
Anche se porre date precise per qualsiasi fatto/fenomeno storico è azzardato (in cucina più che mai), se vogliamo semplificare possiamo prendere questa data come data ufficiale della nascita della cucina francese. Ricordiamo che fino ad allora i ricettari non esibivano riferimenti specifici alla nazionalità delle ricette, anche se ovviamente esistevano differenze da un paese all’altro. I grandi ricettari italiani del ‘500, ad esempio, proponevano le ricette senza vantarne l’origine italiana, eppure fecero scuola in tutta Europa. Per trovare una menzione nazionalistica dobbiamo risalire al ricettario medievale “Le Mesnagier de Paris”, apparso nel 1393! Invece a partire da La Varenne, tutti i ricettari che verranno pubblicati in Francia a ritmo sempre più serrate nel ‘600 e nel ‘700 non faranno che ribadire nelle loro lunghe e articolate introduzioni, la superiorità della Francia in ogni campo e naturalmente la superiorità della cucina francese.
A “Le cuisinier français” si affiancò “Le jardinière français” di Nicolas de Bonnefons (1651), in cui le ricette accompagnavano i consigli per coltivare bene orti e frutteti, “Le patissier françois” (1653), dove troviamo scritto «Avendo appreso che gli stranieri davano accoglienza molto favorevole a certi libri nuovi che portano il nome Francese nel loro titolo, come Il giardiniere francese e altri, benché ce ne siano anche nelle altre lingue che trattano lo stesso soggetto, […] mi faccio ardito e presento questo nostro Pasticciere francese che può dirsi il primo del genere, perché finora nessun autore [francese] ha dato la minima istruzione su quest’arte» (ricordo che per “pasticceria” si intendeva solo l’arte di fare pasticci, timballi e qualche torta). Il che, ovviamente, non impediva che si copiassero ricette tratte dai grandi cuochi italiani del Rinascimento. D’altronde durante il regno del Re Sole tutta l’Europa è affascinata dalla Francia: ci si veste alla francese, ci si acconcia alla francese, ci si trucca alla francese, si danza alla francese, si parla in francese tra aristocratici e ambasciatori, si leggono opera di autori francesi.
Gli studiosi hanno tentato di spiegare il motive di questo fenomeno ma pur considerando la personalità di Luigi XIV, i suoi legami coi regnanti di Spagna e Gran Bretagna, il fasto della sua corte, la sua politica espansionistica, le personalità artistiche che illuminarono il suo regno, nessuna tesi arriva a spiegare in modo convincente la dilagante francomania.
Quel che è certo è che dopo un lungo silenzio, durato ben 150 anni, i cuochi francesi presero a pubblicare una quantità notevole di ricettari: a quelli appena citati seguirono ‘Les délices de la campagne’ di Nicolas de Bonnefons (1655), ‘Le cuisinier’ di Pierre de Lune (1656), ‘L’École parfaite des officiers de bouche’ di Pierre Ribou (1662), ‘L’art de bien traiter’ di L.S.R., ‘Le nouveau et parfait cuisinier’ di Pierre de Lune (1668), ‘Le cuisinier royal et bourgeois’ di François Massialot (1691), ‘La maison bien reglée’ di Audiger (1692). E non mancarono le loro riedizioni, anche nel secolo successivo. Il numero, il ritmo con cui uscirono, e la diffusione anche all’estero di questi trattati forgiarono una precisa fisionomia culinaria, consolidarono la fama della cucina francese, e ne diffusero lo stile, i procedimenti, la terminologia.
La Cucina francese del Grand Siècle è una cucina che nasce ovviamente nei palazzi dell’alta aristocrazia, dove non c’erano limiti di spesa, e divenne subito la cucina delle classi dominanti anche all’estero. È una cucina che usa molti ingredienti diversi, con uno scopo: renderne irriconoscibili i sapori nel risultato finale. Qualche voce di protesta si levò anche allora: Nicolas Bonnefons inutilmente, in una riedizione 1679 del suo trattato Les délices de la champagne, esortava che “il potage di cavoli sappia solo di cavoli, quello ai porri sappia di porri, quello alle rape sappia di rape […] lasciando da parte le composizioni per bisques, hachis, pannade e altri camuffamenti”. Inutilmente! Per camuffare e anche ‘variare’ i sapori dei piatti, si gioca con insaporitori preparati in anticipo e sapientemente mischiati: i vari bouillon (brodi ricchissimi lasciati cuocere per ore), i jus e i coulis (di manzo, di vitello, di pernice, di gamberi, di funghi, di prosciutto, ecc…).
