
Negli squarci internazionali che pur con fatica si aprivano nell’Italia segnata dalle persecuzioni razziali, un altro incontro si rivelò poi decisivo per la storia di Adelphi: quello fra Luciano Foà e Alberto Zevi – intellettuale e imprenditore, sostegno editoriale e finanziario della casa editrice dalle origini al 1993 – avvenuto probabilmente nei primi anni Quaranta attorno alla fucina editoriale olivettiana della Nuove Edizioni Ivrea (NEI), nate per allargare gli orizzonti della cultura della penisola, andare oltre l’idealismo e sfidare le angustie di un progetto politico connotato sempre di più in termini etnici e razziali. Il legame tra Foà e Zevi, tutti e due ebrei antifascisti e perseguitati, si sarebbe poi fortificato nel forzato esilio svizzero seguito all’8 settembre 1943, quando in quella peculiare condizione di rifugiati si sarebbero attivate nuove energie e possibilità. Immaginare libri mai tradotti in italiano divenne allora lo strumento con cui pensare il futuro del proprio paese. Ciononostante, spesso gli sforzi di questi fratelli – adelphoi in greco antico – adelphi ante litteram erano stati frustrati, ostacolati, bloccati e molte di quelle opere lette voracemente in tedesco, in francese, in inglese restarono a lungo sepolte nei cassetti di editori, agenti e mediatori, ben oltre il regime fascista. La NEI di Adriano Olivetti nei primissimi anni Quaranta e l’esilio svizzero a Ginevra dopo l’armistizio furono pertanto due laboratori culturali decisivi che non si possono trascurare se si vogliono capire le origini del progetto culturale adelphiano: idee, incontri, sensibilità che germogliarono lentamente allora e di cui il catalogo Adelphi avrebbe tessuto i fili. Con ciò non ho certo inteso offrire una lettura teleologica, ma ho voluto mettere in luce percorsi multipli, l’humus culturale in cui i futuri protagonisti di Adelphi maturarono da giovani e da cui trassero suggestioni e spinte, più tardi riscoperte e “tradotte” in un clima politico e sociale completamente mutato.
In che modo prende forma la nuova casa editrice?
Alle origini, come dicevo, ci sono alcuni incontri, amicizie, scambi intellettuali che si svilupparono e rafforzarono in contesti cronologici ed editoriali diversi: ho appena richiamato la rilevanza delle Nuove Edizioni Ivrea nel cui cantiere, connotato da una linea di opposizione culturale eclettica e cosmopolita all’autarchia fascista, nacquero sodalizi che sarebbero stati decisivi per il destino di Adelphi. Non solo Luciano Foà, Roberto Bazlen e Alberto Zevi, ma anche Michele Ranchetti, Sergio Solmi e Adriano Olivetti, il cui figlio Roberto sarebbe stato essenziale per l’avvio della nuova società editrice. Sergio Solmi avrebbe poi introdotto all’inizio degli anni Sessanta un giovane Claudio Rugafiori, mediatore e conoscitore dell’universo asiatico, saggiato come consulente insieme al poco più che ventenne Roberto Calasso, introdotto in casa editrice da Bazlen su suggerimento del fratello Gianpietro Calasso, inizialmente per tradurre libri di pensiero e di filosofia moderna. Ma qui siamo già all’avvio dell’Adelphi. Prima del 1962 altre due “fucine editoriali” saranno foriere di stimoli e di incontri: la casa editrice Einaudi, di cui Foà fu segretario generale per un decennio tra il 1951 e il 1961, proponendo alle riunioni del mercoledì i suggerimenti di Bobi; e Boringhieri, dove attorno all’ “Enciclopedia di autori classici” Giorgio Colli coordinò un gruppo di collaboratori – Mazzino Montinari, Piero Bertolucci, il grafico Nino Cappelletti – che sarebbero poi tutti entrati in Adelphi. Tra i fili che legano insieme Einaudi, Boringhieri e Adelphi ci sono proprio i nomi di Giorgio Colli e Friedrich Nietzsche (naturalmente non sono gli unici, si pensi, per fare un esempio significativo, a Guido Ceronetti): i “Classici della filosofia”, l’“Enciclopedia di autori classici” e, naturalmente, l’edizione critica delle “Opere complete di Friedrich Nietzsche”. Un’idea, quest’ultima, accolta con entusiasmo da Luciano Foà: un progetto che avrebbe potuto dare credibilità persino internazionale a un piccolo e sconosciuto marchio che si affacciava sulla vivace scena editoriale in quel torno di tempo. Proprio per capire poi l’atto di nascita di Adelphi si sono messe in luce all’inizio del secondo capitolo le ragioni del divorzio di Luciano Foà da Giulio Einaudi, andando al di là della vulgata editoriale e arricchendo, grazie a fonti coeve finora inedite, la complessità del quadro, caratterizzato da motivazioni di segno non soltanto ideologico, ma che investono la professione di editore nel suo complesso. Foà rimase fino all’ultimo legato a Einaudi e un estimatore del suo progetto culturale.
