
Al di là di tutto ciò, l’importanza di De Luca risiede, a mio avviso, nella scoperta della «storia della pietà». Per De Luca, la «pietà» è quello stato in cui l’uomo sente presente, per consuetudine d’amore, Dio. Di questa «pietà», delle sue espressioni colte e popolari, De Luca volle fare la storia, dalle canzoncine di sant’Alfonso de’ Liguori all’iconografia, dalla poesia all’arte, sino all’«empietà», che è una forma di pietà rovesciata. La storia della pietà, che non è storia delle religioni, non è storia delle istituzioni o della spiritualità, ma è qualcosa di diverso, è il grande lascito, ancora da capire e da raccogliere, di De Luca alla cultura italiana e non solo italiana.
Quale ritratto del sacerdote emerge dall’esame della sua corrispondenza con amici laici ed ecclesiastici?
De Luca ha sempre tenuto moltissimo alla sua identità di prete, di prete romano. Non tollerava altri aggettivi accanto a quel sostantivo che per lui era tutto. Testimone del divino e dell’eterno, il prete per De Luca non poteva e non doveva occuparsi di altro che della salvezza delle anime. Non sopportava una concezione burocratica di una vocazione che rischiava sempre di diventare borghesemente un «mestiere». Eppure questo prete, tridentino e “romano” fino al midollo, che ha scritto pagine straordinarie sul prete, sui seminari, sulla Curia Romana (nella bellissima biografia del cardinal Bonaventura Cerretti, pubblicata anonima nel 1939), si è mosso con incredibile vivacità e agilità in partibus infidelium, ai confini del Regno, fra laici e non credenti. De Luca è stato nel Novecento una delle intelligenze cristiane più consapevoli che il Regno, l’autentico Regno di Dio, in realtà non ha confini, non può averne, perché a tutto si estende perché tutto è di Dio. Di qui la larghezza impressionante dei suoi interessi e delle sue amicizie. Ma, attenzione, De Luca non fu un santo, né Antonazzi si è mai proposto di presentarci di lui un’immaginetta agiografica. Ci tiene anzi a sottolinearne la fragilità e l’instabilità del carattere, la volubilità dei giudizi. Anche la recente pubblicazione delle sue lettere con Maria Bordoni (1916-1978), interessante figura di mistica, direttrice di coscienze e artefice di carità, mostrano più che mai De Luca nella povertà dei suoi nervi, continuamente scossi e provati, eredità mai superata del grave esaurimento nervoso che lo colpì negli anni 1925-1927. Eppure, proprio questa fragilità, vissuta e assunta sino in fondo ma donata a Cristo, lo ha reso per noi grande anche nella debolezza, coerente anche nelle incoerenze.
Quali vicende segnarono la vita di don Giuseppe De Luca?
La vita di De Luca fu sempre quella di un outsider, di un irregolare, forastico e randagio, un deraciné, uno sradicato, quasi dalla nascita. Lui stesso si definiva «sempre ospite da per tutto», che non si sentiva mai a casa sua, «prigioniero di nulla e di nessuno». Rimasto orfano poco dopo la nascita, il piccolo fu portato dal paese natale, Sasso di Castalda, in diocesi di Potenza, a Brienza, a pochi chilometri da Sasso, quasi al confine con la Campania, presso la nonna materna. Nel 1909 entrò nel Seminario di Ferentino, nel 1911 fu inviato a Roma a proseguire gli studi. La passione onnivora e disordinata per la cultura lo caratterizzò come un seminarista del tutto sui generis. Sacerdote nel 1921, nel 1923 divenne cappellano dei vecchi ospitati dalle Piccole Suore dei Poveri presso S. Pietro in Vincoli. Lo rimarrà fino al 1948 e sarà il suo unico incarico. Visse sempre a Roma, accanto alla Roma della Curia e dei palazzi del potere ma oscuro e appartato, schivando ogni impiego (solo dal 1927 al 1932 fu, infelicemente, archivista presso la Congregazione per la Chiesa Orientale). Il paradosso della sua vita, solitaria in mezzo a tante «conoscenze» (fu amico di Angelo Giuseppe Roncalli e Giovanni Battista Montini), fu appunto questo: privo di impieghi, fu costretto ad assumere impegni pubblicistici, componendo «articoli e articoli per campare». Queste continue distrazioni lo distolsero sempre dall’impresa della sua vita, comporre una storia della pietà italiana, come Henri Bremond aveva fatto (ma con intenti diversi) per il sentimento religioso in Francia. Naturalmente mancò l’obiettivo ma nel frattempo fu l’ispiratore de Il frontespizio fiorentino e della Morcelliana di Brescia, l’amico e il confidente di numerosi artisti, letterati, pittori, intellettuali.
