“Agamennone” di Eschilo: riassunto

«Sul tetto della reggia di Argo, una sentinella collocata dalla regina Clitennestra attende da un anno il segnale che annunci la fine vittoriosa della guerra di Troia e il ritorno del re Agamennone. Il segnale finalmente arriva, e la sentinella lo accoglie con gioia, ma l’affetto per il suo signore si mescola a una reticente preoccupazione per ciò che accade nella casa.

Entra il Coro, composto di vecchi argivi, rievocando negli anapesti l’inizio della guerra: dieci anni prima, Agamennone e Menelao sono partiti alla testa dell’armata greca per vendicare il ratto di Elena, compiuto da Paride violando i diritti dell’ospitalità, una privazione simile a quella degli avvoltoi cui hanno rubato nel nido i loro piccoli. La spedizione è voluta da Zeus nella sua specifica funzione di garante dell’ospitalità (Xenios). Loro, già vecchi dieci anni prima, sono rimasti malinconicamente in patria, e adesso si chiedono cosa significano i sacrifici che Clitennestra ha ordinato per tutta la città.

La parte lirica della parodo rievoca il presagio inaugurale della guerra: due aquile (simbolo delle regalità dei due figli di Atreo) sbranano una lepre gravida (simbolo della città di Troia e delle vite che essa contiene). Il presagio è dunque favorevole, ma Artemide, la dea che ama la natura e la vita in tutti gli animali, s’indigna per il «banchetto delle aquile» (v. 137), e per dare via libera alla spedizione richiede, attraverso il profeta Calcante, il sacrificio della giovane figlia di Agamennone, Ifigenia: un atto che allontanerà per sempre l’animo di Clitennestra dal marito.

Prima della rievocazione del sacrificio il Coro invoca Zeus, che dopo le vicende e i conflitti della storia sacra governa il mondo sulla base della legge che «nella sofferenza sta la conoscenza» (v. 177): è questa la «grazia violenta» (v. 182) degli dei. Quando i venti mandati da Artemide misero i Greci in una penosissima situazione, Agamennone si trovò a compiere una scelta fra due mali: o «tradire l’alleanza e lasciare la flotta» (vv. 212-3), o contaminarsi con l’uccisione della sua primogenita, tradendo i valori dell’affetto familiare e delle dolci consuetudini del passato. La scelta con cui Agamennone «piegò la fronte al giogo della necessità» è definita «sacrilega, empia, impura» (vv. 218-20). Le profezie di Calcante non sono vane (v. 249); tuttavia il Coro si augura che possa prevalere il bene, secondo il ritornello che scandisce la parodo.

Entra Clitennestra a dare la grande notizia della vittoria, e la avvalora descrivendo minuziosamente il percorso del segnale luminoso partito dalla vetta dell’Ida. Descrive poi con grande potenza immaginativa la città conquistata, temperando il trionfo con l’ammonimento ai vincitori di rispettare gli dei e i santuari dei vinti.

Il Coro canta la giusta vittoria di Zeus Xenios: essa mostra come gli dei non lascino impunita la colpa dell’uomo che la cattiva persuasione forza a fare il male; sono rievocate la colpa di Paride e la fuga di Elena, che lasciò dolore profondo a Menelao, ma anche dolore diffuso tra i Greci che piangono i loro cari morti in guerra; su chi è causa della morte di molte persone (polyktonoi, v. 461) gli dei tengono il loro sguardo severo. Per sé il Coro augura una prosperità modesta, senza essere né vinto né vincitore.

Giunge l’araldo di Agamennone, a salutare con affetto la patria e a celebrare la vittoria, che anch’egli riporta alla giustizia di Zeus (ma i templi dei vinti sono stati distrutti!); poi descrive gli infiniti disagi della guerra, e, dopo che Clitennestra lo ha incaricato di portare ad Agamennone il suo benvenuto, narra di una disastrosa tempesta che si è abbattuta sulla flotta greca: neppure di Menelao si hanno più notizie.