È una cucina che antepone il piacere alla salute e infrange allegramente antiche regole salutistiche: usa prodotti prima considerati nocivi (ad esempio funghi e tartufi in abbondanza), diminuisce notevolmente l’uso delle spezie (dall’antica medicina galenica ritenute medicamentose e correttive dei difetti dei vari cibi), usa salse grasse e dense (a base di lardo e farina) al posto delle leggere salse acidule di un tempo, (aceto e agretto per secoli furono considerati disinfettanti). E soprattutto è una cucina che considera la competenza culinaria e l’amore per la buona tavola non più peccati riconducibili al vizio capitale della “GOLA” ma espressioni di buongusto e sano realismo, perché i buoni piatti conservano in salute e possono essere preparati anche senza spendere una fortuna.
Questo è un altro aspetto molto importante: si riconosce a tutti il diritto di mangiare bene! E se anche la Cucina francese è indubbiamente una cucina da ricchi, i cuochi si preoccupano di offrire consigli su come gestire con oculatezza le provviste e cucinare senza inutile sprechi, utilizzando ad esempio le tante erbe aromatiche e i più comuni prodotti dell’orto, come le rape. Si abbandonano gli animali scenografici tanto amati un tempo (pavoni, gru, aironi, ecc…) e pur lasciando sempre ampio spazio alla cacciagione, si servono bovini, ovine e animali da cortile, senza buttare via niente e servendo parti che a noi oggi sembrano indegne di una tavola elegante (creste di gallo, rognoni, animelle, trippa, milza, zampe, muso e orecchie di maiale, testa di vitello…). La frutta, sia fresca che conservata in vari modi, era la degna conclusione dei pasti. Lo zucchero era carissimo, dunque il suo uso denotava ricchezza. Cioccolata e caffé si diffondono mentre il té proprio non trova estimatori sinceri.
Quali cambiamenti subisce la cucina durante il regno di Luigi XV?
Il XVIII secolo vide una fioritura ancora più copiosa di trattati di cucina: nel 1735 “Le cuisinier moderne, qui apprend à donner toutes sortes de repas” di Vincent La Chapelle, nel 1739 “Les dons de Comus ou les délices de la table” di Marin, nel 1739 il “Nouveau traité de la cuisine” di Menon, nel 1740 “Le cuisinier gascon”, nel 1742 “Suite de dons de Comus” di Marin, nel 1742 “La Nouvelle Cuisine” di Menon, nel 1746 “La Cuisinière bourgeoise” di Menon (il grande bestseller del ‘700 francese), nel 1749 “La science du Maître d’hôtel cuisinier” di Menon, nel 1750 “Dictionnaire des aliments, vins et liqueurs” (attribuito a François-Alexandre Aubert de La Chesnaye Des Bois, o a Briand), nel 1750 “La science du Maître d’Hôtel-confiseur” di Menon, nel 1751 “Le Cannameliste français”, nel 1755 “Les soupers de la Cour” di Menon, nel 1758 “Traité historique et pratique de la cuisine” di Menon, nel 1759 “Le Manuel des officiers de bouche” (attribuito a Menon), nel 1767 “Dictionnaire portatif de Cuisine d’Office et de Distillation”, F. A. Aubert de la Chesnaye des Bois. Senza contare le riedizioni nel corso degli anni, e – durante la Rivoluzione – i ricettari per le tavole rivoluzionarie.
