
In che modo i mercati finanziari possono divenire oggetto di analisi sociologica?
Dobbiamo forse chiederci innanzitutto per quale motivo i mercati finanziari non sono – o sono così poco – oggetto di analisi sociologica. La crisi degli ultimi dieci anni ha mostrato in modo evidente quanto contano dimensioni come la fiducia, la reputazione, le relazioni tra soggetti nel definire gli assetti economici e politici. Pensiamo ad esempio all’influenza che le variazioni dello spread hanno esercitato nel passaggio tra l’ultimo governo Berlusconi e il governo Monti nel 2011, oppure più recentemente nella formazione del nuovo esecutivo lega-5stelle. Dopo il voto del 4 marzo il dibattito politico è stato monopolizzato per settimane da riflessioni circa le possibili reazioni del sistema finanziario alle diverse opzioni in campo, da un governo di larghe intese a un esecutivo tecnico fino al ritorno immediato alle urne. Sempre più spesso il punto centrale sembra essere “rassicurare i mercati”, “rispondere alle richieste del mondo finanziario”, evitare una “crisi di fiducia”, nel timore che anche solo banali rumors o dichiarazioni via social possano scatenare reazioni febbrili negli indici finanziari. Ma quali sono gli assetti di potere che regolano i rapporti tra i diversi attori del panorama economico e politico? Come si crea – e come si distrugge – la fiducia di cui tanto parliamo? In che modo la reputazione di solidità o viceversa di fragilità di un paese può essere plasmata dal giudizio di leader politici, banche centrali e agenzie internazionali di rating?
Se ci pensiamo un attimo, nel discorso pubblico sulla crisi degli ultimi dieci anni le dimensioni non economiche dei mercati, le variabili “morbide” che fanno riferimento ad aspetti propriamente sociali, hanno avuto uno spazio enorme. Eppure, paradossalmente, discipline come la sociologia sono rimaste ai margini del dibattito e si sono dimostrate sinora incapaci, nella maggioranza dei casi, di fornire un contributo sostanziale all’analisi dei mercati finanziari. È più che mai necessario invertire questa tendenza, incorporando elementi strutturali, culturali, politici e istituzionali nello studio dei mercati per comprenderne meglio il funzionamento. A maggior ragione perché il peso della finanza è cresciuto a dismisura negli ultimi trent’anni, così come la sua pervasività rispetto alle altre sfere della società: le logiche che governano i mercati finanziari influenzano oggi anche gli ambiti tradizionalmente orientati alla produzione, come il comparto industriale, e più in generale la nostra vita quotidiana. Capire come funziona la finanza vuol dire allora capire come funziona una parte sempre più vasta del nostro mondo, e per farlo è opportuno utilizzare tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione, compresi quelli sociologici.
Chi sono gli attori e quali le «regole del gioco» del capitalismo finanziario italiano?
Dopo una ricostruzione delle principali istituzioni, organizzazioni e aziende che popolano il capitalismo finanziario italiano, nel mio lavoro mi sono concentrata su un livello preciso, quello dei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa. Si tratta di un punto di osservazione privilegiato, perché permette di mettere a fuoco la struttura e il funzionamento dei centri decisionali delle principali società italiane e, da qui, di ricavare un affresco di alcune caratteristiche specifiche del capitalismo nostrano. Il tratto principale che emerge è un forte accentramento e un profilo elitario: gli amministratori sono complessivamente oltre duemila, ma una piccola porzione – circa il 12% – si distingue perché ha contemporaneamente incarichi in aziende diverse; tra questi, poi, vi è un nucleo compatto di consiglieri che possiamo definire big linkers che si distinguono per un numero elevato di poltrone nei diversi consigli di amministrazione – tre o più – e per la continuità negli anni del loro ruolo. I big linkers sono tra gli attori chiave del capitalismo finanziario italiano, per questo è interessante studiarne la biografia e il percorso di carriera. Gli ultimi dati a disposizione permettono di isolare 61 soggetti, per la maggior parte uomini e con un’età media superiore ai 60 anni: l’amministratrice più giovane, una donna, ha 37 anni; quello più anziano, un uomo, ne ha 86. Tra i big linkers ricorrono numerosi nomi noti del capitalismo italiano, quali ad esempio Agnelli, Caltagirone, De Benedetti, Falck e Marcegaglia, e in alcuni casi troviamo interi nuclei familiari – genitori e figli – nell’elenco dei soggetti più influenti del sistema.
È interessante notare che questi tratti mostrano una notevole persistenza temporale, nonostante le «regole del gioco» del capitalismo finanziario italiano siano cambiate molto negli ultimi decenni, a partire dalla densa stagione di riforme degli anni Novanta. L’élite finanziaria del nostro paese mostra dunque capacità adattive che le permettono di continuare a riprodurre gli assetti di potere esistenti, mantenendo così intatto nel tempo un sistema tutto sommato poco dinamico e solo parzialmente reattivo alle sollecitazioni esterne.
Come vengono selezionati i membri dei consigli di amministrazione?
