
Come si giunse allo scontro?
Come ho detto, la Meloria non fu altro che il risultato di decenni d’instabilità e di odi reciproci tra i due porti tirrenici. Per molti versi si trattò del punto d’arrivo d’un’atavica rivalità, centrata sul controllo delle principali rotte tirreniche – e, dunque, sulla necessità di garantirsi un sicuro vettovagliamento, in particolare granario, ma anche entrate daziarie dai porti sottoposti al proprio controllo –; ma fu anche la conseguenza d’un periodo di forti rivolgimenti del quadro mediterraneo – dalla caduta dell’Impero Latino di Costantinopoli, all’ascesa della potenza angioina, allo scoppio della guerra del Vespro, ai mutamenti delle principali rotte di commercio – capaci d’imprimere un’accelerazione a dinamiche in atto da tempo. Il “casus belli” va collocato in Corsica, nelle ambizioni d’un signorotto locale: un certo Sinucello della Rocca, giunto a edificare un castello nel territorio di pertinenza dell’insediamento genovese di Bonifacio, la cui azione ricevette il sostegno incondizionato di Pisa. A partire dal 1282, le acque del Tirreno iniziarono a popolarsi di piccole squadre navali impegnate in una pressante guerra di corsa, volta a bloccare la navi commerciali nemiche, che si protrasse per circa un anno e mezzo sino al primo, vero scontro navale, verificatosi ai primi di maggio del 1284, al largo di Tavolara, che vide una flotta pisana soccombere di fronte a una pari flotta genovese. I Pisani subirono un grave smacco, capace di far rizzare le orecchie alle città guelfe dell’entroterra, Firenze e Lucca, che da tempo osservavano l’incedere degli eventi pronte a collegarsi con la ghibellina Genova. Poco dopo, il comando delle operazioni fu affidato a colui che dal 1° marzo rivestiva la carica di podestà, la magistratura più importante in quel ginepraio ch’era la politica cittadina pisana di allora, in cui si mescolavano istanze egemoniche di famiglie eminenti, che detenevano cospicui possessi, in particolare in Sardegna, e istanze popolari: il veneziano Alberto Morosini, nominato, in giugno, signore generale de la guerra di mare; illudendosi, forse, che la patria di questi rompesse la tregua che la legava a Genova dal 1270. Si trattava, in effetti, d’una speranza mal riposta. Venezia non poteva che guadagnare dal vedere le principali potenze marittime mediterranee impegnate, chi per un verso, chi per l’altro, in lotte accanite! D’altra parte, diverse navi battenti bandiera veneziana – ma anche amalfitana e catalana, cui Pisa aveva affidato la propria sopravvivenza commerciale – furono oggetto d’attenzione della corsa genovese, che aveva nell’ammiraglio e mercante Benedetto Zaccaria uno dei propri massimi rappresentanti. Questi, al comando d’una flotta di 30 galee armata ad apodixias – dunque, senza compenso, eccetto la possibilità d’incamerare parte della preda –, prese a incrociare tra la Corsica e la Sardegna con fare minaccioso, interrompendo i rifornimenti pisani. La città, progressivamente ridotta alla fame, decise ch’era giunto il momento di farla finita. Il 6 agosto era, ormai, vicino.
Chi furono i protagonisti della battaglia?
Vorrei dire, in prima battuta, i combattenti. Certo, gli ammiragli hanno un ruolo chiave in tutta la vicenda. Ma la battaglia fu sostenuta dai “cives” di entrambe le città: nobili e popolari, senza distinzioni, tracce dei quali rimangono nei cartolari notarili dell’epoca. Certamente, le cronache coeve si concentrano sui vertici. Dal punto di vista pisano, la figura eminente è quella del podestà forestiero. Nato attorno al 1240, membro d’una delle casate più antiche e influenti di Venezia, Alberto Morosini aveva dalla sua il peso dell’esperienza. Più volte membro del Maggior Consiglio, era stato conte di Zara; quindi, aveva ricoperto il ruolo di bailo veneziano ad Acri. Nel 1281, era stato eletto podestà di Treviso per poi ricoprire, due anni dopo, la carica di consigliere del doge, prima di passare alla podesteria di Chioggia. La sua carriera non aveva visto grossi impegni marinari o bellico-navali; piuttosto, egli s’era distinto per le proprie capacità diplomatiche e amministrative. Nonostante ciò, nel corso della battaglia, si sarebbe battuto strenuamente, in prima persona, sino a essere ferito al volto turpemente. Perché? È stato sostenuto che la sua figura, certamente carismatica, non fosse altro che la risposta dei Veneziani, impossibilitati a intervenire in altro modo, alle richieste pisane. Non va dimenticata, però, una certa dose d’ambizione personale. Dopo aver passato tre anni nelle carceri genovesi, Alberto sarebbe stato nominato duca di Candia; quindi, si sarebbe trasferito in Ungheria, al seguito del nipote, Andrea, erede secondario della casa reale; fortunosamente, eletto al trono alla morte di Ladislao IV, nel 1290.