Il Coro adesso torna a cantare la colpa fatale di Elena, che portò a compimento il destino del suo nome (interpretato come «rovina delle navi»): la sua fuga portò a Troia i vendicatori dell’offesa fatta all’ospitalità. Come un cucciolo di leone sembra tenero e carezzevole prima di svelare la sua natura sanguinaria, così il fascino di Elena si tramutò in feroce rovina per i Troiani. Perché in questo caso, come sempre, è stata la colpa a generare la rovina, non la prosperità in quanto tale, come per lo più si crede: è vero tuttavia che spesso i palazzi dorati sono insozzati dalle azioni degli uomini, mentre «la giustizia splende nei casolari fumosi» (vv. 772-3).

Il Coro adesso si rivolge al reduce Agamennone, proponendosi di rendergli l’onore che gli spetta, senza l’ipocrisia così diffusa nei rapporti umani: ammette di avere avuto forti riserve sulla spedizione, ma ora prende atto che l’impresa è stata felicemente compiuta.

Agamennone saluta per prima cosa la città e gli dei, che hanno riconosciuto la ragione dei Greci e sono stati suoi alleati (metaitius, v. 811) nella presa di Troia. Concorda sul fatto che è rara l’autentica amicizia, priva di invidia: lui stesso ha avuto soltanto Odisseo come vero amico.

Parla ora Clitennestra, dichiarando senza nessun ritegno l’amore per lo sposo e l’infelicità della sua esistenza senza di lui, esposta alle false notizie della sua morte, che l’hanno più volte portata alla disperazione. Dopo avergli detto che il loro figlio Oreste è stato mandato nella Focide, perché il clima politico di Argo è stato giudicato insicuro nell’ipotesi di una sconfitta di Agamennone, Clitennestra fa esplodere la sua gioia, che è quella di chi ritrova «il cane da guardia del gregge, la gomena che assicura la nave, la colonna che sostiene il tetto, il figlio unico per il padre, la terra che appare insperata ai naviganti, la luce dolcissima dopo la tempesta, l’acqua di fonte per il viandante assetato» (vv. 896-901). Invita infine Agamennone a scendere dal carro e ad entrare in casa camminando sul prezioso tappeto di porpora che lei gli ha apprestato. Il colore suggerisce una parentela simbolica col sangue, e l’assicurazione di Clitennestra che «il resto lo sistemerà secondo giustizia un pensiero che non dorme» (vv. 912-3) ha addirittura un doppio livello di ironia tragica: allude all’assassinio che lei stessa sta tramando, ma un termine generico come «il resto» si estende minacciosamente nel tempo, fino a includere, oltre il sapere di Clitennestra, la vendetta che colpirà lei stessa.

Agamennone rifiuta l’invito: il tappeto di porpora è un onore adatto agli dei, e lo spreco, anche simbolico, che esso comporta susciterebbe il biasimo della collettività. Clitennestra insiste e Agamennone, pur non persuaso, la compiace, togliendosi tuttavia i calzari prima di calpestare la porpora, e raccomandando a Clitennestra di accogliere benevolmente Cassandra, la profetessa che l’esercito gli ha assegnato come preda di guerra.

Dopo che il Coro ha cantato il suo triste presentimento, sentendo risuonare dentro di sé il lugubre canto delle Erinni (vv. 990-2), torna Clitennestra per esortare Cassandra a entrare nel palazzo: Cassandra tace ostinatamente, e solo quando la regina è uscita intona un canto disperato: accusa Apollo (il cui nome viene interpretato come «colui che distrugge») di averla mandata a una casa che è «un mattatoio di uomini» (v. 1092). Quindi nei suoi lamenti trascorre un’immagine del passato, quella dei figli di Tieste uccisi e dati in pasto al padre da Atreo, il padre di Agamennone; poi quella di una donna che uccide il marito nel bagno tendendogli «una rete di morte» (v. 1115). Anche lei stessa, Cassandra, così come è morta ineluttabilmente la sua città, sarà vittima di una scure.

