
Procedendo in modo cronologico, ho cercato di descrivere la duplice strategia del regime fascista, che ha ripetutamente denigrato e umiliato la funzione della critica letteraria, pur tentando contemporaneamente di controllarne la produzione, e addirittura di incentivarla attraverso numerose istituzioni ufficiali, come i Centri Nazionali di Studi letterari che vennero creati alla fine degli anni Trenta. La mia ipotesi è che la strategia corresse sì su un duplice binario, ma che la direzione del regime fosse una sola: forgiare un discorso unico e totalitario sulla letteratura, omogeneizzando e strumentalizzando la critica letteraria.
Dove affondava le proprie radici tale atteggiamento?
Le prime cinquanta pagine del libro sono dedicate alle polemiche letterarie del periodo pre-fascista, in modo da illustrare le radici culturali e ideologiche profonde di tale atteggiamento, e non commettere l’errore di attribuire al fascismo l’intera paternità di un certo discorso contro la critica e contro i critici letterari. Ben anteriore al 1922 è la diffidenza nei confronti della critica letteraria in quanto attività sospetta di parassitismo, di sterilità creativa compensata da una proliferazione verbosa ed erudita, ma ritenuta inutile, se non addirittura nociva per comprendere davvero i classici della letteratura. E ben anteriore al 1922 è la diffidenza nei confronti dei critici letterari, in quanto artisti ratés, che non hanno il coraggio della creazione ma solo la vigliaccheria di chi giudica le opere altrui, nascondendosi dietro gli occhiali spessi, gli scaffali polverosi della biblioteca, le formule astruse della critica estetica crociana o i “documenti” del metodo storico. Come si evince da questa ultima frase, il discorso si nutre anche di tutta una serie di topoi e pregiudizi che ebbero poi, durante il Ventennio, una diffusione molto importante: dalla torre d’avorio al topo di biblioteca, dall’erudito senza vigore, grasso o magrolino, alla figura del critico “infemminito” e “ebreizzato”, tutte queste figure dello “spregio” confluiscono nella retorica fascista.
La novità dell’atteggiamento del regime fascista – segnatamente dopo la vicenda del manifesto gentiliano degli intellettuali fascisti nel 1925 cui risposero subito Croce ed Amendola con il loro Antimanifesto – sta nel dare a questo tipo di discorso antintellettualistico e anticrociano un taglio sempre più marcatamente politico e, parallelamente, nell’usare i nuovi strumenti della politica culturale per canalizzare l’attività dei critici letterari all’interno di una concezione e di strutture totalitarie. All’inizio della Seconda guerra mondiale, in base a un monito ribadito da molte testate letterarie, il critico letterario voleva o doveva essere non un “intellettuale”, ma un “professionista” militante che lavorava attivamente per l’Italia fascista.
Quali strategie adottò il regime per integrare e arruolare nel progetto politico fascista i critici?
Nel 2016, Gabriele Turi ha proposto come titolo della sua monografia sull’Accademia d’Italia – una delle principali istituzioni di cui si fosse dotato il regime fascista per attuare la sua politica culturale – la formula Sorvegliare e premiare. La trovo molto efficace, e credo definisca gran parte della strategia fascista per integrare e arruolare gli intellettuali, tra cui i critici letterari.
Certo, i fascisti non hanno solo premiato, hanno anche “punito” – in riferimento al secondo termine del dittico originale di Foucault, da cui prende le mosse Turi – ed è perciò indispensabile parlare anche delle forme di repressione che subirono alcuni critici letterari. Pensiamo alle ferite mortali inflitte a un Pietro Gobetti, e a quelle meno gravi ma traumatizzanti subite dagli studenti che seguivano il corso di estetica di Giuseppe Antonio Borgese nell’ateneo milanese, quando la sua aula venne ripetutamente invasa dai fascisti, con il beneplacito del GUF locale e delle massime autorità accademiche (ma non di Mussolini, che anzi mandò un telegramma perché cessassero subito gli “incidenti”); pensiamo alla casa di Benedetto Croce saccheggiata nottetempo da un gruppo di fascisti; pensiamo alle intimidazioni contro chi, nella stampa, era sospettato di fare opera di propaganda antifascista quando affermava il crocianesimo del proprio metodo critico, come Luigi Russo che venne minacciato da Alessandro Pavolini e poi di fatto perse la direzione della rivista “La Nuova Italia”; pensiamo a quei pochi professori universitari che rifiutarono di prestare il giuramento di fedeltà al regime dopo il 1931 e furono esclusi dall’insegnamento, e pensiamo, ovviamente, a tutti i critici ebrei a cui le leggi razziali del 1938 impedirono progressivamente di insegnare, pubblicare, appartenere a un’accademia culturale, frequentare le biblioteche.
Ma la realtà della repressione non deve farci dimenticare le forme di consenso e di collaborazione attiva di una gran parte dei critici letterari, che in questo non furono affatto diversi dagli altri intellettuali. Offrendo loro di collaborare alle nuove istituzioni fasciste e al progetto antropologico e totalitario di fare “l’uomo nuovo” anche attraverso una cultura nuova, il regime proponeva agli intellettuali una forma di valorizzazione morale e ideologica della propria funzione sociale, cui era senz’altro difficile rinunciare. E di fatto divenne anche sempre più difficile, e poi impossibile, avanzare nella carriera accademica e letteraria – durante gli studi universitari, con la partecipazione ai Littoriali; poi nella ricerca di una cattedra universitaria, nelle opportunità di pubblicazione e nel sistema molto vincolante delle premiazioni – senza compromettersi, almeno in parte, col regime. Da questo punto di vista, la strategia di controllo e di centralizzazione progressiva delle istanze da cui proveniva un discorso critico sulla letteratura funzionò egregiamente, tanto che, a tracciare il quadro generale della seconda metà degli anni Trenta, sembra che ci fossero ormai tutte le strutture per garantire una certa omogeneità, almeno ideologica se non metodologica, della critica letteraria, e che la prospettiva di una critica totalitaria non fosse affatto lontana.