All’indomani della rottura con Einaudi, Foà aveva parlato con Colli di «tre o quattro possibilità» facilmente individuabili in tutte quelle imprese editoriali in cui Foà, Bazlen e Colli erano stati in qualche modo coinvolti nei decenni precedenti: un possibile ritorno all’Agenzia Letteraria Internazionale – per cui sin dal 1933 Foà aveva lavorato insieme al padre e che dal 1951 aveva affidato a Erich Linder –, un «lavoro esterno» con Einaudi, un eventuale accordo con Paolo Boringhieri o, infine, una propria «“Chimera Editrice”», come Foà chiamò, in confidenza con Colli, il suo sogno editoriale. Con il piglio anche tecnico a cui il mestiere di agente lo aveva forgiato, Foà possedeva il côté meno romantico del mondo editoriale, quello che ha a che fare con i soldi, il mercato, la fattibilità. Senza l’aiuto dell’imprenditore del mobile veneto Alberto Zevi, nominato fra i sindaci effettivi nel 1962, la costituzione della società per azioni non sarebbe stata tuttavia possibile. Fu lui, infatti, a permettere a Luciano di guidare il progetto Adelphi in qualità di socio insieme a Roberto Olivetti. Zevi, peraltro sarebbe intervenuto a salvare l’editore dopo il ritiro di Olivetti nel 1964, quando si dovette ripensare l’organigramma della società e lo stesso Alberto Zevi fu cooptato nel Cd’A, di cui sarebbe divenuto presidente nel 1975.
La consolidata storia dell’ALI avrebbe garantito la realizzazione della “Chimera Editrice”: nel 1951 Foà, quando decise di accettare l’incarico presso la casa torinese, non rescisse tutti i legami con l’azienda paterna, e anzi mantenne nelle sue mani, d’intesa con Erich Linder – un gentlemen agreement mai formalizzato, ma sempre osservato da entrambi i contraenti –, un terzo dell’agenzia. Foà aveva però rinunciato ai vantaggi del socio, e non riscosse mai gli utili quando l’ALI sotto la direzione di Linder cominciò a realizzare profitti. Tuttavia, questo accordo garantì a Luciano Foà una costante entrata mensile, consentendogli di superare le secche in Einaudi e il lungo periodo di magra in Adelphi. Erich Linder rappresentò dunque un pilastro per l’Adelphi delle origini, un mediatore prezioso, pronto a difendere il fragile sviluppo iniziale del piccolo editore, di cui amava la proposta editoriale dalla forte impronta mitteleuropea. “Certo che Linder vi avvantaggia sempre”, scherzava Einaudi con l’amico Foà, ormai divenuto suo competitor.
Quali suggestioni culturali ispirano il progetto della nuova casa editrice?