Solo quest’ultimo punto è chiaro ai vecchi del Coro, ma adesso Cassandra passa a profetizzare nel linguaggio aperto e razionale dei trimetri giambici: spiega al Coro che Apollo, innamorato di lei, le ha concesso il dono della profezia, ma per punirla di aver rifiutato il suo amore ha fatto sì che le sue profezie restassero inascoltate. Poi ricorda il destino coerente e sistematico della casa degli Atridi, a partire dalla prima colpa, quella di Tieste: come Paride, egli violò il letto di un altro uomo, Atreo, che si vendicò con l’orribile banchetto. Anche il letto di Agamennone è stato violato in sua assenza da Egisto, l’altro figlio di Tieste, che mira a vendicare il padre e i fratelli.

Infine, Cassandra si strappa di dosso le insegne della sua funzione profetica, che non sono in grado di controbattere il male; ma prima di accettare la fine che le incombe, vaticina che la morte di Agamennone, e anche la sua, saranno vendicate.

Colpito, il Coro commenta le vicende degli Atridi come emblematiche del rovesciamento della felicità umana; poi, ascoltando in lontananza il grido di Agamennone colpito a morte, la sua voce si frantuma in quelle dei singoli coreuti, che nel loro dissenso sul che fare testimoniano tristemente la comune impotenza.

Torna infatti in scena Clitennestra, a vantare l’omicidio compiuto come opera giusta (v. 1406), ma prima ancora a giustificare la frode del falso amore prima pubblicamente manifestato come il solo modo per avere la meglio sul suo nemico. Racconta le modalità dell’assassinio, godendo del sangue versato, «come gode della rugiada di Zeus il germoglio in fiore delle spighe» (vv. 1391-2). Al Coro che la minaccia dell’esilio, Clitennestra rinfaccia di non essersi opposto alla morte di Ifigenia, e lo sfida a contrastarla sul piano della forza: dalla sua sta Egisto. Aggiunge parole di disprezzo per la morta Cassandra, con ciò accusando a sua volta Agamennone di infedeltà.

Il Coro equipara Clitennestra alla sorella Elena, causa di tante sciagure, e chiama in causa il demone degli Atridi che opera attraverso le due donne; in risposta Clitennestra, come già Cassandra, estende l’azione del demone fino alla cena di Tieste. Sgomento e confuso, il Coro si chiede chi potrà rendere gli onori funebri ad Agamennone, visto che lo hanno ucciso i suoi philoi, e Clitennestra ha una terribile risposta: sarà sua figlia Ifigenia ad accoglierlo affettuosamente nell’Ade.

Ma se Agamennone – insiste il Coro – è morto in ossequio al principio che «chi ha fatto del male lo patisce» (v. 1564), chi potrà arrestare la catena dei delitti fra consanguinei? Un compromesso col demone, risponde Clitennestra: pur che si arresti qui la sua azione, è pronta ad accontentarsi di «una piccola parte di questi beni» (vv. 1574-5), nella stessa ottica riduttiva espressa precedentemente dal Coro (vv. 1017-34). La violenza del dialogo è estremizzata dall’arrivo di Egisto, che celebra trionfalmente la sua vittoria e la sua giustizia, la realizzazione cioè della maledizione che Tieste lanciò nell’orribile cena. Il Coro lo rintuzza duramente, accusandolo di vigliaccheria per non avere partecipato alla guerra e non aver neppure compiuto di persona l’assassinio, e lo minaccia della vendetta di Oreste. Egisto ribatte con violenza tirannica, ma Clitennestra smorza il conflitto: «c’è già abbastanza dolore» (v. 1656).»

tratto da Il teatro antico. Guida alle opere di Guido Paduano, Laterza

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