“Acqua passata, Gloria futura. I fiumi nella Divina Commedia” di Ricardo Lucio Perriello

Prof. Ricardo Lucio Perriello, Lei è autore del libro Acqua passata, Gloria futura. I fiumi nella Divina Commedia edito da Aracne: quale valenza simbolica possiedono i fiumi nel capolavoro dantesco?
Acqua passata, Gloria futura. I fiumi nella Divina Commedia, Ricardo Lucio PerrielloLa mia proposta di riflessione filosofica tenta di sottolineare come i fiumi nella Divina Commedia possano essere intesi quali simbolo della vita umana nel suo degenerare, nel suo rigenerarsi, mondandosi dal peccato, e nel suo esito glorioso, concernente la contemplazione beatifica di Dio.

La metafora fluviale costituisce un’icastica ed efficace rappresentazione sensibile dell’esistenza umana, esistenza temporale, continuamente in movimento, un passaggio, un divenire, tutt’altro che incomprensibile. Questo divenire ha il suo senso, ha la sua direzione, ed ha la sua comprensibile degenerazione: il movimento umano, infatti, non è necessariamente destinato al bene, bensì, prevedendo la libertà, una libertà limitata e finita, può degenerare verso il vizio e verso il male.

I principi che sovrintendono l’intera realtà, costituiscono il fondamento della comprensione della virtù, quale progressivo tendere al bene, virtù che si affina e si corrobora, ma anche del vizio, come allontanamento dal bene medesimo e progressivo degenerare di tutte le dimensioni umane. La filosofia, scienza dei principi che fondano tutto ciò che è, può comprendere queste due tendenze: il muoversi vero il bene, con una virtù che realizza al meglio l’essere umano, ed altresì il vizio, come progressivo allontanamento dal bene, che deturpa sempre più l’uomo.

I vari fiumi che incontriamo nella Divina Commedia, esprimono questo duplice processo, un processo dinamico e progressivo, fluido e incessante, caratterizzato da opposte dinamiche che , come definite dagli argini dei fiumi, possono essere comprese secondo la loro direzione. E questa direzione è duplice: o degenera verso il male nell’allontanamento dal bene o risana l’uomo progressivamente, per indirizzarlo al Sommo Bene.

I fiumi, su cui mi sono maggiormente soffermato nella mia proposta, sono quelli fondamentali per la scansione delle tappe dell’itinerario dantesco, un itinerario che, consapevole del suo senso profondo: salvarsi dal peccato nell’orizzonte dell’ultima salute, Dio, procede per tappe verso una sempre maggiore conoscenza del male e, sulla base di principi ultimativi, della capacità umana di redimersi dal male indirizzando la vita verso il Sommo Bene, ed altresì, aprirsi alla medesima grazia di Dio, una grazia che risana e compie quella ragione umana non annichilita dal peccato originale, ma deturpata comunque da esso.

Cosa rappresentano i fiumi infernali, Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito?
L’inferno ci mostra la degenerazione umana, una degenerazione che si discosta da Dio e si inabissa nell’oscurità e nella morte, esito di una vita progressivamente più viziata, un vizio sempre più profondo e radicale, che si conficca nel ghiaccio gelido di una morte eterna, eternamente ravvivata da ali luciferine, che diffondono freddo e male, senza alcuna speranza ed alternativa.

I fiumi che rappresentano l’Inferno sono Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito: sono differenti forme di un medesimo corso di acque oscure che si avvicendano, si nascondono, penetrano nelle fessure infernali e si aggravano.

Il primo fiume è l’Acheronte, dove irrompe Caronte dagli occhi di bragia; ammonisce, urla, minaccia, fende colpi violenti su un fiume torbido, in un’atmosfera oscura, esito di una vita viziata, non illuminata dal bene.

Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: Guai a voi, anime prave!

Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo.
[1]

Il secondo è la palude Stigia, melma paludosa, putrida dove vi sono gli iracondi, che guizzano fuori dall’acqua, viscidi e infangati; quella palude ribolle dei sospiri degli accidiosi, dalla vita senza senso, senza luce ed orizzonte, il ristagno simile alla putredine della malattia, una malattia mortale che invade l’anima e la uccide, l’anima creata come forma vitale, l’anima creata per la vita eterna, per un eterno contemplare la luce di Dio, fonte di essere e di bontà, origine di ogni trascendentale, sede della beatitudine. Ma la vita peccaminosa la degrada, e la affoga nel fango di una palude, in un eterno supplizio che singhiozza e sospira, laddove non può esservi respiro.