Quale netta bipartizione è possibile tracciare nella vita di don De Luca?
Il volume di Antonazzi è prezioso perché permette di seguire per la prima volta, in ragione del suo taglio rigorosamente annalistico e dell’uso larghissimo delle corrispondenze edite e inedite che contengono l’ipsissima vox di don Giuseppe, il «laborioso farsi» della sua vita. De Luca non sembra attento alle date (nella memoria sbagliava, per esempio, quella della sua ordinazione sacerdotale, avvenuta il 30 ottobre 1921), ma è sicuramente sensibile alle periodizzazioni, come espressioni di fasi della vita, di stagioni dell’anima. Lui stesso segnala l’importanza, in qualche modo simbolica, della morte del card. Basilio Pompili, vicario del papa per la città di Roma, il 5 maggio 1931. Era stato lui, Pompili, a seguire il giovane seminarista dagli inizi del cammino, ad accorgersi della sua singolarità e della sua intelligenza, era stato lui per il troppo affetto a temere e a metterlo in guardia dagli eccessi di una vita troppo dedita agli studi. La morte del cardinale fu avvertita da De Luca come l’inizio di una fase nuova nella sua vita, «la faticosa uscita di giovinezza», l’inizio di un periodo di assestamento come dopo un violento terremoto. Ma la netta bipartizione è avvertibile in un’altra scansione. Fra gli anni Venti e gli anni Quaranta si colloca il periodo “letterario”, intessuto di sterminate e avide letture, dell’inizio dell’amicizia, profonda e tormentata, con Giovanni Papini (che fu il suo vero, primo maestro e pigmalione ma col quale dagli anni Quaranta si verificò un doloroso, progressivo allontanamento), di intense frequentazioni di artisti e letterati, dell’ispirazione di linee editoriali. Fra gli anni Quaranta e la morte, nel marzo 1962, si svolge, invece, il periodo “erudito”, segnato nel 1943 dalla nascita delle Edizioni di Storia e Letteratura e nel 1951 dall’uscita del primo, già corposo volume dell’«Archivio italiano per la storia della pietà». In questa fase De Luca si sente chiamato a riprendere un “sentiero interrotto”, a tornare alle sue giovanili collaborazioni con i filologi Nicola Festa (per l’edizione della Poetica di Aristotele) e Vittorio Rossi (per l’edizione delle Familiari di Francesco Petrarca), alla sua amicizia con il benedettino André Wilmart, fra i maggiori rappresentanti dell’erudizione ecclesiastica del Novecento. Sotto il simbolo della navicella che varca il mare dell’esistenza diretta verso l’eternità con i due dolia, i due otri della storia e della letteratura, le Edizioni di Storia e Letteratura si propongono di essere una casa aperta e ospitale, fra le macerie del dopoguerra, per gli eruditi di tutto il mondo, pronta a pubblicare libri che altri editori, condizionati da logiche di mercato e di commercio, non pubblicherebbero mai. Nate in funzione dell’«Archivio», le Edizioni furono il grande sogno e, al tempo, la tragedia degli ultimi vent’anni di vita di De Luca, sempre angosciato per le sorti economiche della sua creatura, perennemente in pericolo di naufragio. Per essa stese la mano in tutte le direzioni (Vittorio Cini, Enrico Mattei, Raffaele Mattioli), cercando aiuti che alla fine pensò e sperò di trovare da Giovanni XXIII. Una netta bipartizione, dunque. Ma in verità De Luca non è mai letterato e poi erudito; è continuamente l’uno e l’altro, un erudito col gusto della letteratura e un letterato con la passione erudita. Ma, innanzitutto e sempre, è un prete, innamorato del suo sacerdozio, che pure vive a modo suo. Antonazzi ci insegna a cogliere le molte sfaccettature di una personalità complessa nell’unità di un’unica, grande vocazione.
