“1345. La bancarotta di Firenze. Una storia di banchieri, fallimenti e finanza” di Lorenzo Tanzini

Prof. Lorenzo Tanzini, Lei è autore del libro 1345. La bancarotta di Firenze. Una storia di banchieri, fallimenti e finanza edito da Salerno: come e perché si giunse al crack del 1345?
1345. La bancarotta di Firenze. Una storia di banchieri, fallimenti e finanza, Lorenzo TanziniLa caduta delle grandi compagnie bancarie fiorentine fu scatenata come noto dalle sfortunatissime circostanze della prima fase della Guerra dei cent’anni, che videro il re d’Inghilterra Edoardo III rifiutarsi di restituire alle compagnie Bardi e Peruzzi la somma colossale dei suoi debiti, che nel corso degli anni aveva superato il milione di fiorini. L’episodio in sé però è soltanto il motivo scatenante di una serie di meccanismi politico-finanziari di vasta portata, ed è per questo che le vicende di quegli anni sono indicative per comprendere un’intera epoca. I mercanti-banchieri avevano anticipato quelle somme perché non avrebbero potuto non farlo, nel senso che la loro permanenza nel teatro economico inglese (come in quello francese, del resto) era proprio condizionata ad un rapporto di speciale vicinanza con la corte regia, della quale operatori stranieri, spesso circondati dall’ostilità degli autoctoni, non potevano comunque fare a meno. Ripercorrere quegli eventi significa quindi riflettere in profondità sulle strutture della vita economica e politica del Trecento europeo.

Questi fattori esterni si combinavano poi in maniera micidiale con vicende molto interne a Firenze. La città infatti tra la fine egli anni ’30 ai primi del decennio successivo si trovò impegnata in una serie di campagne militari nella Toscana occidentale, specialmente con il vano tentativo di sottomettere Lucca. Le esorbitanti spese militari sottoposero le finanze comunali ad uno sforzo che andava ben al di là degli introiti ordinari, le gabelle o imposte sul transito di merci o il consumo. Divenne così abituale attingere alle prestanze, cioè imposte dirette che gravavano sui cittadini, ma che a differenza delle nostre tasse erano formulate come prestiti dei cittadini allo Stato. In virtù degli obblighi che ogni fiorentino aveva nei confronti della sua comunità, il comune imponeva simili prestiti forzosi. Nei momenti più gravi della guerra l’esigenza di risorse in tempi brevi aveva aperto anche un canale complementare di finanziamento, cioè i prestiti volontari accesi presso le grandi compagnie bancarie. Il comune si trovava così debitore per molte decine di migliaia di fiorini, verso i comuni cittadini ma soprattutto verso i grandi protagonisti della finanza privata. Con il corollario però che il governo della città era retto essenzialmente dai medesimi gruppi familiari che dominavano la finanza internazionale: Bardi, Peruzzi, Frescobaldi. Quindi si trattava di risorse private anticipate ad una autorità pubblica, che però era diretta dai medesimi capi delle grandi imprese, quindi ai detentori di quelle risorse. Per vari anni insomma finanza pubblica e privata si trovarono abbracciate in un circuito pericolosissimo ma allo stesso tempo irrinunciabile. Gli eventi inglesi arrivarono a squilibrare definitivamente il quadro: già nel 1341 i Bardi erano virtualmente falliti. I primi eventi di quella stagione di crisi si giocarono proprio nel binario dell’intervento pubblico. L’élite cittadina presa da panico si affidò al regime di un uomo forte chiamato dall’esterno, il famoso Gualtieri di Firenze. Sotto la signoria del Duca le autorità fiorentine stabilirono una serie di sospensioni alle procedure fallimentari: in sostanza alle compagnie veniva data una boccata d’ossigeno nelle cause con i creditori, in modo da rallentare il fallimento; allo stesso tempo però il comune interrompeva le cosiddette assegnazioni delle imposte indirette, cioè i versamenti che abitualmente venivano erogati a coloro che avevano prestato al comune, prelevati dalle entrate ordinarie delle gabelle. Alle compagnie veniva quindi consentito di non fallire, a patto di rinunciare ad incassare le somme che le compagnie stesse avevano anticipato al comune. Una situazione del genere poteva dare sollievo per qualche tempo, ma non era una soluzione.