Il Flegetonte è un fiume di sangue bollente, come la ferita della cancrena che stilla sangue, stillando una vita che si spegne e che cola verso la morte, le pareti dei gironi più bassi ne sono intrise, pregne di quel sangue putrido, prossimo alla freddezza gelida della morte, che piomba definitivamente nel Cocito, fondo dell’inferno, piana di ghiaccio. Il fiume del peccato si ferma nella morte, esalando gli ultimi respiri di vita, le ultime lacrime che effondono dal cuore ormai spento, e si cristallizzano in cumuli di ghiaccio, seppellendo l’uomo, come feluca nel vetro, nella rigida lastra ghiacciata.

Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia
La riviera del sangue, in qua bolle
Qual che per violenza in altrui noccia.
[2]

Virgilio, guida razionale, spiega a Dante l’origine dei fiumi infernali, attraverso un’immagine mitica, proveniente dal mondo antico e dalla Sacra Scrittura: è il veglio di Creta, icastica rappresentazione di un concetto razionale, che spiega molto della vicenda umana, della gloria degli uomini, che sempre è minacciata dalla scomparsa, dalla morte, dalla caducità, e questa caducità atterrisce l’uomo, provocando il suo antico e perenne pianto, un pianto che scende e perisce, che occidit l’uomo nel suo tramonto, se non rinvigorito dalla speranza, se non rinnovato dalla visione del Sole, ed il Veglio di Creta guarda il tramonto, volge le spalle all’Oriente, laddove sorge il sole che rinnova la vita….il Sole è nuovo ogni giorno, come sostenne Eraclito. Chi toglie lo sguardo dal Sole, non si rinnova, ma si manda in rovina, si annichilisce come festuca in vetro.

Lo ‘mperador del doloroso regno
da mezzo ‘l petto uscia fuor de la ghiaccia;
e più con un gigante io mi convegno,

che i giganti non fan con le sue braccia:
vedi oggimai quant’esser dee quel tutto
ch’a così fatta parte si confaccia.
[3]

Ma questa prospettiva concerne la disperazione infernale, la quale, lasciata ogni speranza, si addentra nell’abisso. Tuttavia, la prospettiva sinottica di Dante supera la dimensione infernale ed ascende oltre, sondando il male nell’abisso e vincendolo verso il bene, con un’ascesa progressiva che capovolge lo stesso male nella sua radicalità e riporta l’essere umano sulla via del bene, un bene che è , dapprima, purificazione e virtù ed, in seguito, contemplazione e gloria. Virtù cardinali e teologali si alleano, fede e ragione si abbracciano e si involano verso la contemplazione della Verità. È la prospettiva del Purgatorio e del Paradiso.

In che modo i fiumi purgatoriali, Lete ed Eunoè, mostrano la rigenerazione umana conseguente alla purgazione dal peccato?
Per ciò che concerne il Purgatorio, i due fiumi che strutturalmente gli appartengono, nella sua vetta altissima e sospesa, che è il Paradiso Terrestre, sono il Lete e l’Eunoè.

Il Lete, dal greco lanthano –dimentico-, è collegato ad una dinamica, attraverso la quale Dante dimentica il male compiuto e lo supera, aprendosi ad un futuro di maggiore virtù e minore condizionamento dal dolore e dalle colpe passate. Il passato provoca nel poeta rammarico, risentimento, rimpianto, un rimpianto che blocca il pentimento ad uno stagnante senso di colpa, refrattario a quel rinnovamento e a quell’ascesa verso Dio, che il poeta dall’infima lacuna persegue.

La bella donna ne le braccia aprissi;
abbracciommi la testa e mi sommerse
ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi.

