“A carte scoperte. Come lavorano le scrittrici e gli scrittori contemporanei” a cura di Paola Italia

Prof.ssa Paola Italia, Lei ha curato l’edizione del libro A carte scoperte. Come lavorano le scrittrici e gli scrittori contemporanei edito da Bononia University Press, che riunisce le interviste a ventidue autrici e autori – tra i quali Andrea Bajani, Marco Balzano, Giuseppe Culicchia, Paolo Di Paolo, Paolo Di Stefano, Marcello Fois, Helena Janeczek, Gaia Manzini, Dacia Maraini, Beatrice Masini, Melania Mazzucco, Valeria Parrella, Antonio Scurati, Walter Siti, Andrea Tarabbia e Simona Vinci – sul loro «rapporto di scrittura»: come scrivono oggi le scrittrici e gli scrittori?
A carte scoperte. Come lavorano le scrittrici e gli scrittori contemporanei, Paola ItaliaIl libro è un progetto collettivo, che ho svolto con i ragazzi del Master in Editoria cartacea e digitale, fondato da Umberto Eco e ora diretto da Anna Maria Lorusso all’Università di Bologna (tutte le informazioni sul progetto si trovano nel sito del Master). Era da tempo che volevo indagare il “rapporto di scrittura” – l’espressione è del grande paleografo Armando Petrucci – dei narratori contemporanei, e l’occasione è venuta dalla volontà dei ragazzi di contribuire a tenere viva l’attenzione sul caso di Patrick Zaki, studente come loro di un altro master dell’Università di Bologna, ingiustamente incarcerato dal febbraio 2020 dal Governo egiziano senza avere ancora subito un processo. Il ricavato del volume andrà infatti alla campagna di Amnesty International per Patrick. Questa è anche la ragione del titolo: A carte scoperte, un modo per indagare la scrittura nel mondo contemporaneo, ma anche per ricordare che la filologia, cioè la scienza che studia i testi, è anche un esercizio di ricerca della verità.

Ci ha fatto molto piacere avere avuto l’adesione di così tante scrittrici e scrittori, tra i più apprezzati dalla critica e dal pubblico. Il libro è diventato così una specie di manuale di scrittura creativa, e un rapporto sullo “stato dell’arte” della scrittura contemporanea. Li abbiamo interrogati, ponendo a tutte e a tutti dieci domande sui loro metodi di lavoro, i tempi e i luoghi della scrittura, su cosa c’è sulla loro scrivania, su come hanno cambiato il modo di scrivere nel passaggio dal cartaceo al digitale, sulle riscritture e le correzioni dei loro “scartafacci”, sul rapporto con le loro biblioteche, i loro modelli letterari e il rapporto con i loro editori ed editor. E anche su quella che ora chiamiamo la “volontà di archivio” ovvero la decisione di conservare traccia del loro lavoro creativo e di farlo conoscere ai posteri attraverso gli archivi letterari.

Dalle risposte che ci hanno dato – a volte molto articolate e generose – abbiamo ricavato un panorama molto variegato, una carta geografica decisamente affascinante della creatività scritta. Il libro infatti può essere letto in due modi: autore per autore, vedendo come ciascuno di loro ha risposto alle diverse domande, ma anche trasversalmente, scoprendo come tutti hanno risposto alle domande singole. Le diverse risposte tracciano un quadro diverso su ciascun tema affrontato.

Cosa è cambiato con la scrittura digitale?
Questa è stata una delle domande a cui abbiamo ricevuto le risposte più sorprendenti. Un aspetto che ci interessava capire, infatti, era proprio se l’introduzione della scrittura a computer avesse portato alla scomparsa della scrittura a mano, e se, quindi, quella straordinaria mappa del pensiero creativo che sono gli “scartafacci” degli scrittori, fosse destinata a scomparire. Per fortuna – lo dico anche da filologa appassionata di “carte d’autore” – non è così.