Nella corrispondenza inedita fra Bazlen e Foà a cui si è potuto accedere per questo lavoro, sono fitti gli appunti, gli elenchi di libri a suo tempo confezionati per Einaudi e che poi l’editore torinese aveva scartato. In quel 1961 Luciano e Bobi dovettero parlare a lungo delle proposte accantonate e che ormai giacevano in un angolo da anni, andando a costituire un bagaglio editoriale già ricco e segnato in molta parte dallo spiritualismo, dal misticismo, dallo gnosticismo ellenistico, dai racconti di viaggio e dalle memorie. Gosse, Filostrato, Apollonio di Tiana, insieme a Gurdjieff, Groddeck, Daumal, Neihardt, Strindberg, Burney, e poi l’idea di una collana junghiana in cui inserire testi come la Vita di Milarepa o la proposta di due collezioni distinte per formato sono solo alcuni esempi di progetti che in quel momento non poterono concretizzarsi, ma che saranno fatti propri da Adelphi. E anche se si guarda al più affine catalogo Boringhieri, molte sono le suggestioni a cui gli adelphi prima di Adelphi dovettero guardare con interesse: gli studi etnologici, sul mito, sul folklore e le religioni, sulla psicoanalisi, tanto contigui agli interessi di Bazlen, insieme ad autori come Schopenhauer e Nietzsche e testi ignorati di altre tradizioni, perlopiù orientali, dai Tantra allo yoga.
Nel carteggio inedito fra Bazlen e Foà emerge poi la discussione attorno al nome della “Chimera Editrice”: oltre a L’Anfora, Aleph, Orlando, Spartiacque, Acquario, Studio editoriale, colpisce l’iniziale idea di Luciano Foà di rilevare «il nome di Carabba, anzi dei Carabba». Un’affermazione significativa, questa, per individuare le suggestioni culturali che ispirarono il progetto editoriale: un editore che presto si sarebbe distinto fra le case editrici di cultura di punta dell’Italia repubblicana e che avrebbe fatto della propria unicità un’autonarrazione aveva pensato agli inizi di rilevare un nome antico. Foà faceva forse riferimento alla Carabba d’inizio secolo, quando la casa editrice di Lanciano aveva incominciato a esplorare i terreni dell’irrazionalismo, dell’esoterismo, della mistica, della sapienza buddhista, mercè Giovanni Papini e la sua “Cultura dell’anima”: qui aveva fatto la sua comparsa proprio Friedrich Nietzsche. E poi alcuni degli obiettivi polemici dei Papini e Prezzolini primonovecenteschi, come lo storicismo, il materialismo, il positivismo, si ritrovano, mutatis mutandis, nelle scelte editoriali della casa della luna nuova dal forte accento metafisico e fantastico. Anche la cura editoriale e grafica delle edizioni Carabba, affidate a selezionati illustratori dell’epoca, era un elemento che certamente non era sfuggito a Luciano Foà.
Fu invece Claudio Rugafiori, indagatore di quell’universo asiatico inteso come apertura necessaria per uscire dagli angusti orizzonti di occidentalismi e ideologie politiche, a suggerire il simbolo della nuova casa editrice. Rugafiori mostrò a Foà Tod, Auferstehung, Weltordnung, un libro del sinologo tedesco Carl Hentze, dove erano stampati numerosi ideogrammi dell’antica Cina: i tre ideogrammi, tra cui si indovina il simbolo di Adelphi, tratti dalla pagina del volume di Hentze sono stati scelti come immagine per la copertina del mio libro, sia per evocare uno dei nuclei culturali originari di Adelphi, sia per richiamare il metodo del mio lavoro di ricostruzione fondato sulle fonti primarie. L’altro cuore geografico di Adelphi era il mondo mitteleuropeo. La cultura della finis Austriae era un luogo essenziale, per usare un termine calassiano, del pensiero moderno: non l’illuminismo e la Zivilisation, ma la Kultur, ricca di suggestioni neoromantiche, antirazionali, antimoderne, anticapitaliste e impolitiche. Peraltro la stessa psicoanalisi era figlia di quel mondo germanofono franante e se il confronto con Freud fu inevitabile per Bazlen, sarebbe stato il filone junghiano a fecondare le perlustrazioni culturali di Adelphi, grazie al dottor Ernst Bernhard, mediatore per eccellenza del pensiero di Jung in Italia e figura centrale per l’Adelphi delle origini, spesso suggeritore di «strani tizi che conoscono lingue orientali». L’influenza della psicoanalisi bernhardiana su Adelphi fu tale che all’inizio Luciano Foà aveva condiviso con Roberto Bazlen l’idea di fare una «Collezione psicologica», senza escludere «uno dei “casi” di Freud, cioè dell’autobiografia di Schreber». Anche se una collana ad hoc non sarebbe mai stata varata, il magistero di Bernhard avrebbe nutrito il catalogo adelphiano in più direzioni.
