
Qual è l’eredità bizantina nel nostro Paese?
Si tratta di un patrimonio di beni culturali, materiali e immateriali, davvero molto ingente. Tutti conoscono il mosaico di Giustiniano e Teodora in San Vitale di Ravenna, l’architettura della Cattolica di Stilo o di San Pietro a Otranto, o ancora il mosaico di re Ruggero II incoronato da Dio nella chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, a Palermo, composto sulla base di un modello figurativo di chiara ascendenza bizantina. Quello che il grande pubblico probabilmente non conosce è che l’impero in Italia ha lasciato un numero rilevante di vestigia archeologiche, documenti della pratica giuridico-amministrativa scritti in greco, sigilli, manufatti artistici e della cultura materiale, testi agiografici, nonché un considerevolissimo insieme di manoscritti sia prodotti nella stessa Italia, sia giunti in essa da altre regioni del Mediterraneo e oggi conservati in istituzioni culturali del nostro paese (per esempio la Biblioteca Apostolica Vaticana, la Biblioteca Marciana di Venezia, la Laurenziana di Firenze oppure la Biblioteca Nazionale di Napoli, per non citare che i centri maggiori). Peraltro, si ponga mente al fatto che l’eredità dell’«Italia bizantina», non coincide con quella, più vasta, della «cultura bizantina», in senso lato, nel nostro paese. Quest’ultima è molto più ingente, e riguarda anche città, come Genova, Pisa o Firenze che politicamente non fecero mai parte delle province italiche dell’Impero ma che con quest’ultimo intesserono rapporti economici, sociali e religiosi profondi tra il XII e il XV secolo.
Quali erano le istituzioni politiche bizantine in Italia?
Giacché, come ho già detto, l’Italia bizantina ebbe una lunga esistenza, le sue istituzioni mutarono nel corso del tempo. Dopo la riconquista giustinianea, alla metà circa del VI secolo, la penisola fu organizzata sulla base degli stessi modelli istituzionali dell’Oriente — posta sotto un prefetto al pretorio, tendenzialmente con un responsabile per gli affari civili e uno per quelli militari in ogni provincia. Fece eccezione la Sicilia, il cui controllo, a motivo degli interessi economici che vi aveva la corte, fu sostanzialmente gestita da Costantinopoli, mentre la Sardegna venne a dipendere dal prefetto al pretorio per l’Africa (con sede a Cartagine). Questa struttura ebbe breve vita; già dalla fine del VI secolo, dopo che l’Italia era stata invasa dai Longobardi, fu nominato da Costantinopoli un responsabile di tutti i possedimenti della penisola, chiamato ‘esarca’, che aveva sede a Ravenna. Egli esercitò un controllo effettivo sulle altre province italiche fino agli inizi dell’VIII secolo, per poi perdere di potere nei confronti dei vari duchi che controllavano le altre aree bizantine (le Venezie, le Marche fino a Fermo, Perugia, Roma e il suo hinterland, Napoli, Amalfi e Gaeta, il Salento, la Calabria meridionale e la Sicilia). Le aristocrazie ducali, composte da élites militarizzate, tra l’VIII e il IX secolo promossero localmente processi di autonomismo politico, in molti casi senza rompere formalmente i legami con Bisanzio. Dopo che la Sicilia fu conquistata dagli Aghlabiti, a partire dalla fine del IX secolo, l’impero rafforzò il proprio potere territoriale in Puglia e Calabria, che furono dotate di proprie istituzioni separate: i «temi» (province) di Calabria, di Lucania e di Longobardia, i cui responsabili erano detti «strateghi» (lett. «generali»). Il titolare di quest’ultima circoscrizione cambiò la propria titolatura in «catepano d’Italia» a partire dalla fine del X secolo. Da IX al X secolo, la Sardegna fu un arcontato marittimo.
Come si articolava l’amministrazione bizantina nella penisola?
