“70 d.C. La conquista di Gerusalemme” di Giovanni Brizzi

Prof. Giovanni Brizzi, Lei è autore del libro 70 d.C. La conquista di Gerusalemme edito da Laterza: alla caduta di Gerusalemme si riconduce generalmente l’inizio della diaspora del popolo ebraico, è realmente così?
70 d.C. La conquista di Gerusalemme Giovanni BrizziNel pamphlet contro l’ex prefetto d’Egitto Aulo Avillio Flacco Filone di Alessandria sostiene che «gli Ebrei considerano loro ‘metropoli’ la Città sacra, dove sorge il Tempio santo dell’Altissimo [= Gerusalemme], ma ciascuno di loro reputa sua patria la terra dov’è nato e cresciuto e che ha ereditato come residenza dai padri, dai nonni, dai bisnonni e da progenitori anche più remoti» (In Flacc. 46); e ribadisce il concetto nelle parole da lui attribuite nella Legatio ad Gaium al tetrarca Agrippa I: «la mia patria [= Gerusalemme] è metropoli non soltanto rispetto alla Giudea, ma rispetto a molte altre terre, poiché ha di volta in volta inviato colonie sia nei territorî circostanti…sia in regioni lontanissime… E non solo i continenti sono pieni di colonie ebraiche, ma anche le isole più importanti, l’Eubea, Cipro, Creta. Tralascio le colonie oltre l’Eufrate…». Infine, secondo Acta Ap.2, 5; 9-11, nella Città Santa ad intendere gli apostoli nelle loro lingue erano «uomini religiosi di tutte le nazioni che sono sotto il cielo…Parti, Medi, Elamiti, gli abitanti della Mesopotamia e della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e dei paesi della Libia, che è intorno a Cirene, e i pellegrini, venuti da Roma, tanto Ebrei che prosèliti, Cretesi ed Arabi».
Erano, ovviamente, tutti Ebrei. Come è stato detto (Troiani), «la linea di frattura col mondo circostante coincideva con i precetti dei padri». Restava insormontabile il carattere che saldava tra loro gli Ebrei ovunque vivessero: il loro riconoscersi, cioè, in una base religiosa comune, che esigeva come imprescindibile il totale rispetto della Legge. In una parola, alla base del rapporto tra i Giudei e il mondo circostante sembra essere la nozione di Terra Promessa. A causa della deriva subita dalla concezione del Divino verso il campo immateriale della religione anche questo concetto, attestato fino da età molto antiche e provvisto dapprima di un senso assolutamente concreto perché ancorato ad una Presenza sentita addirittura come fisica, immanente alla Terra stessa, si stemperò poco a poco a partire dal V secolo a.C, tendendo sempre più a identificarsi con l’evoluzione spirituale che avvicina l’uomo alla divinità; e assumendo via via, con ciò, una dimensione almeno potenzialmente universalistica. La deriva del concetto verso il campo immateriale dell’etica dovette infatti, da ultimo, far sì che (come sarebbe avvenuto poi oltre due millenni dopo per migranti i quali —fossero i Padri Pellegrini o i Mormoni, gli Mzabiti o i Quaccheri— andarono in cerca della loro [Jeru]Salem guidati dalla Bibbia) la ‘Terra Promessa’ venisse riconosciuta nel luogo stesso di destinazione, ovunque fosse, purché fosse possibile instaurarvi il rispetto della Legge. Una diaspora, dunque, era in atto già da secoli.

