“200 anni di italiani in guerra. False vittorie e false sconfitte” di Enrico Cernuschi

200 anni di italiani in guerra. False vittorie e false sconfitte, Enrico CernuschiDott. Enrico Cernuschi, Lei è autore del libro 200 anni di italiani in guerra. False vittorie e false sconfitte, edito da Mursia: da cosa nasce il sentimento di inferiorità storica e militare diffuso tra gli italiani?
Dall’opera di troppi cattivi maestri.

Ovvero? Si spieghi meglio.
Molti intellettuali italiani, o presunti tali, hanno fatto propria una certa immagine caricaturale dell’Italia che risale all’Umanesimo, salvo copiarsi l’uno sull’altro per generazioni. Come diceva il Dottor Goebbels, uno che se e intendeva, in quanto ministro della propaganda del nazismo: “A ripetere 10.000 volte una bugia, questa diventa verità”. Da noi quota 10.000 è stata superata da secoli.

Secoli, addirittura?
Facciamo un esempio. Da noi abbondano scadenti imitazioni di Voltaire. Tutti divulgatori (chiamarli storici sarebbe un delitto) che riprendono, senza l’eleganza e lo stile del loro modello di riferimento, la solita storia delle giravolte dei Savoia e, quindi, dell’inaffidabilità degli italiani.

E allora?
Primo: Voltaire diceva male degli italiani, e dei piemontesi, in particolare; e certi autori, in nome di un repubblicanesimo di maniera che avrebbe fatto arrossire di vergogna Mazzini, hanno fatto proprie, anche oggi, quelle accuse allo scopo di combattere la presunta minaccia di una restaurazione monarchica che reputo, personalmente, inesistente. Come diceva Umberto Eco, una delle vie più facili per cercare di farsi notare, consiste nel fabbricare, di sana pianta, un nemico per combatterlo senza rischi.

Mi scusi, ma non la seguo.
Ora ci arrivo. Se le dico: “Pietro Micca”, lei a cosa pensa?

Beh, al suo sacrificio. Alla morte mentre dà fuoco alle polveri…
E poi?

Basta.
Appunto. Non immagina, legittimamente, che l’assedio e la sconfitta francese davanti a Torino avvenute nel 1706, morte di Pietro Micca inclusa, furono la tomba militare, in Italia, del Re Sole. L’anno successivo i piemontesi e gli austriaci del Principe Eugenio di Savoia assediarono, a loro volta, Tolone distruggendo la flotta francese. E la Marina dei Borbone di Versailles non si riprese da quel disastro per più di mezzo secolo.

In altre parole, quando Voltaire esprimeva, da patriota, il proprio malanimo, non faceva altro che certificare, con la propria penna tagliente e avvelenata, quanto bruciasse ancora, a decenni di distanza, quella doppia, secca batosta. Ostile alla monarchia assoluta, fosse quella di casa propria o altrui, quel grande scrittore francese non si sarebbe mai sognato di calunniare i propri soldati e la gente della propria lingua.

Molti nostri intellettuali, per contro, hanno copiato, malamente, la sua prosa e il suo stile, ma hanno dimenticato, per spirito di parte o, più probabilmente, per pigrizia, che il veleno si sparge in casa altrui, non in quella propria.

E tutto questo cosa comporta?
Che l’immagine italiana, storica e, di conseguenza, anche militare, deformata e coniata all’estero per motivi propagandistici concepiti a uso e consumo di chi si sfogava in quel modo (e Voltaire è solo un esempio – per quanto illustre e leggibilissimo – tra tanti) è stata fatta propria, per il tramite di quegli intellettuali de noantri di cui sopra, dalla corrente classe politica nostrana, con conseguenze negative a danno di tutta la comunità.

Beh, non solo i politici di oggi. Questo è un discorso che va avanti da secoli.
Verissimo, ma con qualche grossa differenza.

Quale?
Consideriamo, per esempio, la tanto deprecata classe politica della cosiddetta Prima Repubblica. Una generazione che la guerra l’aveva fatta, vista e subita in prima persona. Basso profilo, certo, quantomeno fino al 1979, ma oggi sono ricordati come “i conigli mannari”. Se proprio si deve giudicare il progresso di un Paese dal Prodotto Interno Lordo, furono uomini e donne illuminati, i quali seppero usare, con discrezione, anche lo strumento militare a loro disposizione. Oltretutto ottenendo il massimo risultato col minimo sforzo. Roba da Premio Nobel per l’economia. Per di più capirono, nel giro di pochi mesi al massimo, che il mondo intero stava cambiando e passarono, come se dovessero premere un interruttore, dall’oscurità, o quasi, alle luci della ribalta. Mi riferisco, per intenderci, alle meno di 36 ore di preavviso che la Marina Militare ricevette, nel 1979, per andare dall’altra parte del pianeta a salvare i Boat People in Indocina e, in seguito, alle tante missioni in Libano, nel Mar Rosso, nel Golfo Persico eccetera.

