
Tra la televisione e i suoi pubblici c’è un idillio che dura, almeno in Italia, da oltre sessant’anni, ed è molto difficile che s’interrompa bruscamente, nonostante le nostre pratiche quotidiane siano sempre più legate alle piattaforme digitali. La televisione ha gradualmente fatto evolvere il pubblico, determinando in modo riflesso i suoi stessi cambiamenti tecnici e linguistici. Nel libro propongo l’idea di analizzare la televisione all’interno di una storia complessiva dell’industria culturale, che prende avvio quando il pubblico si fa committente. A partire dall’Ottocento, infatti, le produzioni culturali hanno iniziato ad assumere una logica commerciale, grazie alla quale si sono rivolte e hanno raggiunto un pubblico nuovo, corteggiandolo e portando alla sua attenzione prodotti adatti a nuovi saperi, aspettative e desideri. La letteratura, il cinema e la televisione si succedono quindi per rispondere a nuove esigenze culturali in modo sempre più efficace. In questo lungo processo storico, il reality show rappresenta un momento di rottura, per me epocale, perché il pubblico varca la soglia magica dello schermo e diviene protagonista della rappresentazione. Nonostante la tecnologia del broadcasting preveda una diffusione unilaterale e verticale dei messaggi, la televisione è riuscita a intercettare e a tradurre meglio dei media che l’hanno preceduta le istanze del proprio tempo: la massa, dopo essersi progressivamente avvicinata allo schermo, ha iniziato a bussare all’uscio dello spettacolo televisivo ed è entrata al suo interno.
Qual è l’importanza del reality show nella costruzione dell’immaginario collettivo?
Io credo che il reality sia stato fondamentale per due ragioni: da una parte ha rappresentato il momento conclusivo di una parabola, che ha portato lo spettacolo a coincidere con la vita quotidiana. Il Grande Fratello, alla fine degli anni Novanta, è sembrato un format di rottura radicale, perché fino a quel momento le persone ordinarie e le loro azioni quotidiane non erano mai state considerate degne di essere osservate. Anche quando le persone comuni entravano negli studi televisivi, per esempio attraverso i telequiz, erano sempre portatrici di un sapere straordinario. Il Grande Fratello sembrò, quindi, qualcosa di completamente nuovo, ma a mio avviso la televisione si stava semplicemente scrollando di dosso le limitazioni e le ideologie del passato, trovando il suo linguaggio specifico, la sua forma espressiva più compiuta.
Dall’altra parte, se li osserviamo in maniera retrospettiva, i reality sono stati il punto di accesso preferenziale ai linguaggi digitali. Nel testo mi soffermo, ad esempio, sui talent show come Amici o X Factor, interpretandoli come momenti di snodo della cultura amatoriale, un passaggio storico fondamentale per il successivo sviluppo del web 2.0 e della cultura partecipativa.
La voglia di conquistare la ribalta della scena pubblica non è stata completamente sedata dai reality show, oggi sono altri media, con caratteristiche tecniche più specifiche, a dare risposte maggiormente efficaci ai desiderata dei pubblici. Penso in particolare a Facebook e Instagram, che con la logica di funzionamento della televisione intrattengono un rapporto strettissimo. Oggi ciascuno può mettere in scena il proprio reality quotidiano: è sufficiente possedere uno smartphone e avere alcuni rudimenti di fotografia o di videoediting e ci si può rivolgere a una audience potenzialmente sterminata, mettendo in vetrina il proprio quotidiano. Questo è anche il motivo per il quale i reality, negli ultimi anni, sono stati spesso penalizzati dai dati di ascolto. È abbastanza ingenuo pensare che il reality show sia morto, al contrario, io credo che il reality si sia fatto mondo. Intendo dire che la sua forma culturale ha pervaso sia i nuovi media digitali sia buona parte delle trasmissioni che affollano i palinsesti della televisione contemporanea. Si pensi, per esempio, ai programmi sportivi: le telecamere, da qualche anno, riprendono anche gli spogliatoi delle squadre di calcio, che un tempo erano considerati luoghi sacri e inviolabili; la cultura della trasparenza integrale veicolata dal reality ha portato ogni programma televisivo a svelare il proprio retroscena, determinando un collasso delle situazioni sociali, che non rende più possibile distinguere tra pubblico e privato, annientando ogni forma di privacy, fino a renderla sconveniente. Tra il pubblico e lo spettacolo televisivo c’è un inedito patto di chiarezza che ha preso piede dopo l’avvento dei reality. Non è forse questo il segno di una presenza indelebile del reality show sui funzionamenti dei media contemporanei?