Si può parlare del conflitto tra Romani ed Ebrei come di una sorta di genocidio?
Ho detto «ai limiti del genocidio» per gli Ebrei della Palestina; ma gravissimo anche per quelli della Diaspora, almeno di Cirene, Cipro ed Egitto (e, in misura minore, per quelli di Alta Mesopotamia e Babilonia).
Per la guerra di Vespasiano e Tito nell’offrirci le cifre del disastro Flavio Giuseppe esagera fino all’inverosimile. Su 2 milioni e settecentomila persone (due volte almeno la popolazione di Roma!) presenti a Gerusalemme il numero dei morti «dall’inizio alla fine dell’assedio» fu, secondo lui, di «un milione e centomila»; mentre i prigionieri catturati durante tutta la guerra sarebbero stati 97 mila. Sono cifre improponibili; così come lo è il dato di Tacito (Hist. 5. 13. 3), che parla di 700 mila assediati. Poiché la superficie di Gerusalemme ammontava a 840 ettari, si è giunti (Avi Yonah) a valutare i residenti in circa 120-150 mila abitanti; ovviamente non tutti periti, ma ai quali vanno aggiunte però le migliaia di pellegrini presenti in città e poi le vittime dell’intera campagna. Il computo delle perdite resta sostanzialmente indecifrabile; ma già in questo primo episodio la cifra dovette essere molto alta.
Durante la campagna partica di Traiano Lusio Quieto (probabilmente il miglior generale al servizio dell’imperatore!) venne sostituito in prima linea. Il comandante mauro ricevette l’incarico di presidiare la Giudea, forse come sintomo di un’inquietudine dai contorni ben precisi. Egli compì massacri terribili nella Mesopotamia, che si era sollevata anch’essa, riconquistando e distruggendo Nisibi ed Edessa, centri ebraici; e colpì duramente gli insorti in tutta la parte settentrionale della regione. Aveva ricevuto da Traiano —sembra— l’ordine di stroncare la rivolta, a costo, se necessario, di annientarvi la componente ebraica; e, certo con qualche esagerazione, la cronaca medioevale siriaca redatta da Dionisio di Telmahor ricorda che, dopo il passaggio delle legioni, le strade restavano disseminate di cadaveri insepolti poiché non rimaneva chi potesse seppellire i morti.
Oltre a lui, della repressione oltre l’Eufrate si occuparono, tra gli altri, Erucio Claro e Giulio Alessandro, probabilmente legati di legione incaricati di riprendere Seleucia, al cui interno si erano ribellate sia la forte comunità ebraica, sia —forse— la stessa componente locale.
Frattanto Marcio Turbone, sopraggiunto dall’Italia (e assistito da milizie levate privatamente dovunque dalle esasperate comunità locali…) provvedeva a soffocare nel sangue la rivolta in Cirenaica e in Egitto. Scarsamente documentata, l’entità della repressione dovette però essere proporzionata alla dimensione —davvero enorme, lo vedremo— della rivolta.
Adriano, infine. Secondo il dato delle fonti letterarie, probabilmente ancora una volta esagerato, durante la seconda rivolta di Giudea vennero distrutti 985 villaggi e cinquanta fortezze; e se le vittime tra i combattenti ammontarono, secondo Cassio Dione, a 580 mila, incalcolabile fu il numero di quanti perirono per fame o per malattia. «L’intera Giudea era praticamente un deserto». Non meno delle terribili perdite subite, a spopolarla contribuì anche la riduzione in schiavitù di un numero immenso di ribelli: secondo le fonti i prigionieri posti in vendita al mercato annuale di Terebinto furono in tale quantità che, nella circostanza, il prezzo di uno schiavo raggiunse a mala pena il prezzo di un cavallo. Quanti rimasero invenduti sul posto furono portati a Gaza e messi all’asta colà; o inviati in Egitto. Molti di loro non sopravvissero agli stenti o al viaggio (Hieron., in Hierem.6, 18; in Zachar. 11, 5; Chronicon Paschale ed. Dindorf I, p.474).

Quali vicende condussero alla distruzione del Tempio?
Flavio Giuseppe giustifica Tito sotto molti aspetti; anche per quanto riguarda la distruzione del Tempio, che il generale romano avrebbe voluto evitare. La meravigliosa costruzione era però anche una fortezza possente, all’interno della città, costituita da una serie di comparti stagni e tale da permettere ai ribelli che vi si erano asserragliati di continuare a battersi persino dopo la caduta del primo bastione. Nel respingere i nemici, uno dei soldati, che pure stava spegnendo il fuoco nel piazzale interno, si gettò all’inseguimento; e scagliò lui stesso, attraverso una finestra, il primo tizzone «nelle stanze adiacenti…, sul lato settentrionale» del santuario (Jos., BJ 6, 250-253).
A salvare il Tempio non valsero, secondo Flavio Giuseppe, né gli sforzi dei Giudei; né l’intervento di Tito in persona, che accorse alla testa del suo stato maggiore, ordinando ai soldati di spegnere l’incendio. Ormai, cresciuta a dismisura la violenza dello scontro, gli ordini non erano più ascoltati da uomini in preda al furore e alla brama di saccheggio. Invece di estinguere le fiamme, le alimentarono; e Tito, che pure era entrato nell’edificio, fu costretto ad uscirne dal dilagare del fuoco.