E anche di questo parla il suo libro. Oggi la classe politica è impreparata sotto il profilo storio e, pertanto, anche militare?
Un governo, qualsiasi governo, è figlio della cultura del suo tempo. Quando sento, alla televisione, gli ex virologi di complemento di qualche mese fa mentre parlano di “caccia militari che hanno bombardato”, mi viene la pelle d’oca.

Perché?
Lei ha mai sentito parlare di un aereo da caccia civile? E perché non parlare di bombardieri tout court? Si farebbe prima e meglio. Le idee confuse dei chierici dell’informazione ricadono sui decisori; e se poi questi sbagliano?

Torniamo al quadro generale. Qual era la forza dell’economia italiana e delle sue Forze Armate all’indomani dell’Unità del Paese?
Grande e piccola allo stesso tempo. Mi spiego. Dal punto di vista del PIL (si torna sempre lì, ma è, a mio avviso, un errore) l’Italia non era messa male. Il Prodotto Interno Lordo pro capite era, come già prima e come fu in seguito, maggiore rispetto a quello dell’Impero asburgico. Inoltre le Università italiane non avevano mai perso il ritmo. La Marina italiana, per esempio, era in grado di progettare e costruire corazzate come avveniva in Francia e in Gran Bretagna, apparati motori e armi incluse. Penso, per esempio, alla “ironclad” Principe di Carignano del 1861 Mancava, però, una capacità produttiva sufficientemente vasta. Fu pertanto necessario acquistarne, a prezzo di strozzo, una decina in Francia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. E questo perché l’Austria si stava rapidamente dotando di navi dello stesso tipo, realizzate a Trieste con materiali, tecnici e disegni inglesi.

Mi scusi, ma non eravamo poveri e arretrati?
No. Sotto questo profilo Angus Maddison, il guru della macroeconomia col proprio sito, sempre aggiornatissimo anche dopo la sua morte, e Paul Kennedy, tanto per fare un altro nome celebre, sono concordi.

E il Regno Unito giocava su tutti i tavoli?
Diciamo che guadagnava senza andare troppo per il sottile. Politicamente i suoi interessi coincidevano, da secoli, con quelli di Vienna e i ministri della Regina Vittoria sudarono le proverbiali 7 camicie per impedirle di scendere in guerra a fianco degli Asburgo nel 1866 scatenando un conflitto mondiale con Parigi e San Pietroburgo.

Quindi l’Italia era una grande potenza?
L’Italia è ancora oggi una grande potenza condannata, dalla geopolitica, a giocare di sponda.

Cosa vuol dire?
Se gli italiani potessero lasciare, con la loro penisola e le isole, il pianeta Terra godendo sé stessi e la propria civiltà, da soli, in un altro sistema solare, lo farebbero subito. Purtroppo ciò non è possibile. Pertanto, come diceva Tacito nel proprio Germania, bisogna arrangiarsi e convivere in un mondo – purtroppo – tutt’altro che perfetto, ovvero non nostro solo uso, consumo e misura. Un mondo, per ricollegarci a quanto detto in apertura, che si era già evoluto rispetto ai furori bellici delle milizie cittadine che vinsero la Battaglia di Legnano contro il Barbarossa e che sconfissero a Parma, nel 1248, l’imperatore germanico Federico II, lo stupor mundi. Il popolo aveva capito che la guerra non risolveva i problemi. Le altre popolazioni del continente, più arretrate sia sotto il profilo sociale sia sotto quelli economici e giuridici, vedevano le genti della penisola prosperare senza ammazzarsi sullo stile della selvaggia Guerra dei cent’anni. Da qui la leggenda nera del preteso ossimoro dell’Italum bellacem di Erasmo da Rotterdam. Se lo credeva (o ci giocava) lui, che pure era uno degli olandesi di maggiore cultura del proprio tempo, figuriamoci gli altri.