Nella maggior parte dei casi a contare è una combinazione di caratteristiche personali, relazionali e professionali dei singoli soggetti, che si coniuga con il tentativo di rispondere alle logiche di gestione e funzionamento del consiglio e dell’intera azienda. Godere della fiducia degli azionisti di maggioranza è senza dubbio un fattore imprescindibile per ottenere un incarico, ma non è sufficiente: nei consigli di amministrazione servono infatti competenze economiche, finanziarie, fiscali e giuridiche. Rispetto al passato sono molto più rari i consigli di scarsa qualità. Piuttosto, nel processo di selezione si ricerca un equilibrio tra capacità professionale e affidabilità percepita: per riprendere le parole di un amministratore delegato la cui intervista è contenuta nel libro “bisogna guardare quali sono le competenze necessarie (…), poi tra le varie competenze si scelgono delle persone di fiducia”. Il rischio, in questo caso, è dunque che il reclutamento riguardi esclusivamente un gruppo chiuso di soggetti privilegiati, già appartenenti o contigui all’élite finanziaria, mentre permangano barriere impenetrabili per aspiranti consiglieri estranei a questi circuiti relazionali.
Un caso esemplificativo ed estremamente emblematico è quello dell’introduzione delle quote di genere negli organi decisionali di società quotata attraverso la legge Golfo-Mosca (legge n. 120 del 2011). La norma si è rivelata estremamente efficace nel garantire la presenza un maggior numero di donne nei consigli di amministrazione: le consigliere sono passate dal 7% del 2010 a oltre il 30% negli ultimi anni. Nel processo di selezione, tuttavia, ha pesato molto il timore legato all’estraneità di queste nuove consigliere rispetto alla corporate community esistente. Per questo motivo, il reclutamento si è spesso concentrato su profili già noti e, in particolare, su donne che per motivi professionali o familiari erano già vicine all’azienda o ad altri membri. Da un lato, dunque, si è garantita una maggiore rappresentanza di genere in centri decisionali chiave, dall’altro lato però l’obiettivo di favorire un’apertura verso l’esterno dell’élite finanziaria è stato in gran parte mancato. Nelle parole di un consigliere intervistato: “va bene le donne… ma che conosci!”.
Quali modelli di legami personali inter-organizzativi è possibile ravvisare nel panorama finanziario nostrano?
Analizzare i diversi modelli di legami inter-organizzativi presenti nel capitalismo italiano ci serve per rispondere alla domanda: perché nascono e come vengono utilizzate le relazioni personali in ambito economico? A questo proposito, la letteratura internazionale sul tema ci mostra che le interpretazioni deterministiche portano poco lontano e non aiutano nella comprensione del fenomeno. Non dobbiamo cioè pensare che i legami si sviluppino sempre per una ragione strategica, ad esempio per aggirare la concorrenza stipulando accordi informali o per garantirsi un canale preferenziale di accesso a risorse materiali o finanziarie. Queste motivazioni sono senza dubbio presenti, ma si coniugano ad altre di natura non intenzionale, che chiamano in causa l’esistenza di mercati professionali ristretti – ragione per cui gli individui più competenti acquistano in breve tempo una grande centralità – o la ricerca di legittimazione sociale. Anche le strategie dei singoli individui possono contare molto, dal momento che sviluppare un portafoglio relazionale di rilievo favorisce la carriera, permette di accedere a vantaggi remunerativi e di acquisire prestigio.
L’assetto relazionale complessivo che osserviamo nel capitalismo finanziario italiano è dunque il frutto di una combinazione di fattori, intenzionali e non intenzionali, riconducibili agli individui come alle organizzazioni. Inoltre, a prescindere dalle ragioni per cui sono stati creati e si sono sviluppati nel tempo, a specifiche condizioni i legami personali esistenti possono essere attivati e utilizzati dai soggetti coinvolti. Nelle reti circolano informazioni, si genera fiducia e si definiscono norme di comportamento: tutti elementi che favoriscono la persistenza di gruppi elitari ristretti.
Quali effetti strutturali producono i legami personali tra istituzioni finanziarie?
Si conferma innanzitutto una stretta connessione tra proprietà e controllo nel capitalismo finanziario italiano: in almeno un caso su quattro i legami personali che creano ponti tra società diverse riflettono rapporti di proprietà diretti o indiretti. A volte sono gli stessi azionisti a svolgere il ruolo di amministratori, altre volte invece la proprietà sceglie di nominare all’interno degli organi decisionali delle sue controllate persone di fiducia, interne a una delle aziende in questione o formalmente esterne al gruppo ma molto vicine, per rapporti professionali o personali, agli azionisti.
Anche dove non osserviamo una corrispondenza immediata tra struttura proprietaria e composizione degli organi di amministrazione, spesso la fitta trama relazionale che collega società diverse può essere interpretato come un indicatore di aggregazioni aziendali che condividono interessi tentano di coordinarsi per perseguirli. Si tratta di forme di organizzazione intermedia, in alcuni casi formalmente definite, come nelle joint venture, in altri basate su accordi informali. Non dobbiamo poi dimenticarci di tutte le situazioni in cui magari un vincolo proprietario esiste, ma non è immediatamente visibile per via di strutture finanziarie particolarmente complesse.
Un altro fattore significativo è la centralità delle istituzioni bancarie, che tendono a sviluppare molte relazioni e a fare da mediatrici nei rapporti tra altri attori e organizzazioni. Questa propensione è coerente con il ruolo che le banche hanno sempre svolto nel nostro sistema e che non è stato intaccato, anzi semmai rafforzato, dalla stagione di riforme iniziata nei primi anni Novanta.
Infine, l’analisi empirica mostra che se da un lato le società con le migliori performance tendono a sviluppare nel tempo più legami, acquisendo via via una maggiore centralità, dall’altro lato – in modo speculare – le aziende ben connesse raggiungono più facilmente il successo. La combinazione di questi due meccanismi ha contribuito a rafforzare, all’interno del sistema, quelle che possiamo definire “reti di vincenti”: configurazioni stabili e persistenti nel tempo di imprese strutturalmente e economicamente robuste.