In sintesi si può affermare che Adelphi trovò la sua collocazione in una linea editoriale antitetica rispetto agli intenti pedagogici e militanti di tanta parte dell’editoria italiana degli anni Sessanta e Settanta: apoliticità, lettura disinteressata ed estetica della mente erano i punti cardinali di una proposta eccentrica rispetto al panorama culturale coevo.
Quali strategie economiche, di organizzazione interna e di proposta editoriale adottò la neonata casa editrice?
La domanda è molto vasta e richiederebbe un ampio spazio per poter essere ben articolata. Provo qui a sintetizzare alcuni aspetti essenziali. L’inizio per Adelphi fu assai faticoso e la documentazione che ho potuto consultare presso la Camera di commercio di Milano mostra chiaramente come i bilanci di Adelphi sarebbero rimasti in rosso per quasi un ventennio: pesavano le importanti risorse investite per l’opera omnia di Nietzsche e le difficoltà in merito all’organizzazione di vendita, il vero tallone d’Achille, comune per la verità a tutti i piccoli editori. L’acquisizione del catalogo Frassinelli nel 1965 si rivelò in questo senso una strategia decisiva per aumentare l’offerta, mentre dopo un’esperienza non pienamente soddisfacente con le Messaggerie italiane, il passaggio al sistema di distribuzione e promozione del gruppo editoriale Fabbri avrebbe segnato alla metà degli anni Settanta una nuova stagione. Quel decennio è periodizzante per la storia di Adelphi sotto molteplici aspetti: è solo a quell’altezza cronologica che, per esempio, cominciò a strutturarsi una vera e propria redazione. Nei primi vent’anni l’organizzazione interna non era formalizzata e Piero Bertolucci – caporedattore, capo della produzione e capo ufficio stampa – e gli altri collaboratori non avevano funzioni specializzate, ma spesso facevano un po’ di tutto; in questa prima fase Luciano Foà era l’unico ad avere un proprio ufficio in Adelphi. Nel suo ufficio il venerdì pomeriggio si trovano spesso a discutere Roberto Calasso, Claudio Rugafiori – almeno fino alla fine degli anni Sessanta – e Giuseppe Pontiggia, coinvolto nella casa editrice come lettore e consulente, in particolare per la collana di “Narrativa contemporanea”. In generale, e vale per tutta la ricostruzione proposta, si è tentato di far emergere, pur nell’inevitabile gerarchizzazione delle decisioni demandate al comitato editoriale, il contributo plurale alla costruzione del catalogo. Insistere sulla figura dell’editore-protagonista Calasso – certamente reale e storicamente documentata – ha lasciato spesso in ombra il lavoro quotidiano di uomini e donne nelle case editrici, indispensabile invece per concretizzare idee e progetti editoriali. In questa prospettiva si è scelto di non trascurare, in un approccio che mutua le suggestioni della storia di genere, il ruolo delle donne, le adelph(a)i – mecenati, redattrici, traduttrici, consulenti, autrici – per la casa editrice, tra cui spicca su tutte il nome di Elena Croce, autrice, mediatrice culturale e finanziaria di importanza nevralgica per la casa editrice.