Figura non meno interessante era quella di Benedetto Zaccaria. Figlio di Fulcone, della famiglia degli Zaccaria «de Castro», e di una certa Giulietta, egli aveva alle spalle un’ampia e articolata esperienza di pirata, corsaro e mercante. Ambasciatore a Costantinopoli nel 1264, aveva ottenuto da Michele VIII il possesso Focea, sulla costa anatolica, facendone il centro del monopolio genovese dell’estrazione e del commercio dell’allume, smerciato sino ai porti inglesi e fiamminghi dopo l’apertura, nel 1277, d’una rotta regolare oltre le Colonne d’Ercole. Nel 1280 era stato vittima d’una brutta avventura, che non aveva fatto altro che incrementarne l’odio nei confronti di Venezia. Giunto con due galee nei pressi di Zara, era stato invitato a pranzo dal conte Scopolino Tiepolo, che amministrava la zona per conto del doge. Tuttavia, l’invito s’era tramutato in un arresto, cui era seguita la sua traduzione a Venezia. E ciò a causa del sospetto ch’egli contrabbandasse merci degli Anconitani, allora in guerra con la città della laguna. N’era seguita una lunga vertenza, che aveva visto lo Zaccaria pretendere inutilmente un risarcimento per i danni subiti. Nel corso dei due anni successivi era stato in servizio dell’imperatore greco, impegnato a condurre un’ambasciata presso le corti di Castiglia e d’Aragona volta a sostenere la lotta contro Carlo d’Angiò. Quindi, era stato chiamato dalla madrepatria per prendere il comando della squadra espressamente deputata alla guerra di corsa. Alla Meloria, la sua azione sarebbe stata decisiva. Dopo la battaglia, seguiterà a condurre una serie di offensive contro il litorale pisano, prima di passare in servizio di Sancho IV di Castiglia; quindi, di Filippo IV di Francia, per poi volgersi ancora verso Oriente, ottenendo da Andronico II Paleologo l’investitura delle isole di Chio, Samo e Cos. Siamo di fronte, dunque, a un personaggio d’eccezionale levatura, la cui esperienza nella guerra navale, in particolare nell’Egeo, era, ora, sfruttata per rastrellare i legni nemici. La sua azione si sarebbe spinta sino a operare una sorta di blocco delle comunicazioni nei confronti del litorale toscano. Un blocco che potrebbe aver inciso sulla decisione, da parte di Pisa, di giungere velocemente a battaglia.
Di Oberto Doria, capitano del popolo genovese, sarebbe troppo lungo dire. Basti pensare ch’egli tenne le redini della politica cittadina tra il 1270 e il 1285, di concerto con Oberto Spinola. Non si trattava, a ogni modo, d’un lupo di mare. Il suo comando dovette fare leva sul consiglio dello Zaccaria.
Quali conseguenze ebbe la battaglia della Meloria?
Le conseguenze della battaglia furono molte e notevoli. A seguito degli scontri consumatisi tra il 1282 e il 1284, le carceri genovesi si riempirono d’oltre 9000 pisani. Una cifra ingente per l’epoca. La maggior parte sarebbe rientrata in patria nel 1299, a seguito della pace. Si possono immaginare i riflessi sulla politica interna, sull’economica, sulla diplomazia. Insomma: si trattò d’una svolta importante, benché molti storici – a mio avviso per eccesso di revisione – tendano a limitarne la portata. Certo, non è più possibile ritenere che l’esito dello scontro abbia significato, per Pisa, l’abbandono della sua attività marittima. Per tutto il Trecento, i Pisani avrebbero seguitato a frequentare i porti mediterranei, costituendo compagnie mercantili e finanziarie simili a quelle attive a Firenze. Fu, piuttosto, la perdita della Sardegna, caduta in mano aragonese negli anni Venti del XIV secolo, a imprimere una riorganizzazione della propria economia. Non, certo, la Meloria. Allo stesso modo, Genova non ricevette particolari benefici dallo scontro se non la sicurtà di potersi misurare, ormai, con la sua vera rivale mediterranea: Venezia, l’unica a poterle tenere testa. È quanto sarebbe accaduto di lì a poco.