Quali avvenimenti accompagnarono la bancarotta del sistema bancario fiorentino?
Innanzitutto dobbiamo ricordare che proprio nel pieno della crisi delle compagnie, quando ancora molte di esse vivevano in un limbo di insolvenza non ancora conclamata, come una frana sul punto di staccarsi inesorabilmente, la città conobbe una serie di rivolgimenti politici, che nell’autunno 1343 portarono al governo un nuovo regime caratterizzato da una composizione molto più popolare di quelli che l’avevano preceduto. I popolari al potere scelsero di sveltire le procedure fallimentari: il fatto che i fallimenti veri e propri si siano addensati nel 1345 e nei mesi immediatamente precedenti o successivi deriva proprio dal fatto che la politica aveva coraggiosamente rimosso quegli impedimenti escogitati poco prima per rallentare il crollo. Venute meno le grandi compagnie, però, anche il sistema delle prestanze entrava in una crisi irreversibile, perché il comune non aveva più modo di rimborsare i suoi creditori. Frutto di quel momento fu la creazione del Monte, cioè l’amministrazione del debito pubblico. Unificate in un’unica amministrazione, tutte le voci dei debiti contratti dal comune con i cittadini vennero trasformate in titoli di credito, acquistabili sul mercato, che una legge dei primi del 1345 dichiarava non redimibili. La bancarotta del comune del 1345, da cui prende spunto il titolo del comune, è proprio questa: l’autorità pubblica dichiara di non poter più restituire i prestiti ai cittadini, e allo stesso tempo assume unilateralmente l’impegno di versare su quei crediti davvero deteriorati un interesse annuo nominale del 5%. Il grande tema del 1345 è dunque la vicenda di un regime politico alle prese con l’imprenditoria cittadina in crisi, che allo stesso tempo entra nella stagione del debito pubblico.

Quali provvedimenti di emergenza vennero adottati per rassicurare i creditori?
L’aspetto forse più impressionante delle strategie messe in atto dal 1345 in poi fu la capacità di elaborare risposte pragmatiche sul breve periodo, ma allo stesso tempo affrontare i problemi di fondo dell’intreccio da cui la crisi era nata. Nell’immediato, l’obiettivo fondamentale fu quello di condurre le cause di fallimento in maniera ordinata e senza eccessivi conflitti, specialmente con soggetti economici e politici esterni, che avrebbero potuto attivare ritorsioni esiziali per la città. Firenze era già attrezzata in questo senso. Dall’inizio del secolo era in funzione un tribunale estremamente efficace, la Mercanzia, che aveva competenza sulle cause commerciali. Una corte di mercanti, coadiuvati da un giudice togato, assicurava giudizi rapidi e improntati al pragmatismo mercantile per tutte le cause in cui gli operatori economici fiorentini fossero in lite con forestieri. La Mercanzia negli anni della crisi fu molto di più di un tribunale, perché funse come vera e propria cancelleria parallela, che insieme alle magistrature di governo della città tenne abilmente i rapporti diplomatici con gli interlocutori più disparati ai quattro angoli dell’Europa del tempo. Non mancarono momenti di rottura e di evidente forzatura della correttezza istituzionale: furono introdotte norme palesemente lesive dei privilegi tradizionali degli uomini di Chiesa, per depotenziare le rivendicazioni di creditori ecclesiastici, e anche nella gestione dei processi furono introdotti meccanismi dilatori, escamotage tattici e forme di negoziazione informale. In ogni caso, questo attento lavoro di fioretto evitò scontri troppo aspri.

In gioco era però la stessa credibilità degli operatori fiorentini: la voragine che si era aperta con la caduta di Bardi, Peruzzi e Acciaioli gettava un’ombra sinistra sulla capacità di Firenze di onorare i propri impegni anche a livello pubblico. Entrambi i versanti della crisi, quello privato e quello pubblico, concorrevano dunque a togliere credito al ‘sistema’ finanziario e politico cittadino. La crisi di fiducia, di ‘credito’ in senso etico, aveva bisogno di interventi finanziari e politici, ma anche di scelte per così dire comunicative. La fiducia dipende dalla percezione che i soggetti hanno dei loro interlocutori, e in questa percezione entrano in gioco fattori difficili da misurare, a volte anche estranei alla pura razionalità. In quest’ambito i reggitori fiorentini dimostrarono una grandissima creatività. Potremmo dire che la cultura politica di Firenze nella seconda metà del ‘300 fu in grado di elaborare una ‘narrazione’ della città, una rappresentazione dei suoi valori e del suo ruolo nell’Italia del tempo funzionale a recuperare la credibilità e la fiducia perduta. Le componenti di questa narrazione sono due. Da una parte il guelfismo, cioè l’immagine di una città alleata con il papa. Da un certo punto di vista era un’immagine anacronistica, antiquata, perché richiamava le lotte di un secolo prima: ma era efficace perché rassicurava il più importante centro finanziario del tempo, la curia pontificia. Accanto al guelfismo il grande emblema della narrazione fiorentina fu la libertà. Libertà dai tiranni dei regimi signorili, libertà dei comuni legati alle loro antiche tradizioni di partecipazione. Evidentemente erano strumenti retorici, la cui funzione andava a rispondere ad esigenze anche molto prosaiche e non a nobili idealità. Ma così funziona la politica: sarebbe ingenuo separare in maniera rigida la sfera dei valori e delle dichiarazioni di principio da quella delle scelte concrete, perché si tratta invece di piani diversi che si intrecciano e condizionano vicendevolmente.