I cuochi rivendicano la dignità della loro professione: ritengono di essere artisti che giocano coi sapori come altri coi colori su una tela o con le note su uno spartito; sono chimici che distillano il meglio di ogni alimento; preservano la salute meglio dei medici; servendo piatti raffinatissimi migliorano anche lo spirito e la mente dei commensali. Il cuoco diventa insomma una specie di pigmalione capace di operare miracoli su coloro che hanno il privilegio di gustare le sue creazioni. Un simile portento però esige commensali in grado di capire tanta arte e tanta scienza, quindi tra cuochi e commensali si crea una relazione vitale: i commensali competenti stimolano/ispirano/correggono l’opera del cuoco, il cuoco con i suoi capolavori fa evolvere il gusto dei suoi commensali. Come risultato, rubarsi un cuoco era un crimine sociale e all’estero tutti vogliono avere cuochi francesi al loro servizio. Il mestiere però si mascolinizza, perché genio e creatività erano considerati – ovviamente – doni esclusivamente maschili. L’alta aristocrazia quindi ha dei cuochi, mentre la borghesia ha delle cuoche.
La cucina che un tempo era considerata attività di bassa manovalanza, ora è arte raffinata degna dei grandi aristocratici che non disdegnano di cimentarsi ai fornelli, direttamente (come il reggente Filippo d’Orléans e Luigi XV) o indirettamente, suggerendo nuovi piatti o ulteriori miglioramenti. Molte ricette portano il nome di illustri casate (à la Mailly, à la Noailles, alla Villeroy, alla Mirepoix, à la Grammont) ma è difficile stabilire se sia un omaggio al commensale che le gustò per primo o che le ideò, oppure se le cucinò personalmente. I piatti “Bellevue” (da tanto tradotti come “in bellavista”) erano invece i piatti serviti dalla marchesa di Pompadour nel suo favoloso castello di Bellevue, quando ospitava Luigi XV e la sua cerchia di amici.
La cucina diventò ancora più elitaria, con ricette che richiedevano enormi quantità di ingredienti costosi. Ma contemporaneamente si riservò grande attenzione anche alle tavole borghesi, che non potevano permettersi spese così ingenti per pranzo e cena. E – seppure a denti stretti – si ammetteva che una cucina più semplice e parca era anche più sana. Per i nostri gusti (oltre che per i nostri mezzi) sono quindi più abbordabili le ricette della “Cuisinière bourgeoise” che quelle di altri ricettari. Il successo riscosso nel corso del secolo da quel manuale dimostra comunque che all’epoca erano numerosi coloro che cercavano di accordare la qualità della tavola con una spesa ragionevole, anche tra l’aristocrazia.
Ma è importantissimo che si riconoscesse a tutti, indipendentemente dal censo e dalla borsa, il diritto a mangiar bene. Solo ai popolani e ai contadini non veniva riconosciuto questo diritto, perché si riteneva che ci fosse una relazione tra cibo e modo di pensare: dunque il cibo delicate era per chi svolgeva mestieri di concetto (o non lavorava affatto), mentre per gli stomaci robusti delle classi inferiori era adatto un cibo grossolano e pesante. Per ironia, molti dei cibi della plebe erano in realtà più nutrienti di quelli riservati ai privilegiati. Si accetta l’idea che anche la cucina sia un fatto soggetto alla moda e che i gusti cambino continuamente. E si prende a parlare e discutere di cucina come mai prima di allora.
Il pasto diventa ancora più ricco: i services che nel secolo precedente erano di solito 3 o 4 ormai salgono a 4/5/6 ma il servizio resta alla ‘alla francese’, cioè ogni servizio è composto da diversi piatti, presentati tutti in tavola contemporaneamente, e disposti secondo schemi precisi, a seconda del numero dei commensali, del numero delle portate e della forma della tavola. Nei ricettari vengono quindi forniti anche schemi dispositive in base al numero dei commensali, delle portate, della forma della tavola.
In cucina, ai jus, ai coulis, si aggiungono le essences, le quintessances, le glaçes; il lardo perde terreno a favore del burro e poi della crema di latte; abbondano gli ingredient stimati afrodisiaci (ostriche, tartufi, carciofi), aumenta l’impiego del foie gras (senza che si specifichi l’animale da cui proviene). Fanno la loro comparsa il parmigiano (molto amato da Menon) e la pasta, sia vermicelli che maccheroni e lasagne. E aumenta sempre più il numero delle salse, ormai imprescindibili in qualunque piatto. Il vino champagne trova impiego sempre più diffuso anche nelle ricette. Il costo dello zucchero cala notevolmente, rispetto al secolo precedente, perché la canna da zucchero si è ambientata bene nelle colonie oltreoceano e questo permette lo sviluppo dell’arte dolciaria, quindi alla frutta (fresca o conservata), si affiancano dolci sempre più elaborati, al cucchiaio e al forno.