Anche le uscite dei primi libri furono lente e faticose. L’opera omnia di Friedrich Nietzsche fu certamente il cuore più visibile del catalogo, il quale si strutturò però in maniera sempre più articolata e sulle cui scelte editoriali ho potuto dar conto a partire dalla documentazione redazionale originale, conservata negli archivi privati delle famiglie Zevi e Foà. Qui emergono anche progetti editoriali presto abortiti, come per esempio, oltre alla citata collana di psicologia, una collezione dedicata a scritti sull’arte e agli artisti che si sarebbe dovuta chiamare “Il mondo dell’occhio”; si illuminano anche alcune perplessità, come quelle relative all’apertura agli scrittori italiani, i quali, secondo Foà, si sarebbero dovuti selezionare attentamente, individuando un direttore di collana autorevole (e fu poi Giuseppe Pontiggia il candidato ideale); si comprendono inoltre alcune decise prese di distanza: la storia fu subito e consapevolmente accantonata in quanto area di esplorazione editoriale già affollata, preferendo invece puntare sulla scienza, intesa non in senso stretto, duro e specialistico, ma in senso dubitativo, gnoseologico ed epistemologico. Il piano editoriale redatto da Luciano Foà con Alberto Zevi risale al 1964 – l’anno dell’inatteso ritiro di Olivetti dalla società – nel momento in cui ancora si discuteva, al di là di un accordo di massima per i “Classici” con cui si incominciò nel 1963, sul controverso profilo dei “Saggi” e sul nome da dare alla collezione ammiraglia, in bilico, tra “Libri unici” e “Biblioteca Adelphi”. Il minimo comun denominatore, ne convenivano Foà e Alberto Zevi nel Piano editoriale, volevano essere l’alto profilo culturale cui doveva rispondere ciascun volume selezionato e la cura editoriale con cui lo si sarebbe presentato ai lettori. «E bada che la sorte di “Adelphi” (se avrà una sorte in genere) dipenderà veramente in parte dalla copertina di “Biblioteca”», aveva scritto, si può davvero dire con lungimiranza, Bazlen a Foà nel 1965. È in quell’anno che inizia il contro-movimento di Adelphi, come efficacemente lo ha definito Bruno Pischedda: all’avvio della stagione del tascabile, Adelphi iniziava a tracciare una strategia duratura capace di ripagare nel tempo in termini di solidità e fondata sulla feticizzazione dell’oggetto-libro. Proprio lo studio di Pischedda, La competizione editoriale (2022), e quello di Irene Piazzoni, Il Novecento dei libri (2021), usciti sempre per la collana delle Frecce di Carocci in cui il mio stesso libro si colloca, riconoscono la rilevanza dell’esperienza di Adelphi, segnando un cambio di passo della storiografia che in precedenza non aveva ancora dato adeguato spazio a questo editore.
Il nome di Roberto Calasso, anche dopo l’improvvisa scomparsa, resta, nell’immaginario del pubblico italiano, il nome di Adelphi: che ruolo ha avuto, per lo sviluppo della casa editrice, il suo direttore editoriale?
Roberto Calasso entrò come socio in casa editrice nel 1975, quando ricevette la quota di Alberto Falck, divisa a metà con Piero Bertolucci. Ma era stato nominato direttore editoriale già all’inizio del decennio. Luciano Foà riconobbe in un’intervista che l’eredità più preziosa lasciatagli da Bazlen fu proprio Roberto Calasso, un giovane talento dotato di una cultura vastissima e di un raro e finissimo fiuto editoriale. Gli anni Settanta furono per lui gli anni d’oro, quelli in cui Calasso gettò le basi per la sua affermazione non solo come editore – il quale sarebbe entrato a tutti gli effetti come membro del Cd’A della società nel 1986 e poi nominato consigliere delegato nel giugno del 1990 – ma anche come scrittore, curatore, traduttore, saggista, acuto teorico del mestiere di editore, critico «di altissimo livello», per ricordare il giudizio di Emanuele Severino. Proprio nel 1974 uscì L’impuro folle, il primo romanzo del giovane direttore editoriale, che da allora avrebbe pubblicato per la sua stessa casa tutte le opere. Anche in questo caso occorre soffermarsi sugli anni Settanta come cesura: a partire dal 1977 si può infatti individuare una linea ascendente per Adelphi nei dati di vendita e dunque anche nei bilanci della casa, e a quella significativa inversione di tendenza venne più volte riconosciuto il merito, «per la qualità dei libri pubblicati», al direttore editoriale Calasso. A quello sviluppo Calasso contribuì anche come autore – identità, quella di scrittore, in cui si riconosceva appieno, tanto da definirla come sua professione ancora nel 2002, quando ormai aveva saldamente nelle sue mani le redini della casa editrice. L’affermazione internazionale di Calasso-scrittore giunse con lo «straordinario successo di mercato» delle Nozze di Cadmo e Armonia, tradotto anche all’estero con una buona accoglienza in più di venti paesi, e che a fine 1988 poteva vantare in Italia una vendita di 58.000 copie. Sebbene sempre di concerto con Luciano Foà e Alberto Zevi, a Calasso, insomma, si dovette il contributo decisivo di fare uscire Adelphi dalla cerchia dei “felici pochi”, grazie a un meritorio lavoro di filtraggio e di scoperta, per cui nel 1988 venne conferito alla casa editrice il Premio della cultura da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri.