La scrittura a mano non solo sopravvive, ma accompagna ancora il lavoro creativo delle scrittrici e degli scrittori, anche se in forme diverse. Molti di loro, infatti, ci hanno raccontato come la fase progettuale del loro lavoro si svolga ancora a mano, su fogli sparsi, blocchi di appunti, notes, su cui fissano pensieri, osservazioni, impressioni, che poi svilupperanno a computer. Si potrebbe pensare che il passaggio al supporto digitale abbia diviso il modo di comporre delle scrittrici e degli scrittori a seconda delle generazioni. In parte è così. Altro è avere trent’anni o quarant’anni (come Bajani, Balzano, Di Paolo, Manzini, Parrella), e avere avuto una formazione (quasi) nativa digitale, altro è essere passati al digitale alla fine degli anni Ottanta, a venti, trenta o quarant’anni, come molte delle altre scrittrici e degli altri scrittori che abbiamo intervistato, cioè dopo una formazione intellettuale “analogica”, svolta su libri cartacei, dove i romanzi nascevano su block notes e quaderni, venivano corretti a mano, battuti a macchina, e ricorretti a mano per successive battiture…

È stato molto interessante vedere che, anche le generazioni più giovani continuano a considerare il “rapporto di scrittura” in forma analogica: la mano sul foglio di carta è ancora l’atto creativo primigenio della scrittura. E non solo. Come molti “scartafacci” che ci hanno donato mostrano – sono stati pubblicati all’interno del volume –, la prima fase creativa, che avviene su carta, è spesso accompagnata da disegni, mappe mentali, schemi. Due per tutti: la splendida mappa di Helena Janeczek per La ragazza con la Leica (a p. 60) e gli appunti “iconici” di Paolo di Paolo di Svegliarsi negli anni Venti (a p. 38). Quasi tutti dichiarano, poi, che il momento, importantissimo, della revisione, della correzione del testo, deve avvenire su carta, non solo perché il testo viene percepito in modo più chiaro, ma perché solo su carta, come ha dichiarato Paolo Di Stefano, “si ha la percezione complessiva del libro di cui si fatica a cogliere la consistenza, non solo fisica” (p. 45). Un problema che Di Stefano (ma non solo lui) riscontra anche nella lettura: “come lettore di e-book sento il disagio di non percepire l’insieme del libro, come se navigassi alla cieca” (p. 45).

Il digitale è il libro del futuro (questo libro, del resto, è disponibile anche in versione E-book, nel sito della Bononia University Press), ma il cartaceo è ancora il luogo del pensiero creativo.

Che rapporto hanno con i libri?
Gli scrittori hanno un rapporto con i libri della propria biblioteca molto “biologico”, come una seconda pelle che sentono di potere o non potere indossare. C’è chi decide di tenersi a rigorosa distanza e considera i libri “sacri”, intoccabili, rifiutando anche solo il gesto di sottolineare i passi più rilevanti, per una vera e propria devozione verso l’oggetto-libro, come Maurizio Maggiani, che ha dichiarato: “Non ho mai pensato che fosse una cosa carina, e che fosse bene conservarli perché qualcun altro potesse usarli. Questo mi viene dall’educazione che ho avuto: mio padre era un operaio ma aveva una biblioteca e leggeva molto. Per lui comprare un libro era un sacrificio enorme, aveva una grande devozione per i libri”, p. 67), o come Antonio Franchini, che ha derivato la “bibliomania” dal padre bibliofilo (“Questo ha fatto sì che io non lo diventassi, che non avessi un particolare gusto per il libro dal punto di vista estetico, però mi è rimasta l’abitudine di non annotare i libri, non lo facevo neanche con quelli scolastici. Bibliofilo no, bibliomane naturalmente sì”, p. 57); chi, come Helena Janeczek, invece di sottolineare usa i post it, e chi invece, come Gaia Manzini, i libri degli altri li “indossa” volentieri, e anzi dichiara di avere una voracità “predatoria”: “I libri sono strumenti di lavoro, sono presenze vive. Mi sento di instaurare con i libri nei quali trovo ispirazione un rapporto personale. Le considerazioni che mi suggeriscono sono come le battute di un dialogo tra me e le pagine: le appunto ai margini. E ovviamente sottolineo, cerchio, talvolta disegno. Sono libri di altri autori, ma tra le loro pagine […] ci sono anch’io” (p. 74). O infine chi, come Dacia Maraini, annota nelle ultime pagine “i pensieri che mi suscita la lettura”. Per molti, l’abitudine a non annotare i libri viene dall’avere frequentato a lungo le biblioteche pubbliche, e avere quindi considerato i libri allo stesso modo in cui Gadda considerava le parole dei poeti, che sono “come gli asciugamani dei molti coscritti, in camerata, che il tuo di oggi è il mio di domani, e viceversa”: un patrimonio collettivo, come spiega Beatrice Masini: “Annoto poco, qualche volta una leggerissima sottolineatura a matita e basta, perché do per scontato che quello stesso libro verrà letto da qualcun altro che sceglierà il suo, di passo preferito, e non è detto che sia anche il mio.”

