
Il web ha migliorato le nostre vite esponendoci però al rischio di perdere familiarità con la nostra memoria: «Se posso sapere tutto in tempo reale non devo più ricordare nulla; non devo più sforzarmi di compiere attività mnemoniche di alcun tipo.» Nuove abitudini hanno modificato il nostro comportamento, come «il gesto di appoggiare il cellulare sul tavolo mentre parliamo con qualcuno»; quello che potrebbe apparirci un atto neutro in realtà non lo è affatto: come spiega la psicologa e psicoterapeuta Rossella Dolce esso rappresenta «un segnale che per noi quell’oggetto è importante e che con la mente siamo già predisposti ad accettare altri collegamenti a cui daremo la precedenza rispetto a chi abbiamo di fronte».
Ecco dunque che il rapporto con lo smartphone assume i contorni di una vera e propria dipendenza: «Siamo dentro un sistema irreversibile da cui non è più nemmeno ipotizzabile pensare di uscire. Non mi sorprende leggere che un utente medio oggi sblocca e usa il suo iPhone circa ottanta volte al giorno, quasi trentamila volte in un anno, stando ai dati Apple (probabilmente già superati). O che tocchiamo il nostro cellulare 2617 volte al giorno, secondo i calcoli di un altro studio. La situazione è tale che il dato divulgato dal guru della manipolazione in rete Nir Eyal nel libro Catturare i clienti, secondo cui il 79 per cento dei possessori di smartphone controlla il proprio apparecchio tutte le mattine non più tardi di quindici minuti dopo essersi svegliato, mi pare inverosimile; ma per difetto. Per quanto mi riguarda, non solo prendo il telefono sopra il comodino ancora prima di essere completamente sveglia, con un automatismo del tutto assimilabile alla respirazione, ma riesco anche a digitare i tasti al buio e a raggiungere la mia bacheca Facebook senza nemmeno aprire le palpebre.»
Perché è proprio l’attenzione il bene più raro e prezioso in questa nostra epoca, quello «più ricercato nel mercato globale»: «La lingua inglese ha un’espressione più densa della nostra per rendere quello di cui stiamo parlando, to pay attention, come se l’attenzione fosse un capitale, una moneta preziosa da spendere che, se dissipata, si esaurisce.»
È qui che irrompe l’agnizione suprema, quella che dà titolo al libro, originata da «una ricerca della Tate Gallery di Londra su come e quanto, nella nuova era dell’iperconnessione, ci fermiamo davanti alle opere d’arte nei musei»: 8 secondi.
«Otto secondi rappresentano oggi la nostra curva d’attenzione abituale, il tempo medio dopo il quale la nostra mente perde il fuoco».
Il sovraccarico cognitivo è reale: «In The Organized Mind […] il neuroscienziato Daniel Levitin sostiene che abbiamo una capacità di elaborazione cosciente (cioè il limite massimo di velocità per il traffico di informazioni a cui possiamo prestare attenzione) intorno a 120 bit al secondo, un numero ridicolmente basso rispetto alla quantità di stimoli da cui siamo inondati. […] Oggi ci troviamo di fronte a una quantità di informazioni senza precedenti: […] ogni secondo viene prodotto in rete l’equivalente di 28 milioni di volumi»!
Il flusso di stimoli e informazioni che ci travolge in continuazione genera un affaticamento cerebrale detto information fatigue syndrome. Come afferma il filosofo Byung-Chul Han, «quanta più informazione viene liberata, tanto più il mondo diventa meno chiaro. Da un certo punto in poi l’informazione non è più informativa ma deformativa».
E così viene meno anche il mito del cosiddetto multitasking: come afferma la professoressa Gloria Mark dell’Università della California, «gli esseri umani non possono fare due cose nello stesso momento, a meno che non siano gesti estremamente automatizzati. In realtà quello che facciamo è switchare, alterniamo avanti e indietro, rapidissimamente. Questo significa però rifocalizzare ogni frazione di secondo la nostra attenzione. Sembra niente, ma nel corso della giornata il task switching si accumula e diventa stress. E lo stress ha costi enormi per la nostra attenzione e per il nostro cervello.»
Le conseguenze per la nostra salute sono preoccupanti: come afferma il professor Erik Peper, della San Francisco State University, «se il cellulare non squilla o non arriva nessuna notifica, lo vogliamo controllare, perché l’uso di questi apparecchi ha rinforzato certi circuiti neurali e ormai ci aspettiamo sempre delle novità, che il nostro cervello brama. Siamo in un continuo stato di allerta. Dobbiamo guardare il cellulare per vedere se è arrivato qualcosa di nuovo, ma spesso quando lo guardiamo troviamo qualcosa che non avremmo voluto trovare o non troviamo qualcosa che invece avremmo voluto trovare, e questo ci provoca ulteriore ansia, cioè un altro picco di cortisolo, che fa sì che fra poco sentiremo ancora di più il bisogno di andare a riguardare il telefono. Perché controllarlo è il solo modo per calmare per un attimo il nostro stress».
L’autrice invoca allora un «esercizio di resistenza attiva contro lo sgretolamento della nostra attenzione sovrastimolata», contro quella «mente da cavalletta» di cui parla lo studioso del MIT Seymour Papert. «Non è necessario rispondere sempre immediatamente ai messaggi o alle email. Si può anche rispondere più tardi, nella maggior parte delle volte non c’è fretta.» Così non serve nemmeno «controllare subito su Google un’informazione ogni volta che ci sfugge; non c’è niente di male nel coltivare incertezze. […] noi scambiamo la compulsione per educazione e il nostro gettarci nella rete alla ricerca dell’informazione che ci manca per sete di conoscenza. Non ce ne rendiamo conto, ma sono solo automatismi, reazioni incontrollate a uno stimolo, pulsioni mentali che si rafforzano a mano a mano che le assecondiamo».
Senza dimenticarci che «Steve Jobs, che questa tecnologia l’ha inventata, […] proibiva ai suoi figli l’uso di tablet e smartphone a tavola e li invitava a parlare di storia e letteratura.» E così Tim Cook, CEO di Apple, «che non fa usare i social ai nipoti» o Bill Gates, «che ha vietato ai figli il telefono fino all’adolescenza. […] Chris Anderson, direttore per dieci anni della rivista Wired Usa, l’aedo delle nuove tecnologie digitali, davanti alla domanda del New York Times sul perché vietasse in modo tassativo ai suoi cinque figli l’uso dei dispositivi digitali, ha candidamente risposto: «Non sapevo cosa stavano facendo al loro cervello finché non ho iniziato a osservare i sintomi e le conseguenze».