Quali aspirazioni caratterizzarono l’opera del sacerdote?
Sin dalla fanciullezza De Luca si propose «una vita alta», sia nello studio che nel sacerdozio. Come scrisse in Vita prima, un testo che risale agli anni 1943-1945, doveva «fare» qualcosa mai fatto da altri e che restasse nel tempo. «Restasse, non tanto per la gloriola del mio nome e cognome; ma restasse come scasso profondo non soltanto negli studi storici ma nella coscienza nazionale». Condotta con rigore di filologo e impeto di artista, la Storia della pietà che si riprometteva di scrivere doveva «fare la storia di quanto e come gli Italiani hanno amato Gesù», dimostrando che l’anima italiana non era scettica, come molti sostenevano, «ma profondamente ha sentito il lievito oltremondano del Cristianesimo». Questo grandioso, non realizzato, progetto attraversa e anima tutta la vita di De Luca. Che però a nulla posponeva il suo sacerdozio, il suo ministero fra i vecchi dell’ospizio di S. Pietro in Vincoli. A Prezzolini scrisse: «non creder che la tua anima mi interessi più di quella di uno dei vecchi dell’ospizio». E lui, che tanto di sé aveva dato per la letteratura, la poesia, l’arte, la filologia e l’erudizione, ripeteva spesso: «tutta la cultura non vale il moto di un’anima».
Qual è l’eredità di don Giuseppe De Luca?
La figura di De Luca presenta molte sfaccettature e molteplici possono dunque essere le sue eredità. Come ho detto prima, il lascito più serio per gli storici è quello della «storia della pietà», una disciplina nuova, una categoria storiografica inedita e trasversale, difficile da coltivare ma assolutamente originale. Più in generale, per i credenti De Luca lancia un appello per una fede che pensa, che riflette, che si confronta con gli altri, nella consapevolezza della propria identità ma al tempo stesso aperta a un dialogo con altre visioni del mondo, dell’uomo e della storia. Il sogno di De Luca, come scrisse a Montini il 13 giugno 1951, era quello di «riscattare il clero italiano [ma noi potremmo dire i cattolici tout court] da una cultura di echeggiamento e traduzione, e ricondurlo a una dottrina di iniziativa e di coordinazione», quello di «dimostrare, nell’umile fatto, che si può essere con l’erudizione più spinta, con la poesia più nuova, ed essere con Cristo e con la Chiesa». De Luca chiede alla Chiesa di essere consapevole della sua storia e della sua tradizione, ricca e variegata, di non lasciarsi irretire dalle sirene dell’immediato perché solo la prospettiva storica può dare risposte di «lunga durata». Ma anche ai non credenti De Luca può dire e dare molto. In primo luogo, l’esempio di un prete curioso che sa, che legge, che conosce. A Papini, preoccupato per le nuove amicizie di De Luca con Antonio Baldini e Pietro Pancrazi e per le sue pericolose letture profane che imputava a «sensualità» letteraria, don Giuseppe il 2 luglio 1931 replicò di non volere che i suoi amici non credenti potessero pensare «che io credo perché non ho letto. No, no, mai. Io ho letto né più né meno quel che leggono loro e credo (…). Non più tardi di poco fa, a Pancrazi che si diceva lettore di Voltaire, potevo rispondere: e io lo sono più di lei, e son prete». Ecco, De Luca è per i non credenti l’immagine di una Chiesa consapevole di sé, della sua storia, ma pronta al confronto; custode della memoria dell’umanità ed erede delle sue migliori civiltà. Insomma un’immagine totalmente diversa dalle caricature e dalle contraffazioni che circolano. Per tutti De Luca educa ancora all’intelligenza. Come spiegò il 9 dicembre 1956 a Roma, dettando una meditazione ai docenti universitari cattolici a S. Giovanni a Porta Latina: «l’anima non la salviamo senza impegnare a fondo l’intelligenza», perché «lei sola dà legna all’amore».
Paolo Vian è vice prefetto dell’Archivio Apostolico Vaticano. Ha insegnato dal 1989 al 1998 Codicologia nella presso la Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica, e dal 1995 al 2005 Paleografia medievale nella scuola superiore degli studi francescani e mediavali, presso l’allora Pontificio Ateneo Antonianum