Come ho già fatto cenno, fino alla metà dell’VIII secolo esisteva un alto dignitario, l’esarca, che fungeva teoricamente da supervisore delle amministrazioni locali e rispondeva del suo operato di fronte alla corte di Costantinopoli. Nei secoli dal IX al XI, invece, i singoli governatori locali vennero nominati e controllati direttamente dal centro, senza l’esistenza di funzionari intermedi, come erano stati gli esarchi. Bisogna però ricordare che il complesso di quella che noi oggi chiamiamo «amministrazione» aveva un significato più ampio nel mondo bizantino. Essa non comprendeva solo coloro che ricevevano incarichi diretti per esercitare una funzione specifica, ma anche l’insieme di coloro che avevano ricevuto dei titoli di rango (axiomata). Questi ultimi, pur non amministrando una funzione specifica, esercitavano, insieme ai vescovi, una notevole influenza sulla dialettica politica perché rappresentavano gruppi di pressione in grado di condizionare i governatori e l’opinione pubblica.
Qual era il contesto economico e sociale dell’Italia bizantina?
I possedimenti bizantini sottoposti al governo dell’esarca avevano quasi tutti importanti città marittime o dotate di un porto a breve distanza. Il rapporto con il mare garantiva a questi centri (Ravenna, Rimini, Ancona, Roma, Napoli, Gaeta, Amalfi, Reggio Calabria, Siracusa, Otranto) la possibilità di ricevere produzioni di vino e olio provenienti dall’Africa, dal bacino egeo e del Vicino oriente, nonché — almeno fino al termine del VII secolo — ceramica fine da mensa prodotta in Africa. Queste produzioni e materiali, la contrario, raggiungevano i centri dell’Italia continentale longobarda con maggiore difficoltà. Le chiese di Roma e Ravenna erano i più grandi proprietari fondiari del primo medioevo e avevano terre distribuite in molte regioni italiane, tra cui, soprattutto, la Sicilia. Quest’ultima era probabilmente la società locale più florida economicamente, non solo dell’Italia bizantina, ma dell’intero impero, se si eccettua l’area costantinopolitana. Circa la struttura sociale esistevano differenze tra i vari possedimenti dell’Italia bizantina. Nel Ravennate, nell’area marchigiana, a Roma e in Campania, accanto alle élites civili ed ecclesiastiche, proprietarie di discreti possedimenti fondiari, esisteva un ceto ‘medio’ impegnato nell’artigianato e nel commercio, ma dotato anche di un piccolo possesso fondiario, che era in grado di sostenere la domanda economica. In Sicilia è l’intera organizzazione insediativa che sembra coinvolta dal ciclo di produzione, distribuzione e consumo, in un meccanismo in cui tanto le città (soprattutto Siracusa, Catania, Enna e Palermo) quando grandi borghi rurali alimentano l’economia. Nel IX e X secolo, l’economia rurale della Puglia è caratterizzata dalla presenza di piccoli proprietari, mentre la grande proprietà è rappresentata dai grandi monasteri di tradizione longobarda (S. Benedetto di Montecassino, S. Vincenzo al Volturno). Anche la Calabria mancava di grandi proprietari rurali, se si eccettuano alcuni episcopati, come quello reggino, e in essa il frazionamento della terra sembra avere raggiunto livelli considerevoli. Il Meridione italiano, peraltro, tra il IX e l’XI secolo, è inserito in una rete di scambi che coinvolge tutti i suoi attori politici. Essa alimenta un circuito commerciale che mette a contatto il mondo latino (i ducati campani e le signorie longobarde), quello greco (i possedimenti bizantini) e quello musulmano (Sicilia, Tunisia ed Egitto).
Qual era il panorama linguistico dell’Italia bizantina?
La grecofonia era poco diffusa nel Ravennate e nelle Marche bizantine. Roma e Napoli, al contrario, pur essendo città latinofone, ospitavano importanti gruppi di parlanti greco — soprattutto monaci e amministratori imperiali. Sicilia orientale, Calabria meridionale e Salento erano invece regioni in cui il greco era un veicolo di comunicazione quotidiana diffuso in tutti gli strati sociali. La Puglia centro-settentrionale, pur sotto il governo bizantino, restò sostanzialmente latinofona. La Sardegna, al contrario, benché anch’essa regione di cultura linguistica latina nell’antichità, venne segnata dalla memoria scritta di ceti dirigenti che parlavano il greco. Se guardiamo ai processi linguistici in una diacronia lunga, si deve aggiungere che l’arabizzazione della Sicilia e la successiva comparsa dei Normanni sulla scena politica del Mezzogiorno, crearono in quest’ultima area i presupposti per l’esistenza di una società multiculturale e plurilingue nell’XI e nel XII secolo, che ha pochi confronti con altre zone dell’Europa medievale. In essa le comunità di parlanti greco in Sicilia, in Basilicata, Calabria e Salento continuarono a vivere fino al XIII secolo, in alcuni casi anche oltre.
