“A Silvia” di Giacomo Leopardi: parafrasi

«A Silvia, insieme all’Infinito la poesia più famosa di Giacomo Leopardi, è il primo dei cinque componimenti composti tra il 1828 e il 1830 e chiamati pisano-recanatesi perché nascono durante questo favorevole ritorno dell’ispirazione nei mesi del soggiorno pisano e poi nel breve soggiorno a Recanati che precede il ritorno a Firenze. Il componimento deve la sua fama all’aspetto di poesia amorosa, ricondotta a un episodio specifico della vita del poeta (la conoscenza della giovane figlia del cocchiere di Recanati, Teresa Fattorini, morta diciottenne). In realtà la costruzione poetica del canto è condotta in modo che la figura femminile, invocata all’inizio come se fosse presente («Silvia, rimembri ancora», con una specifica funzione del tempo del verbo), si carica progressivamente di significati universali. Anche il nucleo biografico interno («Sonavan le quiete / Stanze», vv.7-8; «Io gli studi leggiadri / Talor lasciando», vv.15-16), che potrebbe far pensare ancora all’atmosfera dell’idillio, viene superato in una dimensione allegorica. Non a caso le caratteristiche di Silvia, l’atto di tessere e di cantare, vengono riprese dal famoso passo virgiliano, più volte ricordato da Leopardi, del canto di Circe al telaio.

Silvia, come Circe, e come Persefone, è l’incarnazione di una divinità che mette i vivi a contatto col mondo dei morti, e rappresenta, in senso cosmico, il ritorno ciclico della primavera («Era il maggio odoroso»), cioè, nel sistema leopardiano, delle illusioni. Ma con la sua morte precoce Silvia è anche il segnale della separazione dell’uomo moderno dalla vita della natura (da qui la famosa invocazione: «O natura, o natura, / Perché non rendi poi / Quel che prometti allor?», vv. 36-38). Per cui alla fine Silvia diventa l’allegoria della morte, non solo della morte fisica ma della morte delle illusioni di fronte all’avanzare del «vero» («All’apparir del vero / Tu, misera, cadesti», vv. 60-61). Ancora una volta si realizza il capovolgimento interno che abbiamo visto in altri canti, per cui le premesse vengono smentite dallo sviluppo del ragionamento.

Il tema del canto viene ripercorso da Leopardi in un pensiero dello Zibaldone di due mesi successivo (Z. 4310-4311), dove si parla di «un non so che di divino» che si trova nella bellezza di una giovane dai sedici ai diciotto anni, considerata come il «primissimo fior della vita»: è questa una delle immagini centrali del canto, addirittura esasperata dalla considerazione che Silvia non riesce a vedere «il fior degli anni» (v. 43), esempio di estrema congiunzione tra bellezza e caducità.»

tratto da Leopardi di Marco Antonio Bazzocchi, il Mulino

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