Theodore Roosevelt, presidente degli Stati Uniti e padre del successivo “secolo americano” diceva che la politica è un circo a tre piste. L’Italia, come ogni nazione o entità sovranazionale del mondo, deve mantenere costantemente gli equilibri interni e internazionali per il bene proprio e altrui. Poiché, concludo, il miglior equilibrio è quello instabile, si tratta di puntellare in continuazione questo “Che mondo sarà? Ha l’aspetto di un motore, ma non va”, per dirla con una vecchia canzone di Lucio Dalla. Era la sigla di un programma della TV dei ragazzi di quando ero bambino, Gli eroi di cartone, e non l’ho mai dimenticata.

Quali successi militari costellarono la partecipazione italiana alle vicende belliche del secondo conflitto mondiale?
Nel mio libro ho indicato e documentato 13 vittorie del Regio Esercito rivelatesi decisive per la tenuta del Paese e per la successiva curva di moto degli avvenimenti fino al Miracolo economico, il quale non sarebbe mai avvenuto se gli inglesi avessero vinto, da soli, nel 1941 o l’anno successivo. In questa sede mi limiterò a indicarne una sul mare: Punta Stilo. Tre corazzate britanniche, più una portaerei, contro due navi da battaglia italiane, il Cesare e il Cavour. I cannoni da 320 mm della Regia Marina non potevano trapassare la protezione dell’ammiraglia della Mediterranean Fleet, il Warspite dell’ammiraglio Andrew Browne Cunningham. I pezzi da 381 inglesi potevano, invece, mandare a fondo le navi italiane, molto più piccole rispetto a quelle avversarie, con un solo proietto, come era avvenuto meno di una settimana prima ai danni della corazzata francese Bretagne, capovolta e affondata, per tacere del gemello Provence e del modernissimo Dunkerque, costretti entrambi a incagliarsi per non fare la stessa fine dopo essere stati colpiti.

E invece?
Il Warspite fu colpito in pieno tre volte: la prima dall’incrociatore Di Giussano alle 15.26 del 9 luglio 1940, la seconda dal Trento alle 15.58 e la terza dal Cesare, alle 16.04, sfondando la controcarena di dritta, con conseguente allagamento e necessità di controbilanciare spostando l’acqua dolce di riserva per le caldaie. In più il colpo finale lo diedero due granate dirompenti da 203 mm cadute in prossimità dello scafo (meno di 15 metri), non protetto sotto la linea di galleggiamento, di quella corazzata e tirate dall’incrociatore Zara alle 16.14. La nave britannica, dopo aver imbarcato, in tal modo, qualche altro centinaio di tonnellate d’acqua sbandando di nuovo ma, questa volta, senza più la possibilità di controbilanciare se non imbarcando acqua di mare (cosa, questa, assolutamente sconsigliata dalle norme) non reagì e continuò, assieme al resto della Mediterranean Fleet, a procedere lungo la rotta di allontanamento, divergente rispetto a quella italiana, intrapresa dopo il colpo messo a segno, a poppa, dal Trento. È tutto documentato, cinematica inclusa, in un volume, intitolato Quando tuonano i grossi calibri, che ho pubblicato per i tipi dell’Ufficio Storico della Marina Militare, nel 2016, assieme all’amico e avvocato Andrea Tirondola. I britannici narrarono, nel 1948, una versione (la quale fa ancora oggi testo per qualcuno) molto fantasiosa di quell’azione. Era scritta benissimo (si intravede la mano del grande romanziere Cecil Scott Forester, da me amatissimo) e accuratamente fasulla, tanto da arrivare perfino a raddoppiare, in certi momenti, il numero delle navi della Regia Marina presenti quel giorno. In quel libro del 2016, redatto sulla base dei rapporti originali di missione delle unità della Royal Navy che parteciparono a quell’azione, e non ricorrendo al compiaciuto e stringato resoconto postbellico apparso nel 1948, la verità è documentata passo per passo.

Non le dico gli insulti, naturalmente con spreco di improbabili pseudonimi, apparsi sul web da parte di una mezza dozzine di persone, sempre le stesse. Di smentite, però, non ne è arrivata neppure una se si eccettua quella, tenerissima, di un curioso personaggio, il quale ha scritto, in forma rigorosamente anonima, al Ministero dicendo che quanto spiegato in quel nuovo libro non era possibile “… perché questo Churchill non l’ha scritto nelle sue memorie”. Me l’hanno mandata e, con tenerezza, l’ho incorniciata.

