
Cosa rivela l’analisi dell’interazione sociale e dei comportamenti dei personaggi che si incontrano faccia a faccia nello spazio romanzesco?
Visto che è così evidente la bravura di Manzoni nel mostrarci i corpi dei personaggi che si muovono, gesticolano, si osservano reciprocamente e interagiscono, oppure agiscono apparentemente inosservati, ma sotto l’occhio mentale di chi legge e immagina, – pensate alla scena dell’incontro con i bravi, alla notte degli imbrogli, a Lucia con l’Innominato… – ho cominciato a domandarmi se fosse possibile, a cominciare dalla catalogazione degli incontri tra i personaggi e delle loro modalità di interazione, indagare il ruolo giocato nell’opera dai corpi che si incontrano e si guardano, le cui azioni visibili contribuiscono alla costruzione del mondo narrato da parte di chi legge.
Per la catalogazione mi sono servito del metodo di analisi ideato dal sociologo Erving Goffman negli anni Sessanta, illustrato nel suo libro intitolato Il comportamento in pubblico: L’interazione sociale nei luoghi di riunione, tradotto per Einaudi da Franca ed Enrico Basaglia. Un libro a mio avviso fondamentale per capire e apprezzare il ruolo sociale dell’interazione faccia a faccia, da cui ho ricavato un po’ della terminologia tecnica usata per le mie analisi e interpretazioni, e che mi ha convinto che valesse la pena rileggere ancora una volta I promessi sposi mettendo in rilievo cosa accade quando due o più personaggi entrano nel rispettivo campo visivo, si impegnano con lo sguardo in un’interazione, formano un raggruppamento e iniziano quindi a scambiarsi informazioni, ricorrendo o meno alla lingua.
Cosa ho scoperto, alla fine dei miei conteggi e delle mie letture? Adesso so che nel testo dei Promessi sposi si possono contare almeno 233 raggruppamenti o impegni, che sono raffigurati in 187 immagini. Sono inoltre presenti 53 figure che rappresentano altrettanti raggruppamenti a cui non corrisponde nel testo una scena, per un totale di almeno 240 immagini, che salgono a oltre 260 se si contano anche le scene di folla e i sogni. Significa, in estrema sintesi, che tra il 55% e il 60% del totale delle 434 immagini volute, progettate e finanziate da Manzoni per la quarantana sono dedicate a situazioni comunicative in cui sono presenti dei personaggi che interagiscono tra di loro in raggruppamenti focalizzati o parzialmente focalizzati, tra persone che si conoscono – il caso dei numerosi dialoghi tra i protagonisti, – o che non si conoscono, e che ricorrono a scambi comunicativi verbali e non verbali, spesso guardandosi negli occhi, compiendo gesti e assumendo posture che rappresentano altrettanti messaggi espressivi. Sono informazioni utili per chi voglia proseguire il lavoro – mi riprometto di farlo in futuro – comparando il caso manzoniano almeno con altri romanzi italiani ed europei.
Soprattutto, però, ho trovato conferma di quanto questo approccio sia utile per l’individuazione di pratiche didattiche che oggi non possono fare a meno di dare valore a questa qualità visiva del romanzo manzoniano, che trova una delle sue realizzazioni nelle illustrazioni – che devono essere lette a scuola insieme al testo, che oggi consideriamo un iconotesto – e che può dare vita a esercizi di riscrittura e di visualizzazione assai proficui.
Ho poi cercato di capire i motivi che possono aver spinto Manzoni a ricorrere a un tale dispiegamento di incontri.
Quali sono il significato e il ruolo di questo tipo di comunicazione?
Dare spazio, nel proprio romanzo, ai comportamenti visibili dei personaggi che interagiscono – faccia a faccia, gli uni sotto lo sguardo degli altri, – oppure soli, sotto lo sguardo di chi legge, è innanzitutto, per Manzoni, garanzia di verosimiglianza. A una condizione però: occorre che le azioni umane siano rappresentate così come sono esperite durante la vita quotidiana, con i sensi nudi, direbbe Goffman, immersi in un abbondante flusso d’informazioni che provengono direttamente dai corpi, e che sui corpi hanno un effetto pressoché immediato.
Non importa se a volte i personaggi risultano goffi, o si muovano in modo non credibile, come ha evidenziato Primo Levi in un suo elzeviro dedicato alla gestualità di Renzo. Manzoni può sbagliare alcune sue raffigurazioni – soprattutto quando ha a che fare con gesti per lui inconsueti, come l’agitare un coltello o il correre gesticolando per sfuggire alla folla inferocita, – ma non smette mai di mettere i suoi personaggi gli uni di fronte agli altri, lasciando che si rivelino a loro stessi e ai loro interlocutori sotto gli occhi di lettrici e lettori, continuamente sollecitati a muoversi dentro il mondo narrato con il proprio corpo. È in questo senso che definisco I promessi sposi un’opera ad alto tasso di corporeità, capace di attivare continuamente le potenzialità motorie di chi legge attraverso i movimenti dei personaggi, tutti caratterizzati da una grande capacità di comunicare attraverso un ampio repertorio di posture, gesti, sguardi ed espressioni del viso che sottopongono chi legge a un tour de force sensorimotorio ed emotivo.