Indi mi tolse, e bagnato m’offerse
dentro a la danza de le quattro belle;
e ciascuna del braccio mi coperse.
[4]

L’immersione al fiume Lete provoca quel distacco dal senso di colpa, dalla vincolante memoria di un peccato le cui ombre avvinghiano il presente e persino il futuro. Attraverso l’immersione nel Lete Dante dimentica il passato, questa dimenticanza si profila non tanto come un mero scordare il passato, un’ingenua smemoratezza, bensì un superamento attivo e proattivo del passato, simile a quella frankliana dereflessione tramite la quale l’essere umano si distanzia da se medesimo e dai suoi più cupi condizionamenti, per aprirsi a ciò che è oltre se stesso, ad un valore da perseguire, ad un progetto da realizzare, ad una persona da amare. È questa la funzione del Lethe, divincolarsi dalle tenebre del passato e integrarlo con il meglio di sé, con il senso della propria esistenza, con una speranza che apre al futuro e lo rende quanto più prossimo, quale luce che si diffonde raggiungendo il nostro intimo, in tutta la sua positiva potenzialità, nonché nelle sue parti oscure, irrisolte, ma non più così vincolanti da vanificare la nostra libertà. L’esito della immersione nel Lete è la liberazione delle proprie virtù, cardinali e teologali, che danzano nel Paradiso terrestre come fanciulle, in un’eterna primavera, da cui si invola lo spirito che si rinnova e che ascende alla propria origine superna. Consequenziale al Lete è, infatti, l’Eunoè, che farà rinascere il poeta come una pianta, nei virgulti di una rinnovata esistenza, in cui convergono proattivamente tutte le più alte potenzialità umane, ormai rivolte al bene e libere dal peccato, ben consapevoli delle dinamiche del peccato, ma capaci di comprenderle, superarle e dominarle….un’enkrateia ,che si rinnova e si sviluppa nella sempre pù piena conoscenza di se stessi, e tale conoscenza si radica nel Sommo Bene, suo termine ultimo, telos supremo che rappresenta il vertice del Paradiso il nucleo dell’Empireo medesimo, che solo amore e luce ha per confine e che , Sommo Bene Diffusivum Sui per l’Universo si squaderna.

Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire a le stelle.
[5]

Cosa simbolizza il fiume di luce paradisiaco?
Nel Paradiso abbiamo un fiume di luce che procede da Dio, come un punto luminosissimo, e , riconvertendosi e ritornando a Lui, si trasfigura nella forma di una Candida Rosa. Il comparire della candida rosa è leggibile come un evento dell’interiorizzazione, del percorso che porta l’uomo all’approfondimento della conoscenza di sé, una conoscenza che, più si interiorizza, più si apre all’Assoluto, all’eterno e a Dio.

L’immagine del fiume non è più legata all’acqua, ma alla luce, una luce che da Dio procede, come un fiume luminoso inghirlandato da fiori oro e rubino, che rappresentano gli angeli. Dante vi si china con un atto di raccoglimento ed interiorizzazione, approfondisce il suo essere ed affina la sua visione in questa interiorizzazione aperta a Dio, nostra origine. L’adagio procliano dell’Elementatio Theologica, secondo il quale la conoscenza di se medesimi si enuclea nella conoscenza dei nostri principi, è in questa dinamica paradisiaca perfettamente rispecchiata. In questa dinamica si assiste all’effusione del fiume da Dio ed al ritorno glorioso di questo fiume a dio medesimo, un’epistrofè circolare che compie il proodos, e fa sorgere la candida rosa, una platea di beatitudine e di beati che contemplano e godono di Dio, partecipando alla sua gloria sempiterna. Un essere che è luce compiuta, una luce che è contemplazione.

La contemplazione gloriosa di Dio, lumen gloriae, è l’esito finale e glorioso della vita umana, che scorre come un fiume, che può degenerare verso la morte oppure rigenerarsi, liberarsi dal peccato e procedere verso il sommo bene. Natura e grazia si alleano e si realizzando appieno godendo della gloria di Dio, questa contemplazione ci indica la nostra origine ontologica, nonché realizza la piena consapevolezza dell’uomo su se stesso, al cospetto della sua ultima verità.

E la verità dell’uomo si enuclea nella Trinità divina, che Dante contempla per intercessione della Vergine. In quella circulazion così concetta, Dante contempla la nostra effige, ossia l’archetipo dell’uomo che è in Dio, che, nella persona del Figlio dalle due nature, divina e umana, è eternamente amato e pensato da Dio, che ci chiama ad amarlo sempre, perché Dio ci ama sempre, comunque.

Quella circulazion, che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,

dentro da sé del suo colore stesso,
mi pareva pinta la nostra effige;
per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.
[6]

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[1] If. III, vv. 82-87
[2] If. XII, vv. 46-48
[3] If. XXXIV, vv. 28-33
[4] Pg. XXXI, vv. 100-105
[5] Pg. XXXIII, vv. 142-145
[6] Pd. XXXIII, vv. 127-132

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