Altri ancora, come Marcello Fois, combattuti tra il desiderio di personalizzare il libro e l’idiosincrasia per le “costole aperte”, risolve il dilemma comprandone due copie: “Non annoto mai i miei libri, sono un maniaco compulsivo. Di alcuni libri che mi stanno particolarmente a cuore compro copie di servizio proprio per non profanare i volumi” (p. 51); mentre Melania Mazzucco ha la libreria “piena di doppioni”: “siccome gli scaffali sono meno dei libri, li tengo in doppia, tripla fila, in orizzontale, anche a terra, sotto le poltrone, sotto il letto, sotto la scala e pure in bagno, sopra il phon e vicino alle bottiglie di gel. Sicché solo io riesco a ricordare dove ho messo un certo volume. Ma dopo qualche anno che non lo vedo in giro, nemmeno io saprei ritrovarlo. Spesso lo ricompro” (p. 88). Modi diversi di dialogare con i propri libri, che ci fanno capire quanto sia importante studiare le biblioteche d’autore, antiche e moderne.

Che rapporto esiste tra la scrittura e il luogo fisico in cui lavora uno scrittore?
Le risposte alle domande relative ai luoghi (e anche ai tempi) della scrittura ci hanno fatto capire che ogni scrittore ha un proprio metodo di lavoro che non prescinde dall’ambiente fisico circostante, e che, anzi, viene influenzato e agisce su di esso: come ogni animale, anche l'”animale scrittore” cerca il proprio habitat e lo modifica a seconda delle sue necessità. Entrare nel laboratorio degli scrittori, in questo senso, è stata una avventura davvero affascinante.

Molti di loro hanno dichiarato di riuscire a scrivere solo a casa, e accompagnati dalla musica, come Marta Morazzoni: “La casa è il luogo della scrittura, anche perché in qualunque punto della casa la musica è lì, a disposizione, ed è un elemento connaturato al processo dello scrivere. Ci sono stati momenti in cui un dato brano musicale era diventato essenziale per procedere, come fosse un traino a cui agganciare il mio ritmo narrativo” (p. 93) o Valeria Parrella, che ha una scrivania molto affollata: “Un bicchiere, una bottiglia d’acqua naturale, una penna, una matita, un libretto rosso di Mao Tse-Tung, Cuore di tenebra di Conrad e due libri sul Giardino di Boboli, una tazza, un telecomando, la mia agenda, due chiocciole di scotch, uno spray anti-zanzare, due tazze con spillatrici e forbici, due fermacarte, una piccola cassa per la musica […]”. O ancora Paola Capriolo, che non riesce a scrivere se non si sente “nella sua tana” (che però sono tre “tane” diverse, e hanno sempre una visuale aperta), e che ha con la musica un rapporto tutto particolare: ” La musica non è soltanto un tema ricorrente nei miei libri, ma un punto di riferimento essenziale sul piano stilistico: credo di avere imparato di più dalla tecnica compositiva di Wagner che da molti romanzi” (pp. 30-31). Altri scrittori, invece, come Giuseppe Culicchia, possono scrivere ovunque: “non solo nel mio studio ma anche in cucina, in camera da letto, in bagno, in soggiorno, sul terrazzo, in treno, in auto (ma deve guidare qualcun altro), in aereo, in nave. I luoghi non influenzano il mio modo di scrivere” (pp. 33-34), ma sempre accompagnato dalla musica: “Ogni testo comunque ha avuto fonti di ispirazione diverse. Il mio primo romanzo, Tutti giù per terra, deve molto a Post Office e al primo album dei Ramones. Il terzo, Bla bla bla, l’ho scritto ascoltando gli Orbital. Il penultimo, Il cuore e la tenebra, è figlio della Nona Sinfonia di Ludwig van Beethoven eseguita dai Berliner diretti da Wilhelm Furtwängler il 19 aprile 1942 […]” (p. 35).