Roberto Calasso sarebbe così riuscito a dare al “libro unico” di concezione bazleniana una valenza nuova, facendone il perno di una strategia editoriale di successo: sarebbe stato cioè il marchio Adelphi a rendere “unico” ogni libro uscito sotto le sue insegne; la veste editoriale e l’attenzione ai paratesti divenne il segno distintivo di Adelphi in un mercato disorientante, ingolfato ed eclettico. Si pensi, per fare un solo esempio ma assai paradigmatico, a un autore come Georges Simenon, uno scrittore seriale, un best e long seller molto popolare in Francia, in Italia e all’estero, un autore insomma pop a cui però sarebbe piaciuto essere considerato blasé: sfruttando il legame indissolubile tra forme grafiche e tipografiche di un libro e le pratiche di appropriazione da parte dei lettori, Adelphi riconsacrava e caricava di inediti significati uno scrittore fra i più universalmente noti. Georges Simenon fu infatti uno degli autori più ricorsivi all’interno catalogo della casa e della stessa “Biblioteca Adelphi”, e la sua continua e robusta presenza dimostra come nel giro di poco tempo, il concetto bazleniano di “libro unico” venisse appunto accantonato, preferendo fidelizzare il lettore anche attraverso la riproposizione di un medesimo autore “di richiamo”.
Editore protagonista, Roberto Calasso fu anche editore-proprietario, risoluto a rientrare in possesso della maggioranza, riacquisendo le quote RCS nel 2015, per preservare l’indipendenza e il marchio Adelphi. A partire dal 1994 e poi soprattutto con la fine degli anni Novanta, che esulano però dalla mia ricostruzione, Calasso rimase nei fatti l’uomo solo alla guida della casa editrice e il suo nome si sarebbe identificato pienamente con quello di Adelphi, fino a sedimentare nell’immaginario pubblico come l’unico nome, il nome, dell’intera storia della casa editrice.
Cosa ha rappresentato, per la storia della casa editrice, la discussione interna sulla pubblicazione di Dagli ebrei la salvezza di Léon Bloy?
Il caso di Léon Bloy ci porta al termine ad quem del mio lavoro, e dunque al 1994. Lì ho fissato le “colonne d’Ercole” di questa lunga storia delle origini, ben consapevole che la cesura non è affatto netta, ma che linee di continuità si possono riconoscere Al di qua e al di là delle origini, per citare il titolo del mio ultimo capitolo. Tuttavia, ho voluto porre l’accento su una discontinuità forte che investì proprio il progetto originario della casa editrice, sia nei protagonisti, sia negli intenti iniziali di collocazione editoriale: in quel 1994 il fondatore della casa editrice Luciano Foà prese le distanze dalla pubblicazione di Dagli ebrei la salvezza di Bloy, sostenendo che l’edizione del testo antisemita in quel frangente preciso della storia politica dell’Italia repubblicana – quando per la prima volta una coalizione di destra andava al governo – fosse in aperta contraddizione con la linea di “apoliticità” che lui e Bazlen avevano voluto imprimere all’Adelphi sin dai suoi esordi. Fu allora che il fondatore Luciano Foà, ormai quasi ottuagenario, si allontanò dalla casa editrice, seguito poi da altri redattori storici di Adelphi, come Piero Bertolucci e Renata Colorni, mentre la scomparsa di alcuni importanti protagonisti aveva nel tempo già scavato dei vuoti fra gli adelphi delle origini: la morte di Roberto Bazlen nel 1965, di Giorgio Colli nel 1979, di Sergio Solmi nel 1981, di Erich Linder nel 1983, l’abbandono di Giuseppe Pontiggia nel 1989, e infine, e soprattutto, la morte di Alberto Zevi nel 1993 avevano contribuito ad accrescere il senso di disorientamento di Luciano Foà.
