, questo era il suo nome, era morto di AIDS nel 1984 e le indagini epidemiologiche avevano dimostrato che aveva avuto rapporti sessuali con molti dei ragazzi colpiti per primi nell’epidemia americana. Dugas venne demonizzato e lo stigma ricadde anche sulla sua famiglia. Recentemente però alcuni ricercatori hanno dimostrato che il virus in realtà circolava in Nord America almeno dal 1970 e che era arrivato attraverso i Caraibi dall’Africa. Dugas era probabilmente solo uno dei tanti infettati prima che la malattia venisse riconosciuta come tale.
Come si giunse all’isolamento del virus?
A scoprire l’HIV fu una donna: Françoise Barré-Sinoussi. Lavorava nel laboratorio di Luc Montagnier a Parigi e un giorno del 1983 individuò il retrovirus nel linfonodo di un malato che stava analizzando. Il suo lavoro però viene spesso dimenticato, mentre ci si ricorda bene dei due scienziati che si contesero a lungo la paternità della scoperta: lo stesso Montagnier e l’americano Robert Gallo. La contesa scientifica diventò un fatto politico e si concluse nel 1987 con un accordo ratificato dai presidenti Reagan e Chirac, che decretarono l’attribuzione della scoperta del virus ex aequo ai due scienziati.
Nessun altra malattia come l’AIDS ha conosciuto tanto attivismo: come si è sviluppata la campagna di sensibilizzazione contro l’AIDS?
L’AIDS si diffuse inizialmente in occidente tra persone con comportamenti o caratteristiche particolari: omosessuali, tossicodipendenti, emofiliaci, persone che provenivano da Haiti. La reazione più pronta alla malattia però venne dalla comunità gay che era già organizzata in reti per via delle battaglie che aveva combattuto negli anni precedenti contro l’emarginazione sociale e il moralismo che li colpiva duramente. La liberazione omosessuale quindi fu la base su cui si costruì l’attivismo prima negli Stati Uniti e poi in Europa e nel resto del mondo. Le persone con HIV crearono gruppi di aiuto per sostenere le persone che si ammalavano, divennero protagoniste delle battaglie per i diritti, ma entrarono anche nelle decisioni e nell’organizzazione della ricerca, spesso dimostrando competenze molto alte. Fu in quel momento che nacque l’attivismo in medicina che caratterizza i nostri tempi.
Qual è la diffusione attuale dell’HIV?
I dati diffusi proprio in questi giorni dall’UNAIDS, l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa di HIV, in occasione della giornata mondiale che si svolge il 1° dicembre, dicono che nel 2016 vivevano nel mondo circa 36,7 milioni di persone con HIV, che 1,8 milioni si sono infettate nel corso dell’anno, che 1 milione sono morte e che quasi 21 milioni hanno avuto accesso alle terapie antiretrovirali. È un quadro di luci ed ombre. Se infatti da un lato è aumentato enormemente il numero di persone che oggi hanno accesso ai farmaci rispetto a solo qualche anno fa, notiamo però che il numero delle nuove infezioni scende molto più lentamente e anzi in alcune aree del mondo, come l’Asia e l’Est Europa, aumenta.
A che punto è la ricerca sulle cure per l’AIDS?
Nel luglio del 1996 nel corso di una conferenza a Vancouver venne annunciato che una terapia combinata dava miglioramenti spettacolari delle condizioni cliniche delle persone con AIDS. Da allora la terapia antiretrovirale ha permesso di abbattere il numero di morti per AIDS, almeno nei Paesi dove i farmaci sono disponibili. Purtroppo però, i farmaci sono in grado di sopprimere la replicazione del virus, ma non di eliminarlo completamente dall’organismo. Oggi i ricercatori stanno cercando di capire come scovare i virus che si nascondono nell’organismo delle persone con infezione da HIV per poi ucciderli definitivamente. Un altro approccio al problema è quello di trovare il modo di proteggere le cellule dall’ingresso del virus. Il vaccino, che per anni è sembrato una soluzione a portata di mano, sembra ancora di là da venire anche se numerosi scienziati nel mondo ci stanno lavorando.
Quale futuro per l’AIDS?
Non sappiamo quale sarà il futuro dell’infezione da HIV. Sappiamo però che uno dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU è porre fine all’epidemia di AIDS entro il 2030. Una sfida importante, che richiede non solo che si trovino farmaci migliori o nuovi vaccini, ma che si intraprenda un percorso veloce per portare i farmaci che già esistono laddove ancora non arrivano, come ad esempio in Africa. Lì, nonostante i grandi progressi ottenuti negli ultimi anni, ancora il 46% delle persone che dovrebbero prendere i farmaci non può farlo a causa di ostacoli politici, economici e culturali. E richiede anche che finalmente cada lo stigma che per anni ha circondato questa malattia e che, come sottolinea l’UNAIDS, è uno dei primi motivi della sua diffusione.