Oltre alla musica, anche il rapporto con la natura è essenziale nella genesi creativa. Per Simona Vinci, l’atto stesso della creazione ha una natura vegetale: “In genere utilizzo un metodo molto artigianale: un grande foglio di cartoncino appeso al muro e post-it di colori diversi, perché ho bisogno di visualizzare la struttura del testo, le diramazioni. Ho in mente un albero: radici, tronco, rami, fronde, foglie, fiori, frutti. La metafora vegetale mi è molto utile perché, comunque, un testo è per me materia biologica” (p. 131).

Non sono pochi gli scrittori che dichiarano di potere scrivere solo in solitudine, nel silenzio delle montagne, come Dacia Maraini: “Appena posso mi ritiro nella mia casa di Pescasseroli, a 1.200 metri di altezza, dove respiro un’aria più buona e sono circondata da boschi, fra i cui alberi passeggio una o due volte al giorno” (p. 77) o Laura Pariani, che vive in un paesino dell’Alto Piemonte di 250 anime (e un fantasma domestico ribattezzato “il vetraio”) e scrive all’alba, “quando il giorno inizia e la casa è vuota” e “dalla finestra che sta alla mia destra, vedo il lago in lontananza, le montagne ancora coperte di neve, la collina che in questo momento (marzo 2021) comincia a fiorire, l’orto coi gatti” (p. 99), o infine Alessandra Sarchi, che scrive in uno studio spazioso, “con i miei libri, molta aria sulla testa, una bella luce che arriva dalle due finestre affacciate sul verde” (p. 111). Luce, cielo e natura sono, quasi per tutti, un habitat ideale, anche se, pare strano, non sempre facile da ottenere, anche per scrittrici di successo come Melania Mazzucco: ” L’unica cosa che ho sempre desiderato – raramente avuto – è la luce. Il cielo, una finestra, la chioma di un albero. Ma scrivo con le spalle al muro, come i gangster” (p. 87).

Ci sono però alcune eccezioni, come Antonio Scurati. Che non ha bisogno di “luoghi ameni” per scrivere, e che, citando Gore Vidal, dichiara che “Quando si scrive, si scrive sempre su di una scrivania collocata di fronte a un muro bianco» (p. 117).

In che modo il rapporto con editori e redattori influisce sulla scrittura?
Mi occupo da molti anni di editing (con Editing Novecento, nel 2013) e di filologia editoriale (con Editori e Filologi, curato con Giorgio Pinotti, nel 2014), ovvero dei rapporti di forze, nella genesi ed evoluzione dei testi, tra la volontà dell’autore e quella degli editori e dei redattori/editor, e mi interessava capire come tali rapporti, nella scrittura attuale, si sono evoluti. Se, cioè, in un momento di disintermediazione generale come quello che stiamo attraversando, e in cui anche l’editoria fatica a trovare un proprio ruolo e una propria collocazione, misconosciuta dai libri on line “fai da te”, dalla esternalizzazione del personale redazionale e dalla “caduta libera” dei livelli di tolleranza della curatela redazionale (per la rapidità con cui si svolge il processo editoriale, ma anche a volte per ignoranza e incuria), gli scrittori sentono ancora quel bisogno di confronto con lo “sguardo dell’editore”, che ha sempre garantito, dall’invenzione della stampa in poi, una proficua collaborazione, un dialogo fruttuoso.

Tra autore ed editore, da Aldo Manuzio e Bembo in poi, c’è sempre stato un rapporto di filiazione. L’editore a volte è la levatrice, a volte la balia, a volte il “precettore” del libro (con tutte le conseguenze sugli errori, o i presunti errori che ritiene di dovere correggere…). Ora, questo rapporto sembra essere svanito, gli editori sono ridotti a tipografi di libri impaginati senza editing e distribuiti dalle grandi piattaforme commerciali.