In che modo si può considerare la televisione come forma culturale?
Il titolo del mio libro è Abitare la TV proprio perché ho analizzato la televisione non solamente come un messaggero, vale a dire come uno strumento che consente di trasmettere a distanza una informazione. La televisione può e deve essere vista anche come un ambiente che ha dato forma alle nostre vite, costituendo la cornice delle relazioni sociali e del modo di pensare contemporaneo. In questo senso, la TV ha gettato la sua impronta culturale sulla seconda metà del Novecento, imponendo in modo indiretto, dilatato nel tempo e, quindi, non immediatamente visibile, i suoi effetti sulla società. Non mi riferisco agli effetti sulle opinioni o sui consumi, ma a una influenza più profonda, che ha generato un mutamento che si potrebbe definire antropologico. Lo ha fatto attraverso il proprio immaginario, che ha avuto una potenza inaudita, ma anche attraverso i suoi funzionamenti tecnici. Si pensi a cosa abbia rappresentato per un pubblico educato dalle forme comunicative del cinema e dalla RAI di Ettore Bernabei – un pubblico abituato a un regime scopico rigido e dalla vocazione educativa e universalista – accedere al multicanale, ovvero conquistare la libertà di comporre una fruizione giornaliera personalizzata. Non è un cambiamento di contenuto, che può essere letto solamente in termini di moltiplicazione delle possibilità di intrattenimento, si tratta di un mutamento sociale e culturale molto più ampio, che mette lo spettatore nelle condizioni di pensarsi come un soggetto attivo del processo comunicativo. La televisione ha creato un “tipo” televisivo, una particolare forma umana che ha assunto alcuni caratteri della cultura televisiva e dei suoi funzionamenti. Come il regista canadese David Cronenberg lascia dire al Prof. Oblivion in Videodrome: “lo schermo televisivo è oramai l’unico occhio della mente umana”. La televisione non è uno strumento da conoscere per essere utilizzato nel modo più efficace possibile, è una tecnologia incarnata, che influenza i comportamenti dell’uomo in ragione delle sue caratteristiche etiche ed estetiche, che si trasformano in altrettanti mutamenti culturali.
Nel Suo testo, Lei analizza la figura del «tronista»: quale ne è la fenomenologia?
Il tronista è la figura simbolo della televisione generalista che ha conquistato il suo specifico televisivo. La trasmissione che lo ha consacrato s’intitola, in maniera paradigmatica, Uomini&Donne. Il titolo evoca una certa indistinguibilità delle identità e dei profili dei suoi protagonisti, che devono essere il riflesso del pubblico domestico: uomini e donne ordinari, intercambiabili, che dialogano in maniera orizzontale con il pubblico in studio e con quello domestico. Come capita spesso ai programmi di Maria De Filippi, anche questo ha riscosso grande successo fin dai suoi esordi, nel 1996, quando era un semplice talk show. Nel 2001 subisce un cambiamento stilistico rilevante, divenendo uno dei principali programmi della reality tv italiana.