Come ne uscì l’imprenditoria cittadina?
Sarebbe un errore pensare, sulla scorta dei racconti molto drammatizzati dei testimoni contemporanei come Giovanni Villani, che il panorama dell’impresa fiorentina dopo il 1345 fosse coperto di macerie. In realtà fin dai primissimi anni dopo la crisi le fonti testimoniano la crescita di alcune grandi imprese familiari, attive sia nella manifattura che nella finanza internazionale. Un nome emblematico è quello della famiglia Albizzi, protagonista di una straordinaria impresa di lavorazione della lana, organizzata con grandi stabilimenti che sfruttavano l’energia idraulica lungo il corso dell’Arno. Controllando l’intera filiera della produzione, dal perfezionamento tecnico del tessuto fino alla tintura e alla commercializzazione, gli Albizzi poterono realizzare nel giro di pochi anni profitti importanti, ipotecando un futuro da protagonisti anche nel teatro politico cittadino. Al successo di questa nuova generazione di grandi imprenditori contribuì un fattore inaspettato e di per sé tragico, ma che ebbe effetti molto positivi nel medio periodo. Nel 1348 la città fu investita dalla spaventosa epidemia della Peste, che a Firenze come e più che in altre città italiana falcidiò la popolazione, in una proporzione di più di un terzo. Nell’immediato il crollo della popolazione condusse ad una destrutturazione del tessuto economico, ma nel giro di pochi anni emerse un fenomeno inaspettato, che gli stessi contemporanei stentarono a capire. La peste aveva distrutto gli uomini, ma non le ricchezze: immobili, beni preziosi, materie prime restavano a disposizione dei sopravvissuti. Con l’effetto da una parte di una impennata nella richiesta di manodopera, ora molto ridotta e quindi in grado di strappare condizioni salariali migliori, dall’altro di una inusitata disponibilità di beni anche per ceti sociali medi, diversi dalla ristretta élite. Gli studi hanno mostrato insomma come dopo la peste la disponibilità di beni fosse aumentata al di fuori della fascia più alta della società: questo creava un mercato più ampio per l’industria tessile come per l’attività edilizia. La ‘nuova’ imprenditoria aveva dunque la possibilità di trovare un mercato più ampio rispetto anche solo ad un decennio prima. Certamente l’equilibrio non era facile da mantenere, perché gli interessi imprenditoriali chiedevano una politica di bassi salari che consentisse margini più cospicui alle imprese delle manifatture, del tutto contraria alle aspettative dei ceti inferiori, ma anche grazie ad una attenta gestione della politica monetaria, quindi del cambio tra moneta d’argento e d’oro, simili aspettative contrapposte vennero ragionevolmente contemperate, almeno negli anni centrali del secolo.

Nel frattempo alcune famiglie cittadine stavano rinnovando la loro vitalità economica anche nella sfera finanziaria. In particolare la famiglia Alberti assunse nella seconda metà del secolo la funzione di banchieri del papa, che era stata già dei primi protagonisti dell’età d’oro come Mozzi e Acciaiuoli. La rete di relazioni finanziarie a vasto raggio venne insomma recuperata molto presto. Per far questo, il fattore decisivo fu la politica: i mercanti fiorentini riconquistarono di nuovo un rapporto privilegiato col papato essenzialmente in virtù del ruolo politico che la città poteva svolgere nello scacchiere diplomatico italiano.