Ma non cambia solo lo stile culinario e la figura del cuoco: cambia anche il significato che si dà al modo di mangiare e si comincia a dare una visione “politica” al cibo. La dieta dell’epoca si basava soprattutto su due alimenti principali: il pane e la carne. E ambedue cominciarono a scarseggiare nel XVIII secolo per le classi inferiori, mentre le classi superiori continuavano a mangiarne in abbondanza. I filosofi cominciarono ad attaccare le abitudini alimentari delle classi superiori, cosa che non poteva certo esporli ad alcuna ritorsione. Mandeville, Offray de la Mettrie, Rousseau, Diderot (in realtà tutt’altro che vegetariani!) scrissero che cibarsi di carne dava all’uomo il carattere delle bestie feroci, e difesero appassionatamente bovini e ovine, creature dolci e gentili che servono l’Uomo per poi essere da lui divorate come ricompensa dopo una vita di duro lavoro: una trasparente metafora delle umili classi lavoratrici, spolpate fino all’osso per far vivere altri nell’abbondanza.
Fu la prima volta che si attaccò il modo di mangiare in auge per portare in realtà un attacco al Sistema: i ‘privilegiati’ non si cibavano solo della carne degli animali di cui sfruttavano il lavoro, ma della carne stessa del popolo che essi sfruttavano fino allo sfinimento. Se a tavola nacque l’idea che tutti avevano diritto a mangiar bene, a tavola nacque anche l’idea che la lotta al Sistema cominciava dal modo in cui si sceglieva di mangiare. Non a caso, la moda della dieta vegetariana e poi la macrobiotica si diffusero in Europa dopo il ’68 e, come la moda vegana attuale, si opponevano ai metodi “industriali” applicati all’agricoltura e all’allevamento, considerando lo sfruttamento del suolo e degli animali analoghi allo sfruttamento umano.
Cosa si mangiava alla corte dei re francesi del XVII secolo?
Tralasciando cosa mangiasse Luigi XIII, il saggio tratta di quello che mangiava Luigi XIV perché è sotto il suo regno che la cucina francese rivendica la sua specificità e – manco a dirlo – la sua superiorità.
Luigi XIV mangiava moltissimo (del resto, anche sua madre, Anna d’Austria, era una buona forchetta). Ma il menu cambiava notevolmente se era giorno di grasso o di magro, se il sovrano mangiava in petit couvert (cioè solo con qualche gentiluomo di servizio) o in grand couvert (con la famiglia e davanti a tutta la corte), se era un pasto di routine o un’occasione speciale, come le fastose merende organizzate nei giardini di Versailles.
La sua prima colazione era spartana: brodo (quello di allora era più una zuppa che un brodo) o tisane. A pranzo (dîner) e a cena (souper), di norma, la tavola del sovrano prevedeva almeno 3 o 4 servizi, ognuno composto da piatti diversi.
Per primi non potevano mancare i potage, che non erano (come oggi) un semplice brodo, ma quello che definiremmo un ‘piatto unico’ perché era formato da una base di pane inzuppato col brodo di cottura in cui si era cucinato – che so – un piccione ripieno, che poi veniva ripassato in padella con altri ingredienti, e posato col suo ricco contorno sulla base di pane inzuppato. Non potevano essercene mai meno di due al petit couvert, mentre nelle occasioni formali erano almeno sei. Più avanti dò una ricetta di potage, e chiunque non potrà non stupire che dopo piatti così sostanziosi ci fosse spazio anche per altro, molto molto altro, come le imprescindibili entrées e hors d’oeuvres, cioè altri piatti saporiti di verdure, carne, pesce, crostacei e pasticci di carne o pesce caldi. Poi c’era il servizio degli arrosti, composto da piatti di carni varie. Seguiva il servizio degli entremets, il più vario perché comprendeva torte dolci e salate, insalate di verdura e di frutta (fresca o conservata), piatti a base di verdure, carni fredde, pasticci freddi, fritti (salati e dolci). Infine i dessert: frutta fresca, gelatine, marmellate, creme, canditi, dolciumi vari.
