
Cosa significa vedere «da lontano» la letteratura?
Significa che il punto di partenza e d’arrivo non è il singolo testo, ma gruppi larghi come un genere, o una scuola stilistica, o magari insiemi ancora più vasti come, per citare uno degli studi del libro, il romanzo inglese dal 1740 al 1850. E con l’oggetto dell’indagine cambia anche il metodo: non più la lettura ravvicinata, ma lo studio di ampie serie come possono essere i titoli dei romanzi, o le località della narrativa, o l’articolazione tematica dei paragrafi. Come dice Northrop Frye in una pagina dell’Anatomia della critica, se ci si allontana da un quadro non si vedono più le singole pennellate, ma in compenso si riconosce una struttura d’insieme che da vicino è impossibile riconoscere. È inutile leggere il saggio sul « Mattatoio della letteratura » se si vuole capire a fondo il fascino di una specifica storia di Conan Doyle; ma ne vale la pena se si vuol capire quali alternative avesse di fronte a sé il racconto poliziesco negli anni Novanta dell’Ottocento. Nel mio libro non si parla di alberi, ma di foreste. Può piacere o non, ma la scommessa è quella.
Quali relazioni complesse e inaspettate emergono dall’incontro tra studio della letteratura e strumenti eterogenei come i grafici della storia quantitativa, le mappe della geografia e gli alberi genealogici della teoria dell’evoluzione?
Diciamo la verità, questo non spetta a me dirlo: chiedere all’oste se il vino della casa è buono non serve a molto. Però almeno una cosa voglio dirla: secondo me, i risultati migliori del mio lavoro non hanno portato a una maggiore complessità, bensì a una – per me liberatoria – semplificazione di alcuni problemi. Andare verso la quantificazione esige che si definiscano gli aspetti chiave della ricerca con una chiarezza che, negli studi letterari, non è frequente perché non è necessaria. Da questo punto di vista, il maggior passo avanti compiuto nel corso di questa ricerca va forse cercato nell’opera di chiarimento, e direi quasi di « pulizia » concettuale imposta dalla logica dell’operazionalizzazione.
L’altro gran bel risultato – lo dico, perché a nessuno verrà in mente di contraddirmi – è la quantità di errori che ho capito di aver commesso nel corso delle mie ricerche. Senza errori non c’è scoperta – sono loro che ti costringono a ripensare in radice quel che stai facendo. Ma solo delle procedure falsificabili ti permettono di riconoscere gli errori.
In che modo nuove tecnologie e paradigmi come la linguistica computazionale determinano un approccio originale e straniante alla critica e l’analisi dei testi letterari?
Le nuove tecnologie sono state un dono avvelenato. Ci hanno permesso di studiare corpora che vent’anni fa non osavamo neanche immaginare, e di analizzarli con strumenti di calcolo che, di nuovo, erano impensabili per i critici delle generazioni precedenti. Ma non sono tecnologie che abbiamo elaborato per risolvere dei problemi specifici della teoria e della storia letteraria, e in questo senso sono intrinsecamente indifferenti al grande arco dello studio letterario del Novecento. Per di più, essendo potentissime, offrono di continuo dei risultati, anche in assenza di ipotesi teoriche di partenza. Conclusione: hanno enormemente aumentato le cose che riusciamo concretamente a fare, e drasticamente scoraggiato la riflessione su quel che via via troviamo. Se me l’avessero detto vent’anni fa, non ci avrei creduto, ma purtroppo è andata proprio così. Naturalmente si può cambiare rotta, ma per farlo bisogna prima ammettere che non stiamo arrivando da nessuna parte. E questo, nel mondo della ricerca quantitativa, lo pensano in pochi e non lo dice quasi nessuno.
Franco Moretti ha insegnato in Italia, negli Stati Uniti, e da ultimo in Svizzera. Ha pubblicato numerosi libri, tra cui Il romanzo di formazione e Il borghese. È permanent fellow del Wissenschaftskolleg di Berlino, e collaboratore abituale della New Left Review.