Ma perché gli insulti?
Cosa vuol mai. Il Comandante superiore in mare italiano a Punta Stilo era l’ammiraglio Inigo Campioni. Fu il vincitore tattico e strategico di Punta Stilo. Sottolineo strategico perché il Regno Unito, il quale contava di vincere in fretta la guerra nel Mediterraneo distruggendo la “sugar cake navy” italiana, tanto bella quanto da loro giudicata fragile, fu costretto, dopo quella giornata, a combattere 3 anni, anziché per un mese, perdendo, alla fine, l’impero per la cui conservazione era entrato in guerra nel 1939 e, ancor prima, nel 1914. Campioni fu fucilato a Parma, il 24 maggio 1944, dopo essere stato accusato e condannato (tempo mezz’ora di camera di consiglio), da un tribunale speciale fascista assieme all’ammiraglio Luigi Mascherpa, lui pure reo di aver combattuto i tedeschi nell’Egeo, dopo l’8 settembre 1943, in seguito all’immediata aggressione germanica scatenata contro gli italiani un quarto d’ora dopo l’armistizio. Gli inglesi usano, a proposito di certa gente, l’espressione Diehard. Quanto agli americani non hanno certo di queste ubbie. Sono gente pratica, quindi pubblicano felici e contenti se il pubblico apprezza il contenuto dei libri. E sto parlando del Naval Institute di Annapolis, sede dell’Accademia Navale dell’U.S. Navy.

Mi permetto di tornare al tema centrale. L’opinione corrente, e da lungo tempo maggioritaria, è quella in base alla quale l’Italia dei secoli passati sia stata, nei momenti migliori, un gigante culturale ed artistico e, se vogliamo, anche un centro economico, ma un eterno nano politico e militare. Quando poi si passa ai tanti momenti peggiori la regola è debolezza e decadenza in tutti i campi. Quali sono le considerazioni che La portano a tracciare un’immagine assai diversa della storia nazionale?
Ne ho parlato, proponendo una visione continua e, soprattutto, coerente, da Roma antica fino al 1949, in un libro, Sea Power the Italian Way, scritto con Alessandro Gazzi e Michele Maria Gaetani e pubblicato dall’Ufficio Storico della Marina Militare nel 2017. È il solo libro scritto in inglese che la Marina italiana abbia pubblicato da ormai cent’anni a questa parte, ed è andato subito esaurito. Il Vespucci, recatosi nel Nord America quell’anno, ne aveva a bordo qualche centinaio di copie, tutte vendute in Canadà. Fu necessario inviare a new York per aereo il resto della tiratura prima dell’arrivo di quella nave per poter soddisfare la domanda negli Stati Uniti.

Non posso, naturalmente, riassumere in questa sede quelle 200 pagine, ma le assicuro che il quadro deprimente che lei ha efficacemente descritto è solo ed esclusivamente un parto della fantasia di alcuni italiani, i quali lo utilizzano per combattere altri connazionali. Quanto all’estero c’è chi utilizza costoro dicendo: “Vedete? Lo ammettete voi stessi”.

Venezia e la Turchia controllarono per secoli, senza terzi incomodi, il ricco mercato del Mediterraneo orientale fino a Napoleone. I francesi cercarono per ben sette volte, nell’arco di oltre 300 anni, di prendere l’Italia e fallirono sempre fino all’arrivo del fuoriclasse Napoleone. Gli Asburgo provarono a fare lo stesso due volte: nel 1508, quando Maximilian I (quello del Brut, per intenderci) le prese di santa ragione, a Pieve di Cadore, dai veneziani guidati da Bartolomeo d’Alviano. E sfido chiunque a conoscere il nome e la storia di quello straordinario personaggio perugino che sembra uscito da un romanzo. Gli austriaci ci misero un secolo a leccarsi le ferite. Poi ci riprovarono con la Guerra di Gradisca, e andò loro ancora peggio contro le truppe alleate della Serenissima e dei Savoia, tanto che dopo quell’ulteriore legnata i secoli di pace, più o meno formale, con loro sul versante orientale furono poco meno di due.

I governanti veri – all’estero – queste cose le sapevano benissimo. I loro popoli no. Per questi ultimi, infatti, bastavano (e bastano) gli stereotipi. Diciamo che, dal XIX secolo in poi, il pregio della democrazia – di gran lunga la migliore, perché più efficiente, forma di governo che ci sia – ho comportato, come effetto collaterale, una diffusa ignoranza tra gli esecutivi di tutto il mondo, condannati come sono a correre dietro ai luoghi comuni. Si tratta di un guaio pagato, tra l’altro, con un paio di guerre mondiali. Due eventi che, a parer mio, i saggi, e passabilmente cinici, diplomatici del Seicento e del Settecento si sarebbero ben guardati dal commettere.