Il problema era che date le distanze tra le cucine e dove il re mangiava, il meticoloso cerimoniale che prevedeva la scorta armata al cibo dalle cucine fino alla tavola reale, e poi gli assaggi di cibo e bevande (necessario per l’incolumità del re) e la complessa gerarchia dei nobili che si dividevano ogni atto del servizio, Luigi mangiava sempre freddo, o al massimo tiepido, nonostante gli orafi si scervellassero per trovare contenitori che fossero prestigiosi ma al contempo termici. Mangiava moltissimo, e amava vedere mangiare molto anche chi era con lui, il che creava spesso problemi alle dame del seguito (la Montespan, sua favorita, tra i numerosi parti e la tavola, divenne rapidamente un donnone); beveva poco vino (sempre annacquato, come usava allora) ma molta acqua fredda. Era praticamente sdentato, stitico e soffriva di gotta: il suo medico, quindi, si scontrava continuamente con i duchi che lo servivano, perché avrebbe voluto seguisse un regime alimentare ben diverso da quello che gli veniva servito quotidianamente ma quelli preferivano avere il favore del re e si preoccupavano solo che mangiasse di suo gusto.
Per i problemi di cui sopra, Luigi XIV amava mangiare frutta morbida, come fichi, meloni e pesche, e sempre molto matura. La medicina ufficiale li considerava nefasti ma a lui piacevano, e quindi divennero di moda anche sulle tavole aristocratiche. Aveva un debole per primizie e fuoristagione, sia di frutta che di verdura: il suo giardiniere capo, Jean-Baptiste de la Quintinie, aveva fatto veri miracoli per dargli gli asparagi a gennaio, le fragole a marzo o i meloni ben oltre il tempo di normale raccolta. Aveva imparato il mestiere in Italia ma a Versailles fece autentici miracoli, dato il clima pestifero e il suolo fradicio d’acqua, per dare al re la varietà e la qualità che esigeva. Si serviva di campane di vetro e serre con doppi vetri, paglia, e strati di letame equino per tenere calda la terra, sfruttando al meglio l’esposizione al sole. Il Re Sole voleva imporsi anche alla Natura, persino a tavola.
Nel pomeriggio, dopo la caccia, gli era servita una collation, di solito a base di piatti di carne fredda, pasticci di carne o pesce, dolciumi, frutta. La cena era alle 22.00. Poi, quando si coricava, in camera c’era sempre un cestino con una pollastra arrosto, pane, vino, frutta in caso avesse avuto fame, e che per quello veniva designato sbrigativamente appunto ‘en cas’. Luigi XIV amava mangiare in pubblico, a differenza di Luigi XV che lo detestava. Il proverbiale appetito di re Sole dimostrava a tutti (e soprattutto agli ambasciatori stranieri) che era in buona salute ed eroticamente potente, perché da secoli il buon mangiatore era considerato anche virilmente potente in ogni campo. Già nei secoli precedenti, i granduchi di Borgogna, raffinati e potenti, aveva stabilito il numero di piatti destinati al sovrano, che doveva mangiare più di tutti, e in quantità decrescenti quelli destinati a principi, ecclesiastici, nobili.
Con Luigi XIV, anche nelle occasioni ufficiali, certe differenze andarono in disuso perché la ricchezza della tavola mostrava a tutti che il regno era prospero e lui un padre generoso che distribuiva cibo abbondante ai suoi figli-sudditi. Ben sapendo che a Londra si facevano scommesse su quando sarebbe morto, non rinunciò a mangiare in pubblicò fino alla fine, pur con una gamba in cancrena che doveva causargli sofferenze atroci e straziava le narici del suo seguito.