A Roma la vittoria costò molto in termini di vite umane: quale fu il bilancio per l’impero?
Per le perdite romane e i guasti civili durante la prima delle tre guerre più importanti, quella guidata da Vespasiano e Tito, i dati sono insufficienti; ma, al di là delle perdite subite dalle legioni, non quantificabili anche se certamente significative, massacri e rappresaglie ebbero luogo tra le comunità contrapposte, ebraiche ed indigene, anche oltre i limiti della provincia.
Sotto Traiano e sotto Adriano abbiamo qualche dato in più, almeno indicativo, circa le perdite subite dalle armate di Roma. In un frammento papiraceo che riporta una lista di legionarî risalente agli anni di Traiano il 32% dei soldati risulta marcato con la theta, la littera nigra, che indicava la morte in servizio; e non vi è dubbio che si tratti di una proporzione di perdite altissima, anche rispetto ad epoche molto più vicine a noi. Un ulteriore elenco, questa volta di reclute (le quali, tuttavia, oltre ai morti erano chiamate a sostituire anche i congedati…), presenta una percentuale di nuovi coscritti compresa tra il 28 e il 40% degli effettivi (Fink).
Quanto alle violenze compiute in questa circostanza dai guerriglieri ebraici in tutto il sud-est mediterraneo, dalla Cirenaica all’Egitto, durante la prima fase della rivolta di età traianea, queste furono spaventose; ed Eusebio (h.e. 4, 1-2) si compiace di offrirne un quadro addirittura grandguignolesco, anche se probabilmente viziato in parte da ostilità preconcetta. Comunque sia, in Cirenaica gli Ebrei avrebbero massacrato ben 220 mila residenti, cifra probabilmente esagerata, ma significativa. L’entità delle distruzioni in Cirene pare confermata dall’imparziale evidenza archeologica: «da quanto si può desumere dai monumenti…risulta…chiaro che i danni subiti» nella circostanza «dal patrimonio monumentale di Cirene sono paragonabili a quelli di un pauroso cataclisma» (Stucchi). Lungo la via costiera verso Alessandria, per diverso tempo sotto il controllo degli insorti, tutti i sacelli pagani vennero sistematicamente distrutti (Gasperini).
Anche in Egitto i guasti furono gravissimi. Se è vero che in Alessandria gli Ebrei commisso proelio, victi et adtriti sunt, impegnata battaglia, furon vinti e sterminati (Oros., 7, 12; cfr. Eus. h.e. 4, 2, 3; Chron., ed. Schoene II, pp.164 ss.), era stato in seguito alla sconfitta nelle campagne che gli «Elleni» si erano rifugiati nella capitale, prendendovi infine il sopravvento. Possediamo, per l’Egitto, una documentazione di prima mano, fornita da papiri, che chiariscono diversi aspetti dell’insurrezione: gli scontri con gli Ebrei e l’arrivo di rinforzi romani (CPJ 435 e 438), i danni causati dagli insorti (CPJ 443; 447; 449), le confische di beni giudaici dopo la fine della rivolta (CPJ 445; 448). In particolare sappiamo che le conseguenze sull’agricoltura rimasero avvertibili fino al 151 d.C. almeno, oltre un trentennio dopo la conclusione delle ostilità; e che ad Ossirinco la festa in ricordo della vittoria sugli Ebrei continuava a celebrarsi ancora nell’anno 199-200 d.C. (CPJ 450)
Quanto a Cipro, nulla si sa circa la repressione dei moti; ma i non ebrei massacrati dagli insorti sarebbero stati 240 mila circa (Cass.Dio 68, 32; cfr. ILS 9491); e la capitale stessa, Salamina, venne devastata in modo assai grave (Eus., Chron. ed. Schoene, II, p.164; Oros.7, 12, 8). Così atroce era il ricordo della vicenda che, da allora in poi, agli Ebrei fu proibito di metter piede sull’isola; e se uno di loro vi approdava, persino costretto da una tempesta, veniva messo a morte (Cass.Dio 68, 32).
Adriano, infine. Nell’ultima delle tre guerre ricordate qui, prima che i Romani potessero prendere il sopravvento l’eroica guerriglia dei partigiani ebraici costò al loro esercito migliaia di morti. Gravissime, le perdite non toccarono solo i reparti ausiliarî (Eck): sia o meno realmente avvenuta la distruzione di una delle legioni, secondo Cassio Dione nel comunicare la situazione al senato Adriano non poté comunque usare la formula di rito, «io e le legioni stiamo bene» (69, 14, 3). Ancora più esplicito è il drammatico quesito posto al suo imperiale lettore Lucio Vero da Frontone (p.218 Naber; p.206 Van den Hout): Hadriano imperium optinente quantum militum a Iudaeis…caesum?

Quali furono le conseguenze della guerra?
I Romani avevano a lungo considerato la Giudea come una provincia irrequieta, ma non veramente a rischio; e avevano pensato di poterla controllare attraverso l’apporto delle aristocrazie locali e con l’impegno di poche truppe ausiliarie soltanto. Infine, però, dovettero poco a poco ricredersi. Dopo il 70 d.C. finirono coll’alienarsi del tutto la collaborazione di classi dirigenti locali nelle quali non riponevano più alcuna fiducia; e col discriminare anche le élites della diaspora occidentale. Anche per quanto concerneva la gestione della provincia furono infine costretti a cambiar totalmente registro. Alla Giudea-Palestina venne imposto conseguentemente, da ultimo, un governo militare con tutti i crismi, affidato ad un legato imperiale, di livello prima pretorio poi addirittura consolare, con ben due legioni di presidio; e ciò —a sottolineare l’assoluta unicità di una situazione interna altrimenti incontrollabile— malgrado la Giudea non fosse veramente un’area di frontiera. Occorsero tuttavia, per giungere ad un assetto definitivo, un’altra spaventosa guerra in Giudea; e, ancor prima, l’intermezzo dell’ulteriore massacro subito, ai tempi di Traiano, dalle comunità ebraiche della diaspora occidentale, con ciascuna delle due componenti lasciata di fatto sola dall’altra a battersi contro Roma.

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