Il tronista è un uomo (o una donna) seduto su un trono collocato al centro dello studio televisivo, con due ali di corteggiatrici pronte a sedurlo. Quando i protagonisti terminano il proprio ciclo di puntate, diventano delle celebrità generaliste: conquistano la copertina dei giornali patinati, le loro foto appaiono su tutte le piattaforme comunicative e la televisione utilizza questi e altri personaggi fuoriusciti dai reality show per animare i “contenitori” televisivi pomeridiani o domenicali. I tronisti subiscono dunque continue ri-creazioni a causa della loro condizione cross mediale, che li modifica, li modella, secondo le esigenze più diverse. Il successo dell’una o dell’altra celebrità è legato alla capacità di metamorfosi, l’unica abilità richiesta per abitare l’intima società dello spettacolo, organizzata dai tempi rapidi della moda. Ciò li espone a una consumazione precoce. Per tale ragione, in maniera più accentuata rispetto agli altri protagonisti della televisione, i tronisti hanno la costante preoccupazione di “essere se stessi”, un tic derivante dalla perenne esposizione mediatica, che impone loro un particolare regime di sincerità e, soprattutto, una coerenza di fondo, messa a repentaglio dalla condizione mutante cui sono costretti dalla televisione. L’essere se stessi è un dogma frutto di uno stato confusionale, tipico di coloro che, senza un tirocinio, sono catapultati al di là dello schermo e, all’improvviso, divengono attori senza nessun personaggio da interpretare, se non se stessi. Da qui l’affannosa ricerca di una coerenza con il proprio io pre-televisivo, che diviene il piano narrativo su cui si sviluppa, sovente, la presenza di tali personaggi nei format televisivi.
U&D può essere considerato il momento culminate della televisione generalista italiana: la forma del programma dimostra che il rapporto paritetico tra pubblico e schermo, messo in scena dalla televisione per lungo tempo, ha determinato una indisponibilità a riconoscere rapporti gerarchici, ricercando nello schermo il proprio riflesso, anche deformato, e il riflesso degli aspetti familiari della vita quotidiana. I modelli alti sono divenuti meno attraenti di quelli ordinari poiché costringono il pubblico a un rapporto verticale, estraneo all’estetica neotelevisiva. Gli autori di U&D hanno rappresentato questo mutamento in maniera impeccabile: quando i tronisti entrano nello studio televisivo, scendono da una scalinata incastonata tra il pubblico: una discesa dal cielo alla terra delle star, che mette in scena la mondanizzazione dello spettacolo televisivo.
Quali differenze esistono tra i divi del cinema e le celebrità televisive?
I primi divi del cinema erano infinitamente distanti dall’uomo comune e ciò che più di ogni altra cosa marcava lo iato con il pubblico era la loro natura immortale. Il divo aveva l’orizzonte dell’eternità, che lo star system ricercava attraverso il camuffamento dei corpi e la scomparsa dalla scena pubblica, prima che lo scorrere del tempo potesse comprometterne la potenza simbolica. Il divo delle origini ha un’aureola mitica che deriva dal suo particolare rapporto con il tempo, è Roland Barthes ad averlo spiegato con alcune pagine splendide dedicate al viso di Greta Garbo. Garbo appariva sempre uguale a se stessa, un’attrice monumentale. La maschera di cipria e stucco che l’avvolgeva era il simbolo di un tempo immobile, arrestato sullo splendore del suo viso. Lo schermo cinematografico lo mostrava al pubblico e, allo stesso tempo lo metteva a riparo, come in una teca, relegandola in una dimensione d’intangibilità assoluta, che la poneva al di là della storia, in un modo di sogno abitato solamente da divinità. C’è una chiara ragione mediologica che spiega questa fase del divismo: il cinema, al contrario della televisione, consente una partecipazione estetica del pubblico alla narrazione, ma lo tiene a distanza, collocandolo in una posizione laterale, estranea alla scena.
La televisione, al contrario, attraverso il reality comunica se stessa, veicola la propria logica di funzionamento e ne produce un’immagine concreta, che il pubblico può toccare e ambire. Tale autoreferenzialità diviene evidente in U&D perché la vita condotta nella trasmissione, sotto l’occhio della regia televisiva, confligge con la vita privata dei tronisti lontana dalle telecamere. Tutto ciò che è esterno alla trasmissione ne compromette l’integrità, la purezza spettacolare, pertanto è implicitamente proibito, per consentire al pubblico di non perdere di vista le azioni dei personaggi dello schermo. Nessun comportamento è formalmente vietato, ciò che è osteggiato dagli autori del programma è la possibilità di una vita oltre lo schermo, vale a dire oltre lo sguardo del pubblico, con il quale si stabilisce una interazione parasociale basata sulla ricorsività degli incontri, che determina una conoscenza intima, privata di possibili buchi narrativi. Questo meccanismo finisce per estendere il controllo della telecamera su ogni istante della vita dei protagonisti dello spettacolo, e quando la trasmissione si conclude, accade spesso che Canale 5 metta in onda puntate speciali in cui si raccontano gli sviluppi successivi della vita del tronista, per consentite al pubblico di avere notizie, esattamente come accade con una persona cara che si è persa di vista.