Nel secolo successivo, l’atmosfera cambia: il reggente Filippo d’Orléans e poi Luigi XV preferiscono nettamente mangiare in privato, con pochi e scelti commensali. Le cene di Filippo al Palais Royal, con gli amici che lui chiamava confidenzialmente “pendagli da forca” e con i quali magari cucinava i piatti che si sarebbero serviti a tavola, si concludevano quasi sempre con delle orge, cui partecipavano dame, attrici e puttane. Lo zar Pietro il Grande ne rimase scandalizzato ed evitò di accettare altri inviti a cena. Non a caso, Filippo morì di una sincope dopo una cena. Come Federico il Grande, che aveva un appetito proverbiale. Le raffinate cene private di Luigi XV, col personale di servizio assente o ridotto al minimo, terminavano con caffè (fatto dallo stesso re), chiacchierate, giochi a carte e magari qualche spettacolino in cui recitava la stessa madame de Pompadour. Ma alla corte non piaceva che il sovrano si isolasse in quelle stanze da cui troppi erano esclusi e cominciarono a fiorire leggende nere su quel che faceva in quelle stanze e con chi.
Come si mangiava a corte?
I membri della famiglia reale pranzavano per conto loro, ma avevano comunque un servizio di tavola e cucina imponente. La regina Maria Lekzinska si consolava a tavola dei tradimenti di Luigi XV; le sue figlie erano golosissime, mangione e quindi molto esigenti sia per la qualità che per la quantità delle portate. Siccome erano anche bigotte, i loro cuochi dovevano fare dei miracoli nei giorni che richiedevano solo piatti di magro, per riuscire a travestire pesce, crostacei e verdure in modo da ricordare la carne. Luigi XVI e suo fratello, il conte di Provenza, mangiavano oltre misura ed era ben evidente dalle loro corporature obese. Maria Antonietta sbocconcellava ma amava ricevere i suoi amici al petit Trianon, in un clima informale. Al pomeriggio le piaceva offrire le cosiddette ‘sorprese’: merende golose a base di frutta, dolci al cucchiaio, formaggi delicati, gelati, preparati con i prodotti della sua fattoria, in quel villaggio contadino da fiaba che era il suo Hameau.
Anche il personale di corte mangiava bene: era previsto un ricco servizio di cucina per le cariche più prestigiose della corte, gli ospiti stranieri, i cortigiani di alto e medio livello, gran parte del personale di servizio presso il re, la regina, i membri della famiglia reale. Ad esempio, il menu dei paggi di Maria Antonietta prevedeva: 3 potages (si veda più avanti come erano sostanziosi i potages), 3 piccioni, castrato, bue, 2 entrées, arrosti (vitello, castrato e capponi). Quello che avanzava da tutte quelle tavole veniva venduto dagli impiegati del Serdeau (che sparecchiavano le tavole) ai commercianti esterni, che risistemavano per benino tutto e lo rivendevano nelle botteghe cresciute attorno alla reggia a questo scopo.
Chi non aveva diritto alla tavola, riceveva comunque una lauta razione di pane, carne e vino. Le cucine (il Petit Commun per la famiglia reale e il Gran Commun per la corte) erano lontane per motivi di sicurezza, in quanto si temevano gli incendi, gli odori, i fumi, i rumori molesti e le immondizie. Durante il regno di Luigi XIV, chi aveva la fortuna di avere un camino nel proprio alloggio si scaldava i pasti così, oppure si ricorreva agli scaldavivande.
Durante il regno di Luigi XV, invece, i cortigiani presero a costruirsi cucine abusive dove capitava, creando innumerevoli problemi di igiene, sicurezza, salubrità e pulizia al governatore della reggia. Versailles come Parigi era piena di luoghi dove potersi sfamare, se non si aveva diritto a un posto alla tavola del Grand Commun. Ma dato che i reali dovevano divertire i propri cortigiani, c’erano sempre buffet forniti di ogni ben di dio quando ci si riuniva nelle stanze reali per giocare a carte, o negli intervalli degli spettacoli o dei balli che venivano regolarmente organizzati ogni settimana.