Quale produzione e circolazione avevano i libri?
La produzione di codici e la loro circolazione ha avuto una impressionante vitalità nell’Italia bizantina e post-bizantina. Essa in centri come Roma e, in parte, Napoli, tra il VI e il X secolo ha riguardato tanto la produzione di opere in latino, quanto quella di opere in greco. Nell’ambito specifico della cultura italo-greca, secondo una stima molto approssimativa si calcola che tra il VI e il XV secolo siano stati copiati o importati nella penisola circa 2200/2300 manoscritti greci. La copiatura di essi si concentra soprattutto a Roma, Sicilia, Calabria e nel Salento. Tale produzione riguarda in larga misura la trasmissione dei libri sacri (Bibbia e Vangelo), la liturgia, la dogmatica e la catechesi, nonché l’agiografia. Tra la cultura profana, è soprattutto la scienza giuridica ad essere tramandata, accanto a quella medica. Pochi sono, invece — almeno tra IX e XI secolo — i testimoni che trasmettono gli scritti della cultura greco-romana.
Quali questioni rimangono aperte nella storiografia dell’Italia bizantina?
I cantieri storiografici aperti sono molti. Essi vanno dal completamento dello studio dei manoscritti italo-greci alle serie documentarie di età normanno-sveva; dalle indagini sugli insediamenti, la viabilità, le produzioni e gli scambi del Salento, della Calabria e, soprattutto, della Sicilia, allo studio della cultura artistica di quelle stesse regioni. Anche la Sardegna, che sta ricevendo un’attenzione sempre maggiore da parte delle generazioni degli studiosi più giovani, necessita ancora di molto lavoro in ambito storico e archeologico; e, ancora, bisognerebbe dedicare più attenzione all’analisi delle interazioni socioculturali tra le società bizantine della penisola e quelle longobarde o islamiche. Ma forse la più importante questione storiografica ancora aperta riguarda la piena integrazione delle ricerche sul mondo bizantino con quelle della medievistica più in generale. L’attuale sistemazione del settore della bizantinistica nell’ordinamento universitario italiano la include nel comparto più generale della «Lingua e letteratura greca». Questo se da un lato risponde correttamente all’idea di studiare una lingua nella sua lunga vitalità dalla grecità classica ed ellenistica fino al mondo bizantino e neogreco, dall’altro rischia di comprenderla in maniera avulsa o superficiale rispetto al contesto storico-sociale in cui era parlata. Ciò non favorisce il dialogo con la storia e può dare l’impressione all’opinione pubblica che Bisanzio sia stata una civiltà estranea al nostro paese. A me sembra che la modernità del mondo bizantino sia proprio il suo essere stato — paradossalmente, rispetto alle accuse di ‘immobilismo’ cui è stato tacciato nella storiografia del passato — una civiltà dalle molteplici morfologie capace di impersonare alla perfezione quella nozione di «resilienza» sociale sul cui valore oggi insistono molti storici. L’impero d’Oriente nacque in assoluta continuità della tradizione imperiale romana, ed ebbe una sua importante vita post-antica; ma, dal VII secolo, diventò una società medievale. Per lunghi periodi della sua esistenza costituì un impero dalla vocazione politica universale che non fece alcuna distinzione di razza o di lingua tra i sudditi, purché fossero fedeli all’imperatore e all’ortodossia religiosa. Al crepuscolo della sua esistenza, tuttavia, i suoi intellettuali riabilitarono l’ellenismo degli antichi e le sue aristocrazie recuperarono una forma di sentimento «greco» in senso etnico.
Salvatore Cosentino è Professore ordinario di Civiltà bizantina all’Università di Bologna e Presidente della Consulta Universitaria per la Civiltà Bizantina e Neogreca. I suoi principali interessi si concentrano sulla storia socioeconomica della prima età bizantina, sull’epigrafia, nonché sulla storia e archeologia delle isole del Mediterraneo altomedievale. Le sue opere includono Storia dell’Italia bizantina da Giustiniano ai Normanni (BUP, Bologna 2008) e Ravenna and the Traditions of Late Antique and Early Byzantine Craftmanship (De Gruyter, Berlin 2020, come editor).