
L’Osservatorio Nazionale Adolescenza nell’ultimo report di ottobre 2021 segnala come il 25% dei ragazzi di età compresa tra i 12 e i 18 anni abbia sperimentato nell’ultimo anno vissuti di tristezza, apatia e demotivazione ascrivibili a quadri depressivi e il 20% preoccupazioni, ansia e soprattutto tendenza all’isolamento e chiusura relazionale.
Nel tempo la richiesta di aiuto per problematiche legate all’ansia e al ritiro sociale è aumentata. Anche l’impatto psicologico della Pandemia COVID-19 ha senza dubbio avuto un ruolo. Se consideriamo i dati provenienti dal nostro Osservatorio, l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù, si è passati dal 15% delle richieste nel 2017 al 19% del 2019 fino al 25% registrato nel 2021. L’isolamento forzato, la didattica a distanza, le attività extrascolastiche assenti o limitate, la trasformazione delle abitudini e delle modalità di relazionarsi con gli amici hanno probabilmente ridisegnato la sfera emotiva dei ragazzi alimentando ansie e preoccupazioni già presenti facendo emergere ancora di più le vulnerabilità e le fragilità legate alla relazione con l’altro.
Come si manifesta?
Il ritiro sociale può essere definito come la tendenza a sottrarsi dalle opportunità di relazione con l’altro, sia che si tratti di adulti sia che si tratti di coetanei.
Il rifiuto all’interazione sociale avviene in maniera volontaria da parte del bambino o dell’adolescente ma la forma in cui il ritiro sociale si manifesta durante l’infanzia e l’adolescenza è legata all’età, al particolare livello di sviluppo e, soprattutto, all’eventuale presenza di un disturbo psicopatologico sottostante.
Durante l’infanzia i bambini possono rifiutarsi di uscire di casa per paura di separarsi dai genitori o per timore di stimoli per loro ansiogeni presente nell’ambiente esterno (ad esempio fobie per agenti atmosferici come fulmini e temporali o per alcuni animali).
In adolescenza, invece, i ragazzi possono preferire la permanenza in casa in risposta a stati transitori di sofferenza come la rottura di una relazione sentimentale, un periodo di intenso carico scolastico o stress familiare determinato, ad esempio, da conflitti intrafamiliari.
In ogni caso, quando il rifiuto di uscire e di relazionarsi non è transitorio ma persistente e resistente alle sollecitazioni esterne possiamo dire di trovarci di fronte ad un vero e proprio disturbo psicopatologico sottostante: ansia, depressione o psicosi ecc.
Il ritiro sociale, dunque, spesso è un sintomo da contestualizzare all’interno di un disagio psicologico più complesso.
Quali sono le cause del ritiro sociale?
Attraverso la ricerca scientifica e l’esperienza clinica sono stati individuati tre tipi di fattori di rischio: i fattori genetici e neurobiologici, i fattori temperamentali e, infine, quelli ambientali e sociali.
Alcuni studi, ad esempio, hanno messo in evidenza come i figli di genitori che tendono ad avere pochi contatti sociali, temono il giudizio dell’altro e privilegiano esclusivamente le relazioni con i familiari più stretti hanno un rischio sei volte maggiore di manifestare difficoltà psicologiche e ritiro sociale rispetto ai coetanei che hanno genitori con una rete sociale ampia.
Altre ricerche, condotte su gemelli omozigoti cresciuti in famiglie diverse (in seguito, ad esempio, in seguito all’adozione), hanno messo in evidenza che, se un gemello manifesta disturbo d’ansia con ritiro sociale, l’altro avrà tra il 30 e il 50% di probabilità in più rispetto alla media di sviluppare lo stesso disturbo. La predisposizione genetica appare, dunque, un fattore di rischio per il ritiro sociale. Tuttavia, altre cause possono ritrovarsi in alcuni tipi di temperamento spesso riconosciuti essere alla base di comportamenti socialmente ritirati: la timidezza e la tendenza all’evitamento sociale. I ragazzi timidi solitamente sperimentano il conflitto tra il desiderio di interagire con i pari e la paura, l’ansia e l’imbarazzo che provano nelle situazioni sociali. In altri termini, pur avendo un forte desiderio di far parte del gruppo, manifestano evidente difficoltà nel fare la prima mossa. Alcune volte aspettano un cenno prima di provare a inserirsi in una conversazione, altre volte un giudizio positivo per entrare nel gruppo. Si innesca così un meccanismo per cui il desiderio del ragazzo di inserirsi in un contesto sociale e la tendenza all’evitamento coesistono simultaneamente e il pensiero dominante è la preoccupazione di ciò che gli altri possono pensare di lui. All’interno di questa prospettiva, la timidezza e il conseguente evitamento sociale rappresentano un fattore di rischio per l’ansia e il ritiro sociale. Altri fattori di rischio, infine, sono quelli ambientali come l’aver sperimentato eventi di vita stressanti durante l’infanzia o l’adolescenza. Quando parliamo di «eventi di vita stressanti» ci riferiamo, ad esempio, al crescere in una famiglia conflittuale o in condizioni di scarsa protezione, di incuria o di vero maltrattamento fisico oppure a episodi ripetuti di bullismo o cyberbullismo da parte del gruppo dei pari.