Perché, a Suo avviso, la storiografia dei Paesi anglosassoni, in particolare quella britannica, una volta fatte, naturalmente, le debite eccezioni, ha creato e imposto la “leggenda nera” che grava sulla partecipazione italiana alla Seconda guerra mondiale. Una versione che ha dominato gli studi fino ad oggi e che riscuote ancora credito in certi ambienti?
Psicologia. Si tratta, però, di un argomento enorme non riassumibile in poche righe. Proverò a risponderle in termini letterari. Pensi al documentatissimo, e molto preciso, romanzo di Sir Walter Scott, Ivanhoe, dove il protagonista, cavaliere di Re Riccardo Cuor di Leone, aspira e ottiene un’armatura fabbricata a Milano procuratagli tramite il ricco mercante Isacco di York. Già allora i lombardi erano sinonimo di banchieri, di ricchezza e di vivere moderno e civile rispetto sia ai normanni sia ai sassoni. Il tasso Lombard, ancora oggi in uso, deriva da quei tempi. E i complessi d’inferiorità, spiegava il compianto Professor Faustino Savoldi, massimo docente di neurologia a Pavia, sono molto pericolosi. A questo stato di cose va poi aggiunto il guaio combinato da Edward Gibbon con la propria bellissima opera, Declino e caduta dell’Impero romano. Dal Settecento in poi quella sorta di lettura obbligatoria per le genti di lingua inglese ha convinto i più che la fase discendente di ogni cultura o lingua sia sempre e soltanto una parabola. Un po’ più di studio e di senso critico avrebbero fatto capire a molti che, viceversa, è possibile un andamento sinusoidale; come è puntualmente avvenuto, dopo gli inevitabili secoli bui che ogni popolo conosce, in Italia e in Grecia, passando da Pericle a Bisanzio, da Cesare al Rinascimento eccetera. Quando i primi segni del declino furono avvertiti a livello diffuso nel Regno Unito, dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, la reazione istintiva e collettiva (accentuata dal carattere inevitabilmente isolano di quel popolo), fu quella di negare che ciò stesse accadendo. Gli italiani, già di per sé un modello non amato, laggiù e altrove, sin dal medioevo per motivi economici e sociali e, in seguito, addirittura esecrato dalla riforma religiosa di Enrico VIII, erano un’immagine negativa che si stava pericolosamente avvicinando a quella dei sudditi di Sua Maestà Britannica. I popolarissimi gialli di Agatha Christie, tanto per fare un altro esempio, ruotano tutti sempre e soltanto intorno allo stesso tema: la decadenza dell’aristocrazia, si tratti di quella del sangue o del denaro, che spinge al delitto. E poi, diciamolo pure, gli italiani avevano sfottuto i britannici in tutti i modi: corse automobilistiche, primati aerei, transatlantici più veloci e così via. Il Professor Renzo De Felice ha scritto, nella propria monumentale biografia di Mussolini (considerata da tutti alla stregua di un’opera di riferimento), del complesso, tutto britannico, “Dell’italiano sotto il letto”. Dato questo quadro, pretendere – allora e in seguito – un comportamento sportivo, e non da bad loser, è un po’ troppo. Nel 1949 il razionamento, da noi, era finito. Da loro, oltretutto in misura enormemente più severa, durò fino al 1954 e fu reintrodotto, nel 1956, in occasione della Crisi di Suez, persa da Londra e Parigi sia perché fuori calendario rispetto ai bei, facili tempi della politica delle cannoniere e delle Guerre dell’oppio sia perché gli Stati Uniti si opposero finanziariamente mentre Enrico Mattei suggeriva al leader egiziano Nasser di bloccare il Canale di Suez. “Ma noi, coi pedaggi del Canale ci campiamo”, gli replicò, in patria, l’uomo forte egiziano. “Non ti preoccupare”, gli fu risposto. Abbiamo la gente giusta per bloccarlo oggi e riaprirlo in fretta. I recuperi li fece la Micoperi, una società fondata, partendo da un vecchio pontone, da un nucleo di incursori della X Flottiglia MAS.