Oggi è molto difficile riferirsi alla celebrification isolando solo il medium televisivo, per via della natura convergente della produzione culturale che ricorre in maniera sempre più massiccia a prodotti spendibili su una molteplicità di piattaforme differenti, richiedendo al consumatore una partecipazione costante nell’opera di ricomposizione del prodotto transmediale. Quindi il pubblico, specie negli ultimi anni, può seguire la vita dei protagonisti dei reality sui social network e sui giornali di gossip, senza sprofondare in quel vuoto di sapere cui lo costringeva la programmazione televisiva classica.
In che modo la TV ha influenzato e sta influenzando la nostra società?
Non credo che si possa scindere con disinvoltura la televisione dalla società, soprattutto se si considera il medium in maniera non strumentale, come ho provato a fare nel libro. Se intendiamo la società come il luogo d’incontro degli uomini o se la intendiamo come il frutto delle relazioni umane, in entrambi i casi la televisione ha un valore fondativo, perché produce società. La sociologia, penso in particolare agli studi di Joshua Meyrowitz e Paddy Scannel, ha già indagato questa specifica potenzialità della TV, ma in Withe Noise, uno dei romanzi più belli di Don DeLillo, la vocazione della TV a generare nuove forme dell’abitare si esprime con una forza simbolica molto forte. Lo scrittore americano, già negli anni ’80, con una folgorante abilità narrativa, affidava alla televisione il ruolo di sottofondo della vita familiare, uno sfondo dal quale è impossibile sottrarsi, perché coincide interamente con l’ambiente fisico. La televisione è un rumore bianco che s’insinua nella vita domestica, producendo un torpore che porta a una incapacità di distinguere l’effetto del medium – fino a far divenire irrilevante la stessa necessità di distinguere. In maniera più o meno conscia, abitiamo la TV perché essa modella il nostro modo di pensare e di entrare in relazione con l’altro. Per quanto mi riguarda, non credo si debbano però immaginare degli effetti diretti e osservabili, la televisione ha delle logiche di funzionamento che divengono la base psicologica della nostra esistenza. Mi pare che, in questo senso, non ci sia nessuno che meglio di Marshall McLuhan abbia compreso questo medium.
La televisione, dunque, pur collocandosi frontalmente rispetto allo spettatore, non può essere considerata una tecnologia esterna; essa, al contrario, a partire dalle prime sperimentazioni degli anni Trenta, è stata interiorizzata dal pubblico, che se ne è fatto immediatamente incantare e plasmare. La tv è divenuta il “medium della percezione”, il modo in cui gli uomini occidentali hanno organizzato e modellato le proprie vite, dal dopoguerra a oggi. La TV ha inaugurato un inedito modo di vedere che non può essere ricondotto a un affinamento genetico, ma a un mutamento culturale profondo, che coinvolge la capacità investigativa dell’occhio, la sua attitudine alla conoscenza. Un adattamento focale e un nuovo regime percettivo, che hanno prodotto effetti sociali, culturali ed estetici. La televisione è un territorio in cui lo spettatore fa esperienza del mondo e le immagini che egli immagazzina condividono la stessa porzione di memoria che occupano quelle provenienti dal mondo fisico.
Oggi la parola televisione sembra essere divenuta insufficiente a spiegare le molteplici sfumature che ha assunto il medium dopo l’incontro con le tecnologie digitali, ma conoscere la fase aurorale del mezzo e i suoi sviluppi storici e culturali, è il punto di partenza per capire la virata delle attuali forme post-televisive.
Tito Vagni è Docente di Sociologia dei Media presso il Dipartimento di Comunicazione, Arti e Media dell’Università IULM di Milano