Cos’è il fenomeno Hikikomori e quali caratteristiche presenta?
Hikikomori è un termine gergale giapponese che significa letteralmente «mettersi da parte», derivante dalle parole hiku che significa «tirarsi indietro» e komoru che significa «isolarsi».
Il ragazzo Hikikomori tende a privarsi della cosiddetta «socialità diretta», in presenza fisica, e a privilegiare quelle «virtuali». Eccetto i casi più gravi, infatti, una modalità relazionale viene sempre mantenuta dall’adolescente Hikikomori, che sia l’uso della chat scritta o quella dei videogame cooperativi che richiedono l’interazione online con partecipanti di tutto il mondo.
È molto frequente che l’Hikikomori scelga di ritirarsi proprio perché non in grado di attuare strategie di coping adeguate a gestire lo stress derivante dal confronto con l’altro. Non è un caso che l’atteggiamento di ritiro e rifiuto sia direzionato soprattutto verso quelle che sono definite «fonti di aspettative sociali»: la scuola, i coetanei, i genitori e, in ultimo, la società in toto.
Il ritiro volontario dalla socialità influisce sul benessere generale dei ragazzi con una ricaduta negativa sulla possibilità di ottenere un’istruzione scolastica adeguata, sullo sviluppo di competenze emotive e il consolidamento delle capacità relazionali nonché sulla costruzione dell’autostima. Questi aspetti non fanno che aumentare il divario tra le richieste del contesto di appartenenza e le risorse che il ragazzo è in grado di attivare. Tale divario costituirà il fattore di mantenimento più potente di questa condizione.Per molti anni l’Hikikomori è stato valutato come un fenomeno unicamente giapponese e quindi «cultura-dipendente». Tuttavia, studi successivi hanno documentato il suo progressivo diffondersi anche in altre nazioni economicamente evolute, Italia compresa, suggerendo quindi, contrariamente a quanto affermato fino a quel momento, la cosiddetta «transculturalità» del fenomeno. Anzi, ad oggi, in letteratura, con il termine Hikikomori ci si riferisce a un desiderio ed una spinta all’isolamento fisico, continuato nel tempo, che si manifesta come reazione alle eccessive pressioni di realizzazione sociale tipiche delle società capitalistiche economicamente sviluppate.
Quali sono i campanelli di allarme?
Non sono solo i preadolescenti e gli adolescenti a «ritirarsi». Il ritiro sociale può riguardare anche i bambini. Anzi, molto spesso i primi segni di ritiro sociale si manifestano nelle fasce d’età più precoci. Infatti, il primo contatto del bambino con occasioni sociali strutturate come l’inserimento a scuola o in un contesto sportivo può porre in evidenza difficoltà di adattamento e di relazione con gli altri che possono esitare nel rifiuto alla partecipazione tanto alle attività scolastiche quanto a quelle extrascolastiche. Solitamente durante l’infanzia il rifiuto è saltuario e può essere in qualche modo contenuto dai genitori attraverso ricompense, gratificazioni e supporto attivo. Per esempio, una strategia può essere quella di affiancare i bambini durante le attività sportive. Tuttavia, si tratta anche in questo caso di condizioni da monitorare per quanto riguarda la durata e soprattutto la frequenza con cui si manifestano. In adolescenza i campanelli di allarme diventano più evidenti: si tratta di ragazzi che evitano costantemente e non solo per limitati periodi di tempo situazioni sociali come feste di compleanno, uscite al parco o a cena con gli amici. Sono ragazzi attraversati da tristezza intensa e crisi d’ansia persistenti nei giorni precedenti a un’esposizione sociale come una recita o un’esibizione. Si bloccano durante le interrogazioni orali e trascorrono gran parte della giornata nella propria camera. Infine, nelle forme più gravi di ritiro sociale, limitano progressivamente i contatti sociali fino ad una modalità esclusivamente virtuale e online. L’abbandono scolastico è molto spesso il punto di arrivo di tale disagio.