In che modo, nell’economia del testo manzoniano, l’esperienza basata sull’osservazione rappresenta una particolare forma di conoscenza?
Provo a spiegarmi con un esempio. Nel secondo capitolo dei Promessi sposi Renzo entra in scena insieme a don Abbondio. È il giorno del suo matrimonio, e il giovane è agghindato per l’occasione: «Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bello, nel taschino de’ calzoni, con una cert’aria di festa e nello stesso tempo di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti. L’accoglimento incerto e misterioso di don Abbondio fece un contrapposto singolare ai modi gioviali e risoluti del giovinotto». Se vi ricordate, a questo punto don Abbondio dice a Renzo che il matrimonio va rinviato, accampando scuse a cui Renzo in un primo momento decide di dare credito. È solo dopo aver abbandonato il prete che il giovane inizia a riflettere su ciò che è accaduto. Soprattutto, più che ripensare allo scambio di parole, Renzo ripercorre, immaginandoli, alcuni particolari del comportamento di don Abbondio, come il ritmo e il tono della voce, gli occhi sfuggenti, un generico quanto visibile atteggiamento impacciato di tutto il corpo: indizi che letti tutti insieme finiscono per mettere in dubbio la veridicità stessa dei discorsi del parroco.
Ecco, questo è un punto fondamentale del romanzo, che già era stato anticipato dall’incontro tra don Abbondio e in bravi. Veniamo a sapere qui – e troveremo molte conferme in seguito – che per cavarsi d’impiccio nella vita – nel mondo finzionale dei Promessi sposi, – non basta ascoltare e comprendere il significato delle parole, ma è necessario interpretare ogni elemento visibile e udibile, prestando attenzione agli abiti e alla prossemica, a quelli che si chiamano i tratti soprasegmentali del discorso, alla mimica e, in generale, a tutti quei comportamenti osservabili che vengono resi disponibili durante ogni interazione sociale e che, grazie alle capacità mnemoniche e immaginative, possono essere rievocati e analizzati anche in altri momenti della vita.
Umberto Eco, in un suo breve e denso saggio del 1989, ha provato a spiegare come nei Promessi sposi agiscano due diversi e distinti processi di significazione: la semiosi naturale, fondata sull’azione e sull’interpretazione dei comportamenti, e la semiosi artificiale, che è quella del linguaggio verbale. La prima è tipica degli umili, soprattutto gli analfabeti, che non si fidano della seconda – pensate a Renzo e al suo pessimo rapporto con la scrittura – ed hanno bisogno di capirsi anche con il corpo, la seconda è tipica dei colti, ed è usata spesso per mascherare la realtà, per manipolare e per opprimere. Per dimostrare la diffidenza dei personaggi e soprattutto del narratore nei confronti del linguaggio, Eco porta tre esempi fondamentali: il carteggio tra Renzo e Agnese (capitolo XXVII), la riflessione sull’ingannevolezza del discorso pubblico sulla peste (capitolo XXXI), la descrizione della biblioteca di don Ferrante e della capacità di quest’ultimo di ricorrere all’armamentario aristotelico per mascherare la realtà (capitolo XXXVII). La stessa peste è interpretata da Eco come una «pestilenza semiosica», durante la quale, attraverso il linguaggio, si arriva a modificare e corrompere la «capacità semiosica popolare», per cui alla fine nessuno è più in grado di vedere ciò che ha sotto gli occhi. Ciascuno vede ciò che gli è stato detto di vedere, e per i milanesi ogni straniero diventa un untore meritevole di essere linciato.
Da questa diffidenza per il linguaggio, dunque, potrebbe nascere il grande rilievo dato alla gestualità, alle posture corporali, ai toni e ai volumi di voce, alla mimica e perfino al tatto, che interviene soprattutto nelle situazioni più estreme, violente. Il corpo non mente, come scoprirà l’Innominato durante gli incontri con Lucia e con il cardinale Federigo, a cui ho dedicato particolare attenzione e alla cui lettura rinvio chiunque abbia ancora qualche curiosità in proposito.
Simone Giusti insegna Didattica della letteratura italiana all’Università di Siena. Tra le sue pubblicazioni, oltre a un manuale di letteratura italiana (L’onesta brigata, Loescher 2021, con Natascia Tonelli), i libri L’instaurazione del poemetto in prosa (1879-1898) (Pensa 2012), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher 2018), Insegnare con la letteratura (Zanichelli 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa 2014), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci 2020).