In che modo si uscì dalla spirale di quel fatidico 1345?
La politica fiorentina, che non poteva contare come in passato sulle risorse illimitate delle grandi compagnie, si resse principalmente sulla crescita del debito pubblico. In questo senso davvero tutta la politica della seconda metà del secolo è figlia della bancarotta del 1345, nel senso che il governo di quella massa incredibile di denaro ‘virtuale’ fu la chiave che consentì a Firenze di attraversare una stagione incertissima. Nel giro di pochi anni l’ammontare del debito raggiunse la cifra astronomica di due milioni di fiorini. Una somma puramente virtuale, s’intende, perché era costituita da quello che nel corso degli anni i cittadini avevano versato come imposte, ma comunque una cifra impressionante. Se ci chiediamo come una città a governo repubblicano sia riuscita ad imporre ai cittadini uno sforzo fiscale così impressionante, la risposta sta nella libera negoziazione dei titoli del debito pubblico sul mercato secondario. Ricevere un interesse del 5% sulle imposte pagate era una iattura per i cittadini comuni, ma chi avesse avuto a disposizione capitali freschi, magari usciti dal circuito della finanza privata sconvolta dalla crisi delle compagnie, poteva acquistare i titoli, rastrellandone una porzione importante ad un valore di mercato molto basso, fino ad un quarto del valore nominale. Giocando tra quanto i titoli costavano sul mercato, e quanto invece rendevano per gli interessi calcolati sul valore nominale, si potevano fare affari.

La chiave per il problema del Monte erano evidentemente gli interessi: la somma virtuale del debito pubblico diventava concretissima quando su di essa si trattava di pagare gli interessi, per molte decine di migliaia di fiorini l’anno, cioè abbastanza per consumare quasi del tutto le entrate ordinarie del comune. La corresponsione degli interessi (le “paghe”) infatti era garantita dal trasferimento all’amministrazione del Monte degli introiti delle gabelle, le imposte indirette. In definitiva il sistema scaricava gran parte del peso del debito sulle classi inferiori, che non avevano modo di entrare nel lucroso gioco del debito pubblico e allo stesso tempo pagavano i costi delle imposte sui consumi. L’equilibrio resse finché durò l’ondata degli alti salari dei primi anni dopo la Peste, ma già negli anni ’60 la situazione veniva sentita come iniqua e insopportabile per i poveri. Il rovesciamento dell’amministrazione del Monte sarà così uno degli obiettivi principali del Tumulto dei Ciompi.

C’è da considerare poi un ulteriore fattore, che distingue la Firenze post 1345 da quella del primo Trecento. Alla metà del secolo era in pieno vigore una campagna di espansionismo militare che in poco più di cinquant’anni avrebbe assoggettato a Firenze buona parte delle maggiori città toscane. Probabilmente non si può attribuire ai governanti del tempo una vera e propria strategia di costruzione di una ‘regione economica’ integrata, ma certo la sottomissione di centri urbani ricchi e vivaci, per quanto depressi dal trauma della Peste, dava a Firenze come potenza dominante la possibilità di sfruttare il suo territorio, per lo meno a livello fiscale: le città soggette finivano per affiancare i ceti subalterni nel sostenere, loro malgrado, i costi della politica del debito pubblico.

Quali furono le conseguenze storiche della bancarotta di Firenze?
Come abbiamo detto sopra, l’imprenditoria cittadina trovò risorse sufficienti per superare la crisi, aiutata in questo senso dalle inopinate conseguenze della Peste. Ma la chiave di questo rapido recupero va trovata anche nelle iniziative politiche del ceto dirigente, che seppe elaborare una narrazione della città adatta a costruire un clima di affidabilità e credito. Se guardiamo all’intreccio tra politica e interessi economici nella seconda metà del secolo, rispetto a quello che si sarebbe potuto osservare prima del 1345, l’elemento più vistoso è senza dubbio la centralità del debito pubblico, sia come sfera di investimento, sia come risorsa del comune che il ceto dirigente si trovò a gestire e governare. Questo nuovo ceto dirigente fatto di grandi banchieri e imprenditori crebbe con la consapevolezza di dover governare il debito: di doverlo usare per guidare la politica della città, ma di doverlo anche alimentare, pure con pesanti sacrifici finanziari. Ho voluto concludere il volume con uno sguardo alla politica cittadina nel primo Quattrocento, per mostrare come quel ceto dirigente, pur con tutti i conflitti e gli interessi contrapposti, avesse acquisito un forte senso del governo, in cui la cura del bene della Repubblica e quella dei propri interessi si condizionavano a vicenda. Anche il volto monumentale della Firenze di quegli anni porta il segno di un simile condizionamento.

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