Per quanto la linea bazleniana avesse rivendicato una certa “neutralità” del fare editoria, i percorsi e le pratiche di appropriazione da parte dei pubblici sono spesso imprevedibili e finiscono inevitabilmente con l’intersecare il contesto politico-sociale: l’affaire Léon Bloy con cui si chiude il capitolo finale è un po’ la cartina al tornasole di queste dinamiche, del rapporto fra cultura e politica e dell’impossibilità di chiamarsene fuori. Attorno alla vicenda Bloy venivano a galla le conseguenze di un fragile equilibrio, che pur si era a lungo mantenuto, tra le due diverse sensibilità editoriali espresse da Foà e da Calasso. Pur mantenendo un punto di sutura nell’idea del libro come estetica della mente, essi esprimevano una diversa concezione della funzione-editore e un’impronta editoriale non perfettamente coincidente che avrebbe informato una dialettica all’interno dei vertici di Adelphi, poi sfociata in rottura nel 1994. Sin dalle origini Luciano Foà, come si è detto, aveva voluto dissotterrare alcuni filoni irrazionalistici – quelli a cui peraltro anche Einaudi non era stata estranea – facendo un discorso squisitamente culturale di apertura a diversi orizzonti di pensiero; Roberto Calasso avrebbe poi cavalcato quei filoni in una direzione più vicina ai solchi tracciati da un Edilio Rusconi, connotando infine di un senso inevitabilmente anche politico quelle scelte, nel nome del principio di libertà del fare editoria. Il confronto serrato fece dunque emergere due maniere diverse di intendere l’organizzazione del lavoro editoriale, due concezioni opposte del mestiere di editore incarnate da Foà e da Calasso che allora non trovarono più un punto di compromesso, la volontà di un dialogo, di un’intesa: responsabilità versus libertà, decisione concertata versus accentramento direttivo. E su queste questioni, assai complesse e oggetto di continue discussioni nel mondo editoriale di ieri e di oggi, provo a soffermarmi nell’ultimo paragrafo, attraverso il ritrovamento di alcune carte inedite che consentono di mettere a fuoco le diverse visioni che allora maturarono fra il fondatore e il rampante direttore editoriale.
Cosa significa, per la casa editrice, la scomparsa di Roberto Calasso?
I dati di vendita dei libri Adelphi di Carlo Rovelli e di Emmanuel Carrère, per esempio, nonché le opere postume di Calasso stesso da Bobi e Memè Scianca, uscite proprio il giorno dell’improvvisa scomparsa dell’editore, fino all’ultimo L’animale della foresta fresco fresco di stampa, testimoniano di una casa editrice in piena salute. Ma certamente la morte di Roberto Calasso ha rappresentato una ferita umana e intellettuale profonda, venendo a configurarsi a mio avviso come nuova cesura periodizzante in questa storia editoriale, e proprio per il ruolo decisivo che Calasso ha rivestito anche, come si diceva, nella ri-significazione mitica del marchio. Siamo ora all’abbrivio di un’inedita terza fase i cui orizzonti di sviluppo sono difficili da prevedere, a maggior ragione perché manca ancora una messa a punto storiografica sull’eredità, non solo letteraria, ma soprattutto editoriale, di Roberto Calasso: ovvero, per rimanere in questa tripartizione, non disponiamo ancora di una riflessione puntuale e storicamente fondata sulla seconda fase, quella che dal ritiro di Luciano Foà alla metà degli anni Novanta giunge ai primi vent’anni del nostro secolo. Nel mio libro, come detto, mi arresto al 1994, perché lì credo che si addensino molti elementi che conducono a individuare a quell’altezza l’abbrivio di una nuova stagione, stagione in cui Roberto Calasso stesso guadagnerà una definitiva centralità. Ma probabilmente per una corretta messa a fuoco storiografica di questi ulteriori trent’anni occorre una maggiore distanza temporale. A tal proposito sarebbe poi auspicabile un ancoraggio a nuove fonti documentarie che si rendessero eventualmente disponibili per illuminare con maggior cognizione di quanto io abbia potuto fare il profilo di Roberto Calasso, certamente un editore protagonista. Forse l’ultimo.
Anna Ferrando è professoressa a contratto di Storia transnazionale della cultura nell’Italia contemporanea all’Università di Pavia. Tra le sue pubblicazioni Cacciatori di libri. Gli agenti letterari durante il fascismo (Franco Angeli, 2019) e Stranieri all’ombra del duce. Le traduzioni durante il fascismo (a cura di, FrancoAngeli, 2019).