Il regime sovietico accontentò per decenni le proprie popolazioni con dosi sempre più massicce di esaltazione della Grande Guerra Patriottica del 1941-1945. Oggi i frutti di quella propaganda non sono ancora insteriliti, come confermano le tristi cronache odierne. Al confronto i giornalini tipo Supereroica e Guerra d’eroi, ancora oggi in vendita nel Regno Unito, sono roba da ridere. Si compensa, come diceva Franco Bandini, mio grande amico maestro, con le care memorie (magari gonfiate o inventate di sana pianta) il mancato odore del formaggio.

Quanto alla questione, dibattuta, delle neutralità talvolta violate, Svezia e Portogallo soffrirono le stesse vicende durante la Seconda guerra mondiale. La Svizzera fu costretta, a sua volta, ad adeguarsi a ben 3 cambi di marcia: pro-Francia nel 1939-1940, sbarrando tra l’altro i passi alpini al traffico ferroviario italo-tedesco, poi pro-Germania nel 1940-1945, tanto che gli anglosassoni dicevano che i cittadini della Confederazione lavoravano come matti, su tre turni al giorno, per l’Asse sei giorni alla settimana e pregavano, in Chiesa, per gli alleati la Domenica; con l’Italia che protesse Berna dalle facili, frequenti e micidiali ire di Hitler fino al 1943. Poi di nuovo, dal febbraio 1945, gli svizzeri diventarono pro-angloamericani. Eppure non ne fanno (pubblicamente) un cruccio. Casomai ricordano e si armano, mantenendo le polveri asciutte e conservando i fucili a casa e aggiornati in base all’ultimo grido della moda e della tecnologia. Non usano, però, come clave certi argomenti nell’ambito, dialettico, della propria politica interna, né vogliono che i loro discendenti debbano patire gli stessi problemi dei loro nonni. La differenza tra loro e alcuni (non la maggioranza ma, casomai, una minoranza autoreferenziale, supponente e rumorosa) dei nostri concittadini, è tutta qui.

Sarà perché discendo, da parte materna, da una famiglia emigrata, nell’anno 1800, dal Cantone di Zug fino in Dalmazia, credo che la soluzione esistenziale elvetica a base di serenità, ricerca della verità e provvedimenti del caso sia, nei confronti di certi falsi problemi, quella giusta.

E perché una parte consistente della storiografia accademica italiana continua a propugnare quella “leggenda nera”?
Propenderei per una certa pigrizia. È molto più comodo tradurre (male) scritti stranieri, piuttosto che fare ricerche, muoversi negli archivi, mettere a confronto le varie versioni, usare il buon senso e non disprezzare le testimonianze, ma vagliarle come si fa in tribunale. Insomma, è indispensabile rifiutare la fiera del precotto, ma tutto ciò costa una certa fatica e richiede tempo. Gli accademici italiani, secondo il Prof. Canfora, sono vittime, consapevoli ed entusiaste, della bibliometria. Pubblicare lo stesso lavoro sotto titoli diversi, magari traducendolo col computer, così che le bussole (Compass) diventano compassi, le navi varate vengono lanciate, da to launch, ovverosia varare, i carri armati (tank) passano a serbatoi o, addirittura, scendono al rango di autobotti, come quelle che e puliscono e disinfettano le strade di prima mattina, e altre piacevolezze del genere.

L’intelligence italiana nell’ultimo conflitto mondiale è stata davvero “lasciata indietro nella polvere”, per citare il titolo di un certo articolo pubblicato qualche tempo fa?
No. Basta leggere gli oltre 37.000 decrittati inglesi, francesi, greci, statunitensi, greci e russi custoditi a Roma nell’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare mettendoli a confronto con i quasi altrettanti messaggi cifrati raccolti nel TNA (l’ex PRO) di Kew Garden, nel Surrey. C’è poi un grosso ma.

Quale?
Le lamentele della Royal Navy e della Royal Air Force erano pressoché quotidiane. Partivano e non trovavano nulla. Per forza. La guerra è una cosa complicata, non il plastico dei trenini elettrici. Una volta una nave era in ritardo, un’altra il carico non arrivava. Un’altra ci si metteva di mezzo il maltempo. Un’altra ancora un’avaria annullava tutto. E soprattutto chi ha portato le stellette, gli alamari o, magari, il berrettone di pelo d’orso delle Scots Guards o dei Granatieri di Sardegna, sa che dopo l’ordine arriva sempre il contrordine.