Le risposte che abbiamo ricevuto sono però abbastanza incoraggianti. Per le autrici e gli autori che abbiamo intervistato gli editori sono ancora un punto di riferimento, e rappresentano un interlocutore indispensabile, uno specchio in cui riflettere il proprio lavoro creativo, come dichiara Marco Balzano in una vera e propria dichiarazione filo-editor: “ho sempre lavorato con editor di grande intelligenza e sensibilità, che hanno compreso la mia scrittura e le mie storie, sapendole valorizzare, insegnandomi a prendermi più spazio o a compattare la pagina. Non ho mai subito invasioni di campo: nessuno ha mai scritto una sola parola al posto mio e nessuno ha mai messo in discussione lo spirito e l’intenzione dell’opera. Ho dialogato e discusso e ne sono sempre uscito migliore” (p. 26). Paola Capriolo, che da esordiente giovanissima ha avuto un costante rapporto con editori ed editor, ha parlato dell’editor come “l’avvocato” del lettore ideale, colui che “è chiamato a rappresentarne gli interessi”, e che spinge l’autore, soprattutto nelle fasi in cui non viene pubblicato, a uscire dal “solipsismo” in cui tende a rinchiudersi, e a considerare invece “la scrittura come un atto pubblico, o destinato a divenire tale” (p. 31).

Ma ci sono anche eccezioni, come Walter Siti, che, da esordiente “tardivo” (a 47 anni), ma da docente universitario e critico letterario, pubblica il suo primo romanzo (Scuola di nudo, di “600 pagine”) “quasi senza editing”, e, almeno inizialmente, tende a fidarsi poco dei consigli degli editor: “scherzavo dicendo che usavo gli editori come copisterie. Poi, in seguito a qualche bella esperienza, ho imparato ad ascoltarli di più, ma continuo a temere che abbiano impulsi (più o meno coscienti) a far inclinare i testi verso il trendy” (pp. 123-24). Diffidente verso la ricerca dei “libri benintenzionati” e il “politicamente corretto” (p. 124).

L’indagine getta uno sguardo verso il futuro, con una domanda sul destino delle tracce del proprio percorso creativo: cosa immaginano, per i loro archivi, cartacei e digitali, gli autori intervistati?
La nostra ultima domanda ha riguardato proprio la conservazione della documentazione della scrittura, che nel passaggio dal cartaceo al digitale è un problema di portata storica, spesso sottovalutato. La nostra generazione rischia di diventare quella che ha avuto a disposizione la più ampia quantità di documenti storici, digitalizzati e a portata di tutti i lettori, ma che non lascerà ai posteri traccia documentale del proprio passaggio, perché, a differenza della cultura scritta, quella digitale – per esempio tutte le corrispondenze mail degli anni Novanta e Duemila, ma anche le diverse redazioni dei testi scritti a computer, le cosiddette “carte d’autore” – non è stata affidata a supporti durevoli, non siamo più in grado di leggere i floppy disk di trent’anni fa e appena smetteremo di pagare l’ “affitto” dei nostri archivi cloud personali, i nostri dati spariranno. In questo senso, la nostra domanda voleva essere uno stimolo, e anche una provocazione, e le risposte sono state molto diverse.

Alcuni sono rimasti colpiti dalla domanda, e un po’ turbati, come Beatrice Masini (“non credo che sia di alcun interesse”, p. 84) o Maggiani (“Ho un archivio, mia moglie si è messa lì e lo ha messo a posto. Ma mia moglie non è un’istituzione, mia moglie è un amore. Per il resto non saprei, non mi sono mai posto il problema. Quando morirò… Bah, ma chi se ne fregherà!”, p. 69), oppure colpiti da una proiezione in un futuro lontanissimo, come Gaia Manzini (“Mi sembra un onore grandissimo, qualcosa che proietterebbe nel futuro la mia scrittura, e forse per questo non mi sono mai concessa di azzardare questa ipotesi”, p. 75), o, con gesto apotropaico, da allontanare, come Scurati, che, nonostante abbia “numerosi faldoni che vanno riempendosi di materiali da archivio (e anche di romanzi inediti)”, non ha mai “dedicato un pensiero alla questione. Per scaramanzia, credo” (p. 118).