In alcune occasioni speciali, il re organizzava lussuose collation nei giardini di Versailles per festeggiare le sue vittorie militari o il carnevale, e balli di gala, durante i quali giardinieri, falegnami e decoratori creavano scenari da sogno con effetti magici in cui sistemare le mille leccornie che i cuochi disponevano artisticamente con elaborate scenografie gastronomiche. Le cronache del tempo, che ho riportato, descrivono con dovizia di particolari quelle occasioni, i cibi serviti e come venivano serviti.
A corte come nelle case dei privilegiati, la cucina ormai richiedeva personale specializzato: chi era specializzato nei potage, chi negli arrosti, chi nei pasticci, chi nelle conserve, chi nei potage, chi nelle salse… Dar da mangiare a quell’esercito di persone costava un patrimonio, anche perché a Versailles tutti facevano la cresta sugli acquisti, e qualsiasi cosa finiva per costare il quadruplo. I vari compiti erano parcellizzati e richiedevano molto personale, in servizio a turni trimestrali, perché l’onore di servire per la tavola del sovrano (si trattasse dei compiti di un principe, di un cavalier servente o di un girarrosto) non doveva essere limitato a poche persone. In più, innumerevoli costumanze nate anche diverse centinaia di anni prima a favore del personale di servizio rendeva la corte un pozzo senza fondo che inghiottiva somme enormi.
È possibile eseguire oggi le ricette d’allora?
Senza dubbio. Magari non quelle che contemplano selvaggina oggi doverosamente protetta. Io ho selezionato quelle che si possono realizzare se si ha una ragionevole esperienza e anche qualche ricetta impegnativa, presentata perché illustra lo stile del tempo.
Molto dipende dai gusti, dalla salute personale e dalla disponibilità di spesa. Ho messo quelle che richiedono ingredienti reperibili, non richiedono un mutuo in banca e che erano ritenuti piatti imprescindibili in un pasto elegante.
Ad esempio, il potage della salute dei tempi di Luigi XIV, che dimostra quanto sia lontano dalla nostra idea di potage: «Scottate in acqua caldissima un bel cappone e uno stinco di vitello, senza lasciarveli più a lungo di un miserere (…) Poi metteteli nel vostro brodo sul fuoco medio per almeno due orette. Questo potage verrà guarnito con cicoria bianca preparata così: prendete diverse piante di cicoria bianca ben sbucciate e lasciatele in acqua fresca per almeno mezz’ora, poi le farete bollire un mezzo quarto d’ora, tiratele su, lasciatele scolare e, dopo averle legate come piccoli pacchetti, le lascerete cuocere dolcemente nel brodo con midollo di bue, qualche fetta di lardo, un po’ di jus di manzo e di coulis, fino a quando sarà tempo di servirle. Quindi prendete del pane a fette o delle croste di pane bianco fatte tostare, mettetele in pentola, versateci sopra il brodo in modo da inzupparle bene, e coprite per far arrivare prima all’ebollizione e far sì che il pane e il brodo leghino bene. Sistemate nel piatto, versateci sopra due o tre cucchiaiate di jus di funghi, accomodateci sopra il cappone e lo stinco cercando di mantenerli integri (magari legandoli durante la cottura), versateci sopra qualche cucchiaiata di jus e di coulis, poi guarnirete il piatto tutto intorno di cicoria, anzi ne metterete anche sopra la carne sistemandoli con eleganza, e non mancherete di irrorarli con il sugo di cottura”.
Ecco un esempio di coulis di manzo di Pierre de Lune: «Prendete una fetta o due di carne di manzo e mettetela sulla brace in un bacile d’argento con del lardo. Quando è ben rosolata da tutte e due le parti e comincia ad attaccare unite farina e jus di carne, fate colorire, poi unite del brodo, un pacquet aromatico, limone, sale, qualche champignon, e tenete in caldo sulla cenere»
Ecco un esempio di jus di funghi: «Mettete in padella gli champignon con burro o lardo, cuocete a fuoco basso, e quando cominciano ad attaccare aggiungete della farina e rosolateli. Poi aggiungete del brodo, toglieteli dal fuoco, unite un po’ di succo di limone e tenete da parte».