E i decrittati italiani?
Sono tutti contemporanei alle operazioni e sono gli originali. Oltre all’indicazione dell’ora di intercettazione e quella di decrittazione e trasmissione agli interessati (molto spesso l’intero processo era concluso in pochi minuti) alcuni, tra i più importanti di quei decrittati messi a segno dalla Sezione inglese dell’Ufficio Beta Reparto Informazioni dello Stato maggiore della Regia Marina (diretto per decenni dal mio tutor di crittografia, l’indimenticabile ammiraglio Luigi Donini) riportano, vergate a mano, le annotazioni a matita fatte dai valutatori, con il correlato timbro apposto sotto, come il rettangolino con le lettere M.A.B. del comandante Marc’Antonio Bragadin, capo della Sezione Attività del nemico dal novembre 1941 fino al settembre 1943 e fedele testimone, troppo spesso disprezzato, di quei tempi.

Perché disprezzato?
Certi critici sostenevano, in maniera passabilmente provinciale, che – essendo un ufficiale di Marina assegnato a Supermarina, il Comando centrale della Regia Marina – la sua testimonianza, resa anche in tribunale, fosse di parte e, pertanto non solo nulla e non valida, ma artefatta. Come se accusa e difesa non producessero ciascuna i propri testi.

Passiamo a un altro argomento chiave. L’equipaggiamento delle Forze Armate italiane era sempre così inefficiente e/o obsoleto come si sostiene ancora oggi?
Suppongo si riferisca alla Seconda guerra mondiale. Per quanto riguarda la Grande Guerra il colonnello Filippo Cappellano, grande e pressoché isolato storico militare “terrestre” italiano, ha documentato ormai da anni che il divario era ridotto e limitato – casomai – ad alcuni settori, oltre che, più che altro, quantitativo e soltanto iniziale. Dal 1916 l’Austria-Ungheria, strangolata dal blocco navale italiano (la Marina francese rimase costretta a restare in panchina, a Corfù, fino alla fine del conflitto, con danni psicologici, d’esperienza non maturata, politici e storici enormi) fu sempre più in difficoltà fino al crollo finale di Vittorio Veneto e il suo Esercito subì la stessa sorte.

Il Secondo conflitto mondiale fu combattuto, volendoci limitare al Regio Esercito, senza in carro armato pesante, senza meccanizzazione e, conseguentemente, senza un armamento anticarro adeguato in grado di affrontare (senza incorrere nelle perdite spaventose, puntualmente verificatesi, di cannonieri e pezzi da 47/32 costretti a sparare a bruciapelo o a essere schiacciati) i carri maggiori avversari, dal dicembre 1940 in poi.

Bisogna però chiedersi perché questa condizione di inferiorità, ormai evidente a tutti dall’estate 1942, si manifestò senza che fosse possibile porvi rimedio. E qui il discorso porterebbe lontano.

Ci dia almeno un’idea.
Come osservò Franco Bandini l’annuario ISTAT riporta l’esistenza in Italia, nel 1939, di meno di 300.000 patenti d’auto, donne comprese naturalmente. Chi avrebbe guidato un eventuale copia del Bren Carrier inglese, utilissima cingoletta protetta per il trasporto truppe, nonché trattore per l’artiglieria controcarro?

L’industria, ovvero la FIAT e l’Ansaldo, avevano proposto, nel 1937, un analogo veicolo cingolato. D’altra parte l’aveva appena introdotto, l’anno precedente, il piccolo e moderno Esercito belga. Avremmo potuto farlo anche noi. Ma il raccolto 1936 era stato pessimo, e per nutrire l’Italia fu necessario acquistare all’estero i viveri e il foraggio pagandoli, naturalmente, in valuta pregiata, dato il protezionismo introdotto dagli inglesi nel 1931, fatto proprio dagli USA due anni dopo e dalla Francia del Fronte popolare nel settembre 1936. La proposta del 1937 fu, pertanto, abbandonata per mancanza di mezzi, né venne riproposta in seguito. Il Maresciallo Badoglio, d’altra parte, definì, per iscritto, come inutili i carri armati ancora nell’agosto 1940 dopo le campagne di Polonia e di Francia. Una volta catturati e portati in Italia, nel 1941, alcuni Bren Carrier, fu chiesto all’industria nostrana di riprodurli pari pari, ma a questo punto intervennero le commissioni ministeriali, con richieste di continui miglioramenti. Andò così a finire che al momento dell’armistizio tutto era ancora fermo al solo prototipo, rifatto daccapo più volte. Nel frattempo l’unica soluzione rimase quella del 47/32, il più leggero, coi suoi 227 chili, dei cannoni anticarro disponibili e, pertanto, spostabile, a braccia e con le sue ruote, sul campo da parte dei cannonieri. Il 47/50 francese, per esempio, pesava oltre una tonnellata e veniva trasportato da una pariglia di cavalli. Purtroppo le povere bestie venivano ferite o uccise dal tiro tedesco, e i cannoni restavano dove si trovavano, di solito intatti perché i serventi si erano allontanati in seguito all’avanzata avversaria. Ma, lo ripeto, ci vorrebbe un’enciclopedia.