Altri hanno mostrato invece consapevolezza dell’importanza dei loro archivi. Dacia Maraini ha già destinato le proprie carte all’università di Stanford, e ha a Vienna un Dacia Maraini Fan Club pronto a riceverle; Marco Balzano, per evitare “che ciò che ho accumulato e che accumulerò non vada perso o finisca in soffitta” (p. 26), pensa di donarlo al Centro Manoscritti dell’Università di Pavia, fondato da Maria Corti o alla biblioteca di Villa Litta Modigliani, dove ha scritto i suoi romanzi. L’Archivio, del resto, è un proprio doppio cartaceo, ed è il rovescio della medaglia della propria opera pubblica. Naturale che si pensi ad esso, nel futuro, in un luogo famigliare: “mi piacerebbe – continua Balzano – che le mie parole stessero […] nella Biblioteca di Bollate, la città dove abito. È un luogo che ho frequentato sin da bambino, prima con mio padre, poi con i compagni di scuola, più avanti con gli amici dell’università e dove ancora adesso mi piace tornare con i miei figli”. Paolo Di Stefano, che di carte d’autore se ne intende (anche come filologo, allievo di Maria Corti), pensa alla “Fondazione Corriere della Sera”, mentre Marcello Fois “a Nuoro, nella sala autografi della Biblioteca Satta per tutti i romanzi nuoresi e a Bologna, magari all’Archiginnasio dove ho studiato e lavorato per tanto tempo, per tutto il resto” (p. 53). Walter Siti – con ironico understatement – ha raccontato di avere addirittura il proprio archivista personale: “C’è un amico di Pisa, anzi di Peccioli, che da parecchi anni ha creato una specie di “archivio Siti”: io gli consegno di volta in volta tutte le carte e i quaderni e lui (spero) li tiene in ordine. Si chiama Alessandro Grilli. Ci mette un impegno degno di miglior causa, mi ha riferito che qualche studente ci è perfino andato a studiare le varianti. Lo fa gratis e gliene sono molto riconoscente, anche se continua a sembrarmi una cosa un po’ buffa” (p. 124).

C’è chi, infine, ha frequentato gli archivi per lavoro, come Andrea Tarabbia, che ha lavorato con la Fondazione Mondadori, e, avendo un archivio prevalentemente digitale, ha già deciso di inviare loro tutte le sue password… o Melania Mazzucco, che li ha frequentati per le ricerche storiche dei propri romanzi (“L’idea che un giorno qualcuno possa ritrovare le mie carte come io ho ritrovato quelle di suor Perina, la figlia di Jacomo Tintoretto, o quelle di Plautilla Bricci, mi emoziona”, p. 90), e possiede il doppio sguardo dello scrittore e del ricercatore: “Vorrei solo che fosse in un luogo che ho amato e che è legato ai miei libri e a me: trovo tristissimo che gli archivi di tanti scrittori italiani siano stati venduti in America, dove sono certo valorizzati, ma dove quelle carte sono anche esuli, sradicate, fuori contesto come un quadro in un museo. E dovrà essere di facile accesso. In questi anni mi sono scontrata spesso coi vincoli posti dagli eredi sulle carte dei loro parenti: so quanto è difficile per uno studioso o una studiosa indipendente o giovane essere ammessa anche solo alla consultazione di un faldone, ed eviterò quindi istituzioni chiuse, arroccate, selettive. Credo nella libertà della ricerca” (p. 90).

Una dichiarazione che ci sentiamo di sottoscrivere. E che racchiude lo spirito di questo libro “collettivo”.

Paola Italia insegna Letteratura Italiana e Scholarly Editing e al Master di Editoria cartacea e digitale dell’Università di Bologna. Si è occupata di edizioni di testi, cartacei e digitali (Editing Novecento, 2013 e Editing Duemila, 2020), con una particolare attenzione allo studio e all’edizione delle varianti degli autori (Che cos’è la filologia d’autore, scritto con Giulia Raboni, 202010 e Come lavorava Gadda, 2017). Cura il portale filologiadautore.it (che dal 2010 ha avuto più di 800.000 contatti).

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