Come è possibile intervenire?
Il riconoscimento precoce dei segni di ritiro sociale e l’attivazione tempestiva di un percorso di trattamento sono di fondamentale importanza per ridurre il rischio di insorgenza di difficoltà psicologiche più gravi come i disturbi dell’umore o gli stati mentali a rischio di psicosi. Un buon percorso terapeutico non può prescindere dal considerare la stretta relazione esistente tra il ragazzo e il suo contesto familiare ed extrafamiliare.
Si parla infatti di «setting multipli» o «multisetting» per riferirsi alla realizzazione dell’intervento in contesti differenziati e con il coinvolgimento di operatori di diverse professionalità integrate tra loro (psicologo, fisioterapista, logopedista, neuropsichiatra infantile, insegnanti). Gli interventi terapeutici non sono dunque costruiti esclusivamente sul ragazzo ma anzi coinvolgono attivamente i genitori e le altre figure significative (nonni, insegnanti, istruttori sportivi ecc.).
Tra i vari approcci psicoterapeutici attualmente in uso, la psicoterapia cognitivo-comportamentale raccoglie le maggiori prove di efficacia nel trattamento dei disturbi psicopatologici più frequentemente associati al ritiro sociale (disturbo d’ansia sociale, depressione, psicosi, autismo).
L’obiettivo della psicoterapia cognitivo-comportamentale, d’altro canto, è aiutare l’individuo nel riconoscimento delle rappresentazioni disfunzionali, della sofferenza che esse provocano ma, soprattutto, supportarlo nella modificazione, sostituzione di questi con rappresentazioni e pensieri più in sintonia con la realtà, più funzionali. Vengono fornite, quindi, strategie utili a modificare questi pensieri negativi e, di conseguenza, le emozioni e i comportamenti associati.
Dalla nostra esperienza clinica appare chiaro, tuttavia, come la maggior parte dei ragazzi con ritiro sociale abbiano delle abilità sociali non completamente adeguate.
Per favorire tali competenze è possibile avviare un intervento, sempre ispirato alla psicoterapia cognitivo-comportamentale, di gruppo ma anche individuale, definito social skills training.
Il social skills training ha come obiettivo principale quello di insegnare a bambini e adolescenti come potenziare ed esercitare le abilità sociali al fine di renderle più adeguate, di consentire delle interazioni piacevoli con gli altri e promuovere occasioni positive di scambio interpersonale.
Assieme a ciò è molto importante che i genitori si sentano parte attiva del percorso psicoterapeutico proposto, integrandosi nello spazio terapeutico a loro dedicato, il parent training.
Si tratta di un protocollo che possa fornire al genitore delle istruzioni su come fronteggiare le emozioni negative (ad esempio ansia, tristezza) e i timori e le preoccupazioni del figlio rispetto alla relazione con gli altri e alle situazioni sociali. È importante che l’adulto non metta in atto stili educativi e atteggiamenti che possono rinforzare il ritiro piuttosto che ridurlo.
Obiettivo terapeutico principale con i genitori è modificare le aspettative e le credenze disfunzionali che essi posseggono circa il loro comportamento e quello del ragazzo.
Stefano Vicari è Medico e Professore ordinario in Neuropsichiatria Infantile presso la Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Dirige l’Unità Operativa Complessa di Neuropsichiatria Infantile dell’IRCSS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. È membro di numerose Società Scientifiche e autore di oltre 300 pubblicazioni su riviste indicizzate. Ha pubblicato per Erikson Corpi senza peso e Nostro figlio è autistico (2016) e per Giunti Il filo teso (2019) insieme al giornalista Andrea Pamparana.
Maria Pontillo, Psicoterapeuta cognitivo-comportamentale e Dirigente Psicologo presso l’Unità operativa complessa di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, È autrice di numerose pubblicazioni scientifiche nazionali e internazionali. Per Il Mulino ha scritto L’ansia nei bambini e negli adolescenti. Riconoscerla e Affrontarla (Il Mulino, 2020) insieme a Stefano Vicari.