Possiamo considerare il regime fascista come la principale, o una delle principali cause della sconfitta nell’ultimo conflitto mondiale?
Accanirsi contro un morto, come lo stesso Mussolini riconobbe essere il proprio regime sin dalla primavera 1943, è un esercizio di cattivo gusto che lascio ad altri.

Mi limito a dire che nel novembre 1917 ci fu, subito dopo Caporetto, una consistente fetta del Parlamento, idealmente collegata a Nitti, che invocò la pace separata con gli Imperi centrali. In seduta segreta le Camere della cosiddetta e tanto vituperata “Italietta” riuscirono, mediante il libero esercizio del dibattito, a spiegare a quei pazzi che il popolo non sarebbe stato certo nutrito, ma casomai depredato, come già i belgi, i serbi e i rumeni, dalla Germania e dall’Austria-Ungheria, mentre gli alleati occidentali e gli Stati Uniti non ci avrebbero certo mandato più nulla. Alla fine, davanti alla prospettiva dell’inverno e della morte, per fame e di freddo, di qualche milione di persone, i fautori di quella proposta tornarono in sé e almeno quella tragedia fu evitata. Nei tanti, e spesso tra loro non coincidenti, oppure peggio che improbabili, resoconti della seduta del Gran Consiglio del fascismo 25 luglio 1943, non ho mai trovato il livello intellettuale e di buon senso delle Camere del 1917. Fino alla primavera 1936 il Gran Consiglio era, a quanto pare, una cosa diversa, e anche Mussolini, ma pure la situazione internazionale era un’altra. Si tratta, pertanto di situazioni non confrontabili tra loro. I margini di errore erano molto diversi. Apples and oranges, come direbbero gli anglosassoni.

Perché la nazione italiana, pur vivendo in un Paese bagnato da tre lati dal mare e che dal mare dipende per la propria sopravvivenza, ha maturato nel tempo una mentalità profondamente continentale e ancorata alla terra?

Perché la va a pochi la vita del marinaio. È fisicamente dura e richiede, a ogni livello, una capacità di adattamento e intellettuale non comune. Il linguaggio è, sin dall’inizio, specializzato; certi concetti come le rotte e la navigazione orientandosi col sole o con gli astri, sono diversi da quello, istintivo, della strada.

Ci voglio, e non è l’ultima delle basi indispensabili, anche donne speciali per permettere agli uomini di vivere, sul mare, la loro carriera (oggi i termini di questo particolare aspetto sono, naturalmente, invertibili). Non a caso gli americani parlano con orgoglio delle Navy Wives.

È una questione di cultura, quindi, magari estendibile in termini numerici, ma che – da noi come ovunque – riguarda e atterrà sempre a una categoria di privilegiati dello spirito. Se il mio libro ne dovesse produrre anche solo uno nuovo, di questi nuclei familiari, non sarà sprecato, ma avrà centrato in pieno il bersaglio.

Un’ultima domanda. Quale sarà il prossimo libro?
L’ho già consegnato all’editore. Naturalmente Mursia. Penso sia il solo con l’apertura intellettuale necessaria per un volume come quello. Dovrebbe essere pubblicato l’anno prossimo.

Di cosa tratterà?
Non posso dirglielo per obbligo contrattuale. Ma le assicuro che darà fastidio a molta gente, a partire dai sei del “Ma questo Churchill non l’ha scritto”.

Enrico Cernuschi (Bologna, 1960) vive e lavora a Pavia. È uno dei maggiori esperti navali italiani e ha al suo attivo oltre trenta libri, alcuni dei quali dati alle stampe negli Stati Uniti. Tra le sue pubblicazioni: Gran pavese (2012), «ULTRA». La fine di un mito (2014), Gli italiani dell’Invincibile Armata (2016), L’ultimo sbarco in Inghilterra (2018) e Venezia contro l’Inghilterra (2020).

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