Come si espresse la critica letteraria di ispirazione fascista?
Questa è senz’altro una delle domande più complesse, poiché risulta molto difficile definire gli steccati entro cui si mosse una critica “di ispirazione fascista”, nonché affermare l’esistenza di una critica fascista. Penso che si possa dire della critica letteraria quanto è già stato detto dalla storiografia più recente rispetto ad altre forme artistiche e culturali, ovvero che la peculiarità del totalitarismo fascista italiano sta nell’aver garantito una pluralità estetica e di non aver mai imposto un’arte di regime, come avvenne invece a Berlino e a Mosca nello stesso periodo. Tuttavia, questo eclettismo artistico e metodologico non è da interpretarsi come un’imperfezione del totalitarismo fascista, bensì come un’arma, una strategia appunto, che è risultata alquanto efficace per integrare una maggioranza di artisti e intellettuali all’interno di un progetto comune.
Le autorità fasciste ribadirono negli anni Venti e Trenta lo stesso concetto, per cui nessuna scuola critica letteraria poteva presentarsi come la vera e unica critica fascista: nel corso degli anni, mutarono progressivamente alcuni rapporti di forza (per esempio a scapito dell’estetica crociana e a favore della critica cattolica negli anni del Concordato; oppure prima a scapito poi a favore del metodo storico, che dopo una fase di declino sembrò invece trovare nuovo vigore negli anni Trenta attraverso una impostazione di tipo patriottico-nazionalistico), ma coesistevano di fatto scuole e correnti critiche letterarie molto diverse, e talvolta avverse, che intendevano però esprimere una loro “ispirazione fascista”.
Se si dovesse tuttavia cercare un denominatore comune a tutta la produzione critica dichiaratamente fascista, penso che lo si possa trovare nella convinzione condivisa di una politicità strutturale della letteratura – convinzione che si opponeva alla rivendicazione crociana dell’autonomia dell’arte. In una concezione totalitaria dello Stato dove tutto è politica, anche la letteratura è politica, e anche il modo di leggere la letteratura è politica.
Che ruolo svolse la questione razziale in tale processo?
Oltre alle già citate forme di repressione che colpirono i critici letterari ebrei, e prima ancora delle leggi razziali del 1938, la dimensione razzista e antisemitica si riscontra in molti testi di critica letteraria e sulla critica letteraria. Lo spoglio sistematico di alcune riviste letterarie – in particolare quelle di Telesio Interlandi – rivela che sin dalla fine degli anni Venti la figura del critico letterario viene spesso denigrata anche proprio come figura dell’intellettuale “ebreizzato”. Questa parola non si rifà alla religione del letterato incriminato, ma alla sua cultura che si presume più cosmopolita che italiana, ai suoi valori morali ed estetici che si presumono decadenti e non improntati alla sana tradizione nazionale, nonché al suo corpo che si presume malaticcio e depravato, lontano dal vigore della stirpe.
Mentre è assai arduo valutare quanto fossero diffusi e condivisi dalla comunità dei lettori questi pregiudizi, possiamo invece affermare che l’impostazione stessa su cui riposava la critica letteraria “d’ispirazione fascista” – ovvero, come abbiamo detto, l’idea di una politicità intrinseca dell’opera letteraria –, applicata alla letteratura italiana con ottica razziale, diventava non solo politicità, ma anche italianità e/o cattolicesimo di ogni gran testo classico. Tendeva perciò ad escludere dalla sua comprensione profonda chiunque non appartenesse alla comunità nazionale e cattolica – segnatamente il critico ebreo o “ebreizzato”. Il critico ebreo più “sagace” e preparato – come un Momigliano o un Fubini – non era perciò ritenuto capace di cogliere la genuina poesia di Dante, mentre lo poteva essere il più umile lettore, a condizione che leggesse da cattolico, da italiano, e… da fascista.
Il capitolo dedicato alla questione della razza corrisponde senz’altro al capitolo più doloroso della storia del Ventennio ed è il più doloroso di questo libro: è stato doloroso descrivere – e penso che sarà doloroso leggere – l’interpretazione razzista che venne data di opere come l’Africa di Petrarca o lo Zibaldone di Leopardi; doloroso leggere gli angosciosi tormenti dei critici letterari ebrei dopo il 1938 e la poca empatia dei colleghi. È stato doloroso, ma spero ancora oggi utile andare a scavare le radici profonde e capillari di alcuni pregiudizi dalla vita lunga, per cominciare ad interrogarsi anche su ciò che di essi eventualmente rimase nella critica letteraria del dopoguerra.
Stéphanie Lanfranchi è professoressa associata all’École Normale Supérieure di Lione, in Francia. Le sue attività di ricerca e di traduzione sono principalmente dedicate ai rapporti tra cultura, letteratura, lingua e fascismo. Con Élise Varcin ha curato l’edizione e la traduzione in francese di un’antologia di scritti di Mussolini sulla letteratura e la religione (ENS Éditions, 2019).