Mediamente, sono ricette che fanno salire il colesterolo solo a leggerle, data la quantità di grassi e di carni impiegate. Ma si riteneva che i grassi favorissero la digestione! Ad esempio, il Filetto alla Conti (un principe, cugino li Luigi XV) prevede un filetto di vitello lardellato con tartufi, animelle di vitello e foie gras, messo al fuoco con burro, prezzemolo, cipollotto, champignon affettati. Poi lo si pone in una casseruola foderata con fette di prosciutto e fette di vitello, gli si mettete sopra il filetto con gli altri ingredienti, lo si copre con fette di lardo, lo si fate sudare per 1 ora, ponendo la casseruola sulla cenere calda. Lo si bagna con 1 bicchiere di champagne, si termina la cottura, si mette da parte il filetto. Si aggiungono 2 cucchiai di coulis di vitello al sugo di cottura, si fa bollire un momento, si sgrassa, si filtra, si aggiunge succo di limone, sale e pepe e si irrora col questo sugo il filetto. Per i coraggiosi c’è anche la torta di lardo irrorata con una salsa a base di vino, burro e zucchero, la torta di midollo, o i beignet fritti di midollo.
Persino la cottura richiedeva un enorme dispendio di carne: come visto nella ricetta precedente, per la cottura “à la braise” si intendeva una pentola letteralmente foderata sul fondo e sui lati di fettine di vitello e lardo o prosciutto. Che non comparivano più nel piatto finale.
Le ricette con lo champagne abbondano, come ad esempio quella dei gamberi bolliti nello champagne assieme a un bouquet garni, carote, cipolle, chiodi di garofano, una punta d’aglio, un pezzo di burro, sale e pepe. Tartufi e funghi sono quasi onnipresenti, quindi molte ricette oggi risulterebbero costosissime, come le pollastre alla Bellevue, ripiene di tartufi, foie gras, cipolline. Ma gli accostamenti con fiori e frutta sono stimolanti, come il tacchino ai lamponi, o le insalate di verdura fresca con melograno e fiori. O le fragole fritte in pastella.
I piselli alla Rambouillet sono molto suggestivi, ma alla fin fine sono semplicemente piselli saltati in padella con prosciutto, un bouquet garni, brodo, sale e un po’ di zucchero. Uno dei dolci preferiti di Maria Antonietta era panna montata amalgamata con un passato di lamponi o di fragole. Le “mele à la Regence” sono mele ripiene di marmellata di albicocche, avvolte in pasta sfoglia e cotte al forno,5 oggi più prosaicamente note come mele al cartoccio.
Può essere divertente rifare le varie versioni di bechameil, molto diverse da quella odierna: la più antica prevede lardo, farina, cipolla, brodo di carne, champignon, un filo di aceto.
Molto diverse da quella odierna anche le ricette di maionese. Di questa salsa, nonostante le leggende tuttora in voga che girano, non si trova traccia nei ricettari del ‘700. Compare in quelli del primo ‘800 ma… ben diversa da quella attuale! E naturalmente presento anche la vera origine e come era la vera crème Chantilly.
I piatti definiti “ragoût” erano tutt’altra cosa rispetto ad oggi: si definivano così le ricette particolarmente saporite a base di carne, pesce , crostacei, verdure. Nel saggio ne presento diverse, per completezza d’informazione. E altre, inattese sorprese arrivano con “galantina”, “aspic” (era una salsa), “profiterolles”, “mangiare in bianco”, “marmelade”, “soufflet”, “fromage frais”, ecc…
Ma per rendere davvero l’atmosfera della tavola nel ‘600 e nel ‘700, ho dovuto spiegare dove si mangiava, quando si mangiava, come si stava a tavola, come si apparecchiava (ad esempio: i bicchieri non stavano sulla tavola), dove ci si approvvigionava, cosa si mangiava e cosa si beveva. La storia dello champagne, ad esempio, riserva gustosissime sorprese: se lo beviamo così, oggi, è anche merito degli inglesi! E naturalmente ho fatto ricorso a numerosi aneddoti divertenti tratti da memorie, epistolari, commedie e nouvelles à la main, e anche le canzoni che si cantavano a tavola per aiutare i lettori a ritrovare